Ho sedici anni quando leggo per la prima volta la terzina iniziale dell’Inferno: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita». La conosco già, non ricordo da quando, è una di quelle cose che un ragazzo della mia generazione (siamo negli anni Settanta) e della mia estrazione sociale (genitori laureati, villetta piena di libri nell’hinterland milanese…) in qualche modo ha succhiato col latte materno. Ma adesso, a sedici anni, leggo per la prima volta davvero i versi famosi, in un’edizione scolastica commentata.
E scopro che i versi di Dante sono confinati lassù, uno nella prima pagina e due nella seconda, e tutto il resto dello spazio è occupato da note fittissime, che ne spiegano il significato attraverso citazioni per me oscure, alcune in latino, dai Salmi al Convivio, e poi rimandi alla critica, dall’Ottimo al Sapegno… Ne rimango sbigottito. Eppure mi sembrava che il significato fosse chiaro. Perché tante spiegazioni? Cosa mi era sfuggito?
Erudizione o poesia
Leggo le note. Le studio, anzi. Ne ricavo moltissime informazioni, ma (me ne renderò conto solo più tardi, naturalmente) non una migliore comprensione del testo, anzi: in parte queste note tradiscono, mi pare, l’intenzione del poeta.
Mi viene spiegato per esempio che Dante inizia il suo viaggio nella primavera dell’anno 1300: si tratta di una doppia anticipazione, poiché Dante mi dirà che è primavera pochi versi più avanti, nel canto I, e aspetterà addirittura il canto XX per chiarire, attraverso le parole del demonio Malacoda, che siamo nell’anno 1300. Perché fornirmi subito queste informazioni, se Dante ha deciso altrimenti?
Mi viene spiegato che, secondo Dante, la vita umana aveva la durata ideale di 70 anni, e quindi lui immagina di compiere il suo viaggio a 35, cioè al culmine della sua maturità fisica e intellettuale. Lo dice nel Convivio. Ma qui, nella Commedia che stiamo leggendo, Dante dice soprattutto un’altra cosa, e cioè che la sua esperienza individuale ha valore universale – questo è il valore poetico di quel possessivo “nostra vita”. Forse siamo tutti, in ogni momento, nel mezzo di un cammino, stretti come siamo fra passato e futuro, impegnati in un percorso che è la vita stessa, a prescindere dall’età anagrafica. E forse a tutti, prima o poi nella vita, capita di ritrovarsi, senza sapere come, in condizioni disperate, e di prenderne coscienza all’improvviso, come risvegliandosi da un sonno, e viene colto perciò dalla paura (parola chiave di tutta la prima metà del canto, fino all’incontro con Virgilio).
Dante, come sappiamo, nella Commedia non si rivolge solo agli intellettuali, ai letterati e ai filosofi, ma anche alle mulierculae e agli osti. L’incipit del poema fa appello alle nostre emozioni e al nostro vissuto, diremmo oggi, prima che alla nostra enciclopedia letteraria.
Il piacere di non capire
Che la Commedia abbia bisogno di note non è evidentemente in discussione. La pretesa di leggere il testo in maniera ingenua, con buona pace di Borges, porta a grossolani fraintendimenti e in molti casi alla pura e semplice incomprensione. È altrettanto evidente, però, che in molti casi dobbiamo presupporre che Dante prevedesse una comprensione parziale del testo da parte del suo lettore.
Un esempio famoso dal canto V dell’Inferno: Francesca conclude il suo primo discorso dicendo «Caina attende chi a vita ci spense» e la nota subito spiega che la Caina è la prima delle quattro zone in cui è diviso il IX cerchio e che vi si trovano i traditori dei parenti. Ora, il termine «Caina» è un’invenzione di Dante. Il lettore a cui il poeta si rivolgeva sapeva bene chi era Caino e cos’aveva fatto: poteva quindi intuire, sia pure confusamente, di cosa si trattava – e proprio in questa indistinta minacciosità del termine sta la sua carica evocativa, la sua forza di suggestione.
Un altro esempio, dal canto successivo: il verso «Pape Satàn, pape Satàn aleppe» è regolarmente accompagnato da più o meno dotti tentativi di interpretazione, dal Trecento a oggi. Ma perché non ipotizzare che il verso non voglia essere “tradotto”, bensì apprezzato proprio per la sua incomprensibilità e per il vago terrore che ne promana?
La mappa del viaggio
Un caso meno puntuale e più strutturale è quello del famigerato “imbuto” che schematizza la struttura del primo regno, con cui si aprono tutte le edizioni del poema.
Come è noto, Virgilio fornisce al suo allievo la mappa dell’abisso infernale solo nel canto XI, quando ha già percorso ben sei cerchi su nove. Fino a questo momento, il lettore ideale di Dante ha scoperto a poco a poco insieme al protagonista com’è fatto l’abisso sotterraneo. La mappa che qui gli viene fornita consente al lettore (come al Dante personaggio) di procedere in una condizione di autonomia e di consapevolezza assai diversa: da qui innanzi, lettore e pellegrino non saranno più condotti alla cieca, ma sapranno in ogni momento a che punto del percorso si trovano.
Il canto XI contiene quindi un riconoscimento decisivo. È come se l’io narrante dicesse al suo lettore: mi hai seguito fin qui, condivido con te il mio progetto, ti riconosco il diritto di sapere come proseguiremo d’ora in poi, di entrare nella cabina di comando. Lo schema a imbuto in apertura di libro anticipa forzatamente questo “patto”: fornisce informazioni, certo, ma fa perdere un elemento prezioso di strategia testuale.
Una modesta proposta
È difficile naturalmente pensare a una Commedia priva di queste note. Un commento che non spieghi fin dall’introduzione la mappa dell’Inferno, o che non discuta nel canto I la cronologia del viaggio, o che non anticipi nel canto V il significato della parola «Caina», rischierebbe di apparire lacunoso. Forse la soluzione migliore consiste nel coinvolgere il lettore nel commento stesso: nello spiegare cioè che cos’è la Caina e nel far rilevare al contempo il carattere volutamente misterioso della parola, che nelle intenzioni dell’autore trova la sua spiegazione assai più avanti; nel riportare le ipotesi sul significato di «Pape Satàn», dichiarandone la probabile vanità. Sarebbe anche un’utile indicazione di metodo.