Il titolo della mostra centrale curata da Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, è ripreso da quello di un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011), artista e scrittrice britannica, vicina negli anni Trenta al Surrealismo, poi protagonista di un percorso autonomo, portato avanti dal trasferimento in Messico nel 1942.
Si tratta del titolo più puntuale fra quelli delle ultime Biennali: perché Carrington, con le sue opere perturbanti e oniriche, popolate da figure femminili talvolta ibridate con animali, è immagine del “re-incantesimo del mondo”, citazione di un’espressione della teorica femminista Silvia Federici ripresa da Alemani per raccontare il suo “viaggio immaginario” nell’arte, fantastico e mitopoietico.
Come in I bambini del compost, la “fabula speculativa” scritta da Donna Haraway – anche lei filosofa di riferimento per Alemani – a termine del suo saggio Chtulucene, Il latte dei sogni si anima di personaggi metamorfici, che abbattono i confini fra natura e cultura, proponendo un paradigma post-modernista, non-gerarchico (almeno apparentemente) e non-conforme alle narrazioni storiche ufficiali.
Non a caso Il latte dei sogni parte proprio dalla risignificazione della storia: fra il padiglione dei Giardini e l’Arsenale sono allestite cinque “capsule”, micro (neanche troppo) mostre storiche che costituiscono una sorta di premessa e fulcro tematico per contestualizzare le scelte contemporanee. La più significativa è la prima, La culla della strega, che presenta le opere di Carrington insieme ad altre protagoniste dell’avanguardia (surrealista e non solo) che hanno lavorato, con diverse accezioni, sul concetto di metamorfosi. Vi è così la trasformazione in Neue Frau, “donna nuova” e indipendente di inizio Novecento, rappresentata tanto dalla liberatoria sensualità di Josephine Baker quanto dall’androginia degli autoritratti di Claude Cahun, puntuale anticipatrice di un’immagine non binaria; ma vi è anche la trasformazione della propria identità culturale, che cerca di sottrarsi alla visione eurocentrica, coloniale e razzista, rappresentata dai movimenti della Négritude e dell’Harlem Renaissance (movimenti, rispettivamente, francofoni e americani degli anni Venti), e qui particolare attenzione meritano le bellissime copertine Déco della rivista The Crisis, realizzate negli anni Venti da Laura Wheeler Waring. Fermenti di rinnovamento del pensiero – prima ancora che dell’estetica – accompagnati, come spiriti guida, dalle donne-gufo di Carrington, dalle immagini occulte di Ithel Colquhon, dai mondi paralleli di Dorothea Tanning.
Il Surrealismo è quindi la traccia di tutta l’esposizione, specificatamente il Surrealismo degli anni Trenta, più internazionale, già vicino agli Stati Uniti, meno unitario, marxista, materialista e politicizzato, e più proteiforme, aperto a soluzioni individuali, al mito, alle tradizioni locali.
Fuori dalle capsule dominano le opere a parete, spesso con riferimenti a culture non dominanti e non bianche: le luccicanti reinterpretazioni di bandiere vudù di Myrlande Constant (1968), cosparse di lustrini e perline di vetro, il simbolismo afrocubano di Belkis Ayón (1967-1999), le maschere monumentali di Tau Lewis (1993), ispirate alla cultura nigeriana Yoruba. Il sapere indigeno diviene lettura alternativa, post-moderna, archetipica, immaginifica, prima ancora che denuncia della condizione post-coloniale; fa eccezione il video, giustamente Leone d’argento, del libanese Ali Cherri (1976), poetica metafora della devastazione provocata dalla costruzione della diga di Merowe in Sudan.
Come nella tradizione, la favola può farsi anche racconto cupo, grottesco, angosciante: le narrazioni della portoghese Paula Rego (1935), rappresentate da dipinti, bambole di pezza e da un portfolio di stampe ispirato a filastrocche per bambini, sono immagini disturbanti di violenza domestica; la video-installazione della britannico-croata Marianna Simnett (1986) racconta la perdita della coda di una ragazza/porcellina (ribaltamento dell’animale antropomorfizzato delle favole) in un viaggio grottesco e talvolta comico che attraversa club feticisti, concorsi di bellezza, re disgustosi; l’italiano Diego Marcon (1985) usa un canto delicato da musical per raccontare, in un breve video, un efferato omicidio-suicidio.
In questo trionfo dell’immaginazione mitica, onirica, lo strumento di sovvertimento primario diviene – come già negli anni Novanta – il corpo, ri-immaginato, ibridato e deformato: innestato di piante come nelle opere del messicano Felipe Baeza (1987); traslucido, fantascientifico, prezioso nelle sculture della rumena Andra Ursuta (1979), morbido, femminile, deformato, nelle sculture in stoffa di Emma Talbot (1969) o svuotato, ridotto a pura forma nelle opere di Sara Enrico (1979).
Estremamente coerenti con il concept della mostra sono i premi assegnati: Leone d’Oro alle monumentali sculture, già museali, di Simone Leigh (1967), protagonista del padiglione USA, che celebrano la soggettività femminile nera, e miglior padiglione alla Gran Bretagna con l’opera di Sonia Boyce (1962) delicato collage di performance vocali di musiciste nere. I Leoni alla carriera vanno alle sculture neopop e stranianti di Katharina Fritsch (1956), di cui è esposto un grande elefante ad apertura del padiglione nei Giardini, sorta di animale guida e alter ego fiabesco, e a Cecilia Vicuña (1948), con le sue sculture precarie e i dipinti ispirati al pensiero indigeno peruviano.
È una Biennale chiara, perfettamente allestita, che regala bellissime opere contemporanee ed emozionanti scoperte storiche – una su tutte, i costumi anni Venti per una danza espressionista di Lavinia Schulz e Walter Holdt. E sono del tutto inconsistenti le polemiche relative alla ridicola “discriminazione” dell’uomo – inteso come maschio – nella scelta degli artisti, da citare solo per constatare quanto in Italia sia ancora forte la cultura patriarcale.
Viene semmai da interrogarsi sul tipo di lettura che Alemani propone rispetto all’arte contemporanea e alle istanze femministe, in primis della citata Federici. Fra dipinti e sculture, visioni assolutamente personali di grande spessore, non rimane infatti molto delle proposte di collettivizzazione e di creazione di tessuti sociali solidali della parte più attivista delle idee femministe: poco presente l’utopia dell’opera come luogo di scambio e partecipazione, così importante fino a qualche anno fa, tanto che persino il tema del “cyborg” è trattato più attraverso la rappresentazione di un corpo ibridato che una qualsiasi interazione uomo macchina. Il re-incantesimo è il sogno di un mondo alternativo, ma individuale e non collettivo: e lo dimostra bene l’accostamento fra le opere di poesia concreta, momento di sforzo decostruttivo del linguaggio, materiale e anti-individualista, e la scrittura medianica e spiritista di inizio Novecento, forse la maggiore forzatura storica fra le capsule.
Il latte dei sogni è una Biennale aperta alle culture non-bianche e alle storie alternative, in cui però, parafrasando uno slogan della seconda ondata femminista, il personale, più che politico, è estetico. È un velato disimpegno che può preoccuparci, ma anche, forse, un’affermazione di coerenza, in una manifestazione che rappresenta un sistema consolidato, quello sì irrimediabilmente dominante e borghese.