Di questi scenari l’autore è però consapevole, infatti aggiunge che «questa ipotetica rivoluzione» in cui il libro «verrà nebulizzato» non costituisce problema, dato che i libri saranno accumulati su supporto leggero e questo non intaccherà il fatto che «il cammino di una formazione avvenga sempre attraverso i libri» (ivi). La fisicità del testo, dunque, potrebbe andare persa, ma la metafisica del libro, la sua “anima” vorrei dire, sarà salva, perché il libro, scrive Recalcati, è la «narrazione di un’esperienza» (p. 39).
Proprio sulla parola “esperienza” l’autore fa leva per chiarire il valore vivificante dell’incontro col libro. Perché è proprio di un incontro che si tratta, anzi, di uno capace di cambiare la vita: «I libri si incontrano a Scuola, ma questi incontri spalancano la vita al di là della Scuola» (p. 41). Nella seconda parte del libro, l’autore esemplifica questi passaggi attraverso una testimonianza personale in cui presenta l’impatto che alcuni libri hanno avuto su di lui, così che il libro è nel complesso un’autobiografia narrata attraverso alcuni libri (l’Odissea, il Vangelo, Il sergente nella neve, La nausea, Essere e tempo, Al di là del principio di piacere, L’idiota della famiglia, gli Scritti di Lacan, La strada di McCarthy).
Per restare al tema del libro e della scuola (e anzi restringendo qui, come invece l’autore non fa, il discorso all’adolescenza), mi pare che Recalcati idealizzi il ruolo che il libro gioca nella scuola, forse proiettando il suo io maturo su un’età che per lo più non è mossa da quella passione intellettuale che di solito invece si acquisisce con gli anni. Essa nasce sia dalla scoperta del piacere della lettura, di cui spesso l’adolescente non sospetta la possibilità, sia dalla motivazione alla lettura per fini creativi, come avviene in ambiente universitario, a un certo punto della propria formazione.
Del resto, lo stesso Recalcati non ha letto, propriamente, i primi due libri di cui parla nella seconda parte: il primo, come egli riconosce, l’ha «incontrato» attraverso uno sceneggiato televisivo e il secondo attraverso la pratica cristiana in cui è stato educato. La maggior parte dei libri di cui Recalcati scrive nella seconda parte sono poi letture che egli ha svolto negli anni universitari, cioè ben dopo la scuola.
A ben vedere, invece, il rapporto degli adolescenti col libro vede questi spesso passivi, scarsamente esplorativi. Si tratta di un rapporto mediato dai filtri del docente che, per esempio, assegna le pagine, salta i capitoli, analizza il passo, parafrasa l’enunciato, sintetizza l’idea. In tutto questo, lo studente è spettatore di un dire di altri, l’autore, mediato dalla pratica professionale di terzi, l’insegnante. Insomma, lo studente assiste al leggere altrui, cioè al percorso che il professore ha deciso di compiere.
Nella pratica scolastica quotidiana, il libro è qualcosa che deve essere letto, compreso, forse memorizzato, e ciò, a volte, persino a prescindere dalla verità dei suoi contenuti (come quando si parla di un autore trattandolo storicamente, ma prescindendo dalla verità delle tesi che questi sostiene), indipendentemente dalla vita e dall’esperienza che esso esprime. La forma saggistica del libro con cui lo studente ha di solito a che fare lo rende uno strumento impersonale, un oggetto da usare, perché facilita l’accesso alle idee e alle pratiche che ci si attende dallo studente.
L’andare «verso l’universo del libro», per stare alle parole di Recalcati, nella vita scolastica di oggi, non è quel trionfale veleggiare verso altezze che ci trasformano in meglio. Si tratta piuttosto di un sofferto rapporto con qualcosa che pesa, che rende eteronomi e che vincola il dire a una oggettività che tarpa le ali e per cui la passività e la noia, il grigio riprodurre, sembrano essere una zavorra ineludibile.
Se le cose stanno così, ciò significa che c’è qualcosa che non va nella pratica tradizionale? La domanda sembra quasi retorica, ma proviamo a esplorare intanto almeno alcune delle ragioni per la conservazione della pratica tradizionale.
Essa, certo, per lo più mette di fronte a un libro, e lo studente si annoia e rimane passivo, ma questo di solito non dipende né dal libro né dalla pratica in sé, quanto piuttosto dalla motivazione con cui lo studente vive lo studio. Andrebbe perciò fatto un lavoro a monte, sulla motivazione allo studio.
In secondo luogo, il rapporto col libro letto, a volte, è, ed è bene che sia, noia e grigio riprodurre.
Proprio l’esperienza della fatica del testo è una delle opportunità formative più importanti della scuola, a mio parere. Il fatto di essere costretti a stare sul testo, l’educazione a rispettarne l’oggettività, le asperità, l’irriducibile alterità sono guadagni intellettuali preziosi, sono pratiche formative che ci si porta con sé per la vita. Ridurre il rapporto col libro a un’esperienza di fascinazione e incontro amoroso è propagandistico, è una violenza a quella che è e dovrebbe essere l’avventura per nulla rassicurante del rapporto con l’altro che nel libro si dà.
Naturalmente Recalcati è ben consapevole di questo, infatti – ad esempio – descrive la lotta furibonda che ingaggia con l’impenetrabile testo delle opere di Lacan, testo del quale, a un certo punto, ha trovato la chiave di accesso. Senza la formazione alle pratiche di lotta col testo, senza l’addestramento alla noia della lettura, senza l’esperienza del rispetto dell’oggettività testuale, l’esoterico testo di Lacan sarebbe rimasto per Recalcati un ostacolo insuperabile, un’alterità invincibile. Dunque, ben venga la scuola che insegna queste pratiche, la fatica impiegata per acquisirne la maestria è un investimento da farsi.
Ciò detto, resta però ancora viva la domanda se davvero non valga la pena di fare nulla per cambiare le cose. Provo qui a proporre due idee, e a segnalare la necessità di continuare quella che è una pratica consolidata, che però risulta sempre più difficile.
Quanto a quest’ultima, Recalcati stesso la menziona: il suo professore delle medie indicò Il sergente nella neve come lettura fuori programma. Non ci si deve, insomma, stancare di proporre letture fuori programma, anche se la pigrizia degli allievi, lo scandalo dei colleghi (“sono già troppo impegnati nei progetti!”), il disfattismo dei disillusi, la stanchezza per tante battaglie perse possono essere un deterrente.
La prima delle mie proposte è prevedere sistematicamente nella programmazione una didattica della lettura del libro in cui si metta a tema la lettura stessa e si mostri come il lettore sia letto dal testo, come Recalcati mostra brillantemente. La seconda riguarda un consapevole ripensamento della manualistica, non di rado arida, impersonale e disattenta all’esigenza di comunicare un’esperienza, invocandole contro, impropriamente, le ragioni di una presunta scientificità che spaccia per rigore ciò che è la morta riproposizione di idee staccate dalla vita.
Perché questo possa avvenire però dovrà cambiare una mentalità ancora diffusa; nel frattempo, consiglio la lettura dell’autobiografia di Recalcati scritta attraverso i libri, che sicuramente dà da pensare.