Il giardino sofferente di Leopardi, tra scienza e letteratura

Tempo di lettura stimato: 6 minuti
C’è spesso, tra le pagine dei giornali, la notizia che l’università di qualche località remota (una volta negli USA, ora più spesso in Cina…) ha fatto scoperte sensazionali. Spesso riguardano la lotta alla calvizie, il rapporto tra uova e colesterolo, gli effetti benefici (o malefici) del caffè, i rischi dell’insonnia ecc. Noi le leggiamo, ci riflettiamo un po’ su, e poi, non sentendone più parlare, ce ne dimentichiamo. Ciò ci consente di tornare ai vecchi, sani e poco accademici luoghi comuni: la calvizie è ereditaria, un paio di uova non fanno male – così come due caffè al giorno – ed è meglio dormire 7-8 ore per notte… Così parlò (anche) Zarathustra, oltre che nostra nonna.

I risultati di una nuova ricerca

Stavolta, però, è diverso. Infatti i ricercatori del Dipartimento di Botanica dell’Università del Wisconsin-Madison, che hanno lavorato insieme con i colleghi dell’Università del Missouri, dell’Università di Saitama (Giappone) e dell’Università Statale del Michigan, hanno scoperto che anche le piante, se ferite, lacerate, “soffrono”, e che le loro reazioni dipendono dagli stimoli di una molecola (l’amminoacido glutammato) che produce reazioni analoghe pure negli animali. Ciò mi ha profondamente interessato, anche perché tutti i giornali o le pagine web che hanno riferito la notizia degli esiti della ricerca (pubblicata sull’autorevole rivista Science) hanno portato l’esempio della foglia “attaccata” dal bruco…

Leopardi, allora, aveva ragione?

Come poteva allora, a un vecchio prof di Lettere, non venire in mente la straordinaria descrizione del giardino sofferente – quasi fosse un vasto ospitale – fatta nello Zibaldone da Giacomo Leopardi? Sì: anche Leopardi parla di api, bruchi, lumache che tormentano le piante, e usa per i vegetali sofferenti espressioni come ferito, offeso o trafitto, che non stonerebbero se riferite a un uomo. La scienza, dunque, ci sta dicendo che il giardino di Leopardi non è solo allegoria o correlativo oggettivo del cosiddetto “pessimismo cosmico”, ma la manifestazione di qualcosa di reale? E che i testi dei sensisti francesi e inglesi che Giacomo aveva già letto furtivamente nella biblioteca del conte Monaldo non mentivano, o almeno no del tutto?

I

l parere di un esperto

Per capirne un po’ di più ho chiesto lumi sulla nuova scoperta a un mio “fidato” collega che insegna Scienze, il professor Marco Arcioni. Riporto qui sotto, dunque, le sue interessanti riflessioni, che gli ho chiesto di formulare senza indulgere troppo in tecnicismi.

L’argomento – come ciascuno può immaginare – meriterebbe un maggior approfondimento, ma qualche considerazione può essere ugualmente fatta.

Come ogni organismo vivente, le piante ricevono stimoli dall’ambiente, ma sono incredibilmente anche in grado di rielaborarli e trasmetterli. Si tratta in realtà di un pensiero che risale alla seconda metà dell’Ottocento (come, ad esempio, possiamo leggere in Power of the Movement in Plants di Charles Darwin, del 1880), ma che oggi, specialmente in ambiente accademico, fa parecchio discutere. Proprio come è avvenuto in seguito alla pubblicazione su Science della ricerca a cui abbiamo fatto riferimento.

Certo le piante non hanno un sistema nervoso, e il meccanismo cellulare con cui avviene la trasmissione dello stimolo è diverso rispetto a quello proprio degli animali. Il segnale, sotto forma di ioni calcio, viaggia infatti nel sistema vascolare della pianta, e non nei nervi, ed è scatenato, come visto, dal glutammato (uno dei venti amminoacidi di cui sono composte le proteine). Già si conoscevano diversi recettori nelle piante per questa molecola: oggi, forse, si inizia a comprenderne anche la funzione.

Il fatto, poi, che il glutammato sia un neurotrasmettitore (bene rappresentato dagli omini che correvano con un foglio di istruzioni in mano nel cartone animato Siamo fatti così…), forse è una conferma che, nel processo evolutivo, una volta trovata una “soluzione” a un problema, questa possa essere (ri)utilizzata in situazioni anche molto lontane.

Torniamo a Leopardi, allora… 

Dunque non è del tutto insensato – mi pare – leggere il nostro passo dello Zibaldone con la “lente d’ingrandimento” consegnataci dalle più recenti scoperte scientifiche, che confermano verità già parzialmente conosciute nei secoli passati. Tra l’altro, il collega Arcioni e io abbiamo deciso di farne una sorta di “approfondimento parallelo” e interdisciplinare (termine un po’ fuori moda, ma che a me non dispiace…) con i nostri studenti di terza liceo classico.

Intendiamoci, che il testo leopardiano in questione fosse meraviglioso e terribile nel contempo già lo sapevamo. Chi infatti non è rimasto turbato davanti a questo anti-eden, a questa perfetta antitesi del locus amoenus? E chi se la dimentica più la donzelletta sensibile e gentile, che però va dolcemente sterpando e infrangendo steli, in barba a qualunque cliché stilnovistico? Da oggi in poi, comunque, lo leggeremo con una superiore consapevolezza della qualità del suo contenuto, e – se mai fosse possibile – della grandezza del suo autore.

Pertanto, affinché ognuno possa gustarle al meglio, riporto qui sotto le riflessioni che Leopardi ha prodotto il 19 e il 22 aprile del 1826.

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna, 19 Aprile 1826).

Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. (Bologna, 22 Aprile 1826).

Condividi:

Marco Arcioni

È docente di Scienze nei Licei, consulente editoriale e fotografo.

Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it