Alcuni anni fa un amico dotato di acume naturale, parlando delle (allora) future auto a guida autonoma, sostenne che il problema del loro utilizzo si sarebbe dovuto affrontare in sede etica e politica, più che scientifica o tecnologica… La spiegazione, a suo dire, stava nell’autonomia decisionale che tali mezzi di trasporto avrebbero avuto nel determinare le conseguenze di un incidente inevitabile.
Diceva: «Arrivo a velocità sostenuta a un incrocio e mi imbatto in pedoni che attraversano la strada; il cervello della mia auto effettua un calcolo velocissimo e decide chi sacrificare, andando a schiantarsi contro i passanti o, più probabilmente, contro un muro. Qualcuno ci rimetterebbe la vita, ma la scelta del chi e del come sarebbe interamente fuori dal controllo degli sventurati protagonisti».
Fu quella la prima volta che mi resi conto che si poteva in effetti ragionare sull’Intelligenza Artificiale in una prospettiva non più fantascientifica ma realisticamente quotidiana. Certo, le mie scarse conoscenze sull’argomento mi spingevano ancora verso gli scenari distopici inaugurati, nella mia giovane testa di spettatore, da Kubrick e Cameron: le auto a guida autonoma, a un certo punto, compreso il proprio potere, si sarebbero ribellate e avrebbero soggiogato gli umani, con conseguenze catastrofiche non tanto sulla viabilità (probabilmente migliorata), quanto sulla libertà di uomini e donne, destinati a tramutarsi in servi alienati della filiera produttiva dell’industria automobilistica… (lo so, lo so… detto così non sembra più tanto fantascientifico!)
Oggi, dopo qualche lettura più approfondita e la preparazione di questo numero de «La ricerca», una cosa credo di averla capita: parlare di Intelligenza Artificiale si può, certo, ma a patto di premettere “cosiddetta” alla locuzione.
Una parte degli articoli presenti in questo numero, in effetti, si preoccupa proprio di precisare che l’intelligenza propriamente detta non può essere che naturale, perché all’artificio tecnologico, pur avanzatissimo, mancano alcune caratteristiche fondamentali, come l’autocoscienza, la capacità di empatia, l’identità di un corpo inteso come “organismo”, la condizione mortale, la libertà…
D’altro canto, sfatato il mito negativo di Hal 9000, la tecnologia di cui parliamo, ricondotta entro limiti più concreti (e angusti), offre opportunità di riflessione mai prima immaginate: la crescente potenza di calcolo, in effetti, sommata all’accumulo di dati, agli strumenti di riconoscimento facciale e di interpretazione somatica, rende queste “macchine” incommensurabilmente efficaci e pervasive. Utilissime, quindi.
E pericolose, suppongo.
E qui, come nel gioco dell’oca, torno al “Via” e riconsidero l’esempio da cui sono partito.
La mia auto, lanciata a velocità sostenuta verso l’incrocio, si accorge di non poter evitare i pedoni che lo attraversano.
Cosa fa?
Uccide me perché sono uno, mentre i pedoni sono due?
Decide di salvare chi rispetta la legge, schiacciando loro se non sono sulle strisce pedonali, o me, se non ho rispettato il semaforo?
Confronta l’età stimata delle persone, per arrecare il minor danno sociale possibile?
O ancora, monetizza la perdita delle nostre vite, valutando attentamente le clausole della mia polizza assicurativa, debitamente memorizzata?
Forse farà un mix di tutte queste cose, tendando di risolvere a suo modo il cosiddetto “dilemma del carrello ferroviario” (che trovate facilmente in rete).
Forse…
Intanto, però, procedendo di ipotesi in ipotesi, io arrivo alla domanda fondamentale: a quale intelligenza naturale vanno imputate le premesse da cui discende il ragionamento della mia automobile? E in quali fondamenti etici e politici trovano la propria legittimità?
E in ultimo (but not least!): in questa inesorabile determinazione ad agire, quale spazio resta, fatto salvo il momento dell’acquisto, per l’espressione della mia libera volontà?
Il numero è sfogliabile e scaricabile interamente qui: https://laricerca.loescher.it/la-ricerca-18/