Nel sistema scolastico italiano sembra perdurare ancora la dicotomia novecentesca tra scuole del fare e scuole del pensare, ovvero tra Istituti a carattere professionalizzante e Licei, anche la riforma in cantiere da parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito non si discosta da tale modello, anzi, perlomeno nel disegno di legge varato dal governo, la formazione on the job degli Istituti tecnici e professionali verrà significativamente rafforzata.
Esiste sicuramente un problema, in Italia, di disallineamento tra la domanda di figure professionali da parte delle aziende e le competenze in uscita degli studenti, ma il gap non si può risolvere potenziando esclusivamente le hard skills bensì anche, e direi soprattutto, le soft skills: secondo l’ultima analisi del World Economic Forum, «The Future of Jobs» (2023), le competenze fondamentali richieste dalle aziende, oltre quelle tecniche specifiche e digitali, saranno il pensiero analitico e quello creativo, le capacità relazionali, l’empatia e l’ascolto attivo, tutte abilità che non entrano in concorrenza con l’IA la quale, sempre secondo lo stesso report, porterà all’esubero di ben 83 milioni di lavoratori nei prossimi 5 anni.
Inoltre continueranno a essere strategiche, secondo le aziende, la comunicazione efficace, il team working e il team building: per l’acquisizione di queste capacità, è necessario un processo di lungo respiro, come quello scolastico e attività intenzionali e strutturate.
Manca ancora nella scuola italiana un quadro organico e intenzionale di indicazioni e strategie per lo sviluppo delle non cognitive skills, sulle quali si era aperto un dibattito legislativo fino a ora incompiuto; ma abbiamo un significativo documento pubblicato dal Ministero dell’Istruzione nel 2017, gli Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza, nel quale le strategie dialogiche, e il debate in particolare, sono considerate metodi didattici imprescindibili, a partire dalla scuola dell’infanzia, per lo sviluppo delle soft skills, per la formazione del cittadino, e per l’accesso a un mondo del lavoro in trasformazione esponenziale.
Uno degli sviluppi concreti degli Orientamenti è stato il progetto di sperimentazione (INDIRE) PATHS – A Philosophical Approach to THinking Skills, che ha coinvolto con successo 1600 docenti e oltre 1000 scuole di ogni ordine e grado, tra cui molti Istituti Tecnici e Professionali. Nel progetto la filosofia non è stata inserita come disciplina, bensì come educazione al pensiero nel curricolo di educazione civica. Perché non estendere la sperimentazione a tutti gli istituti, o meglio portarla a sistema?
Risulta evidente che il percorso delle competenze non cognitive nelle riforme scolastiche sia più che accidentato e sicuramente senza soluzione di continuità; il debate si presenta come una metodologia in grado di svilupparle, rafforzando le competenze linguistiche e creando un ambiente di apprendimento collaborativo e motivante. Nello specifico, vediamo alcuni aspetti degli Istituti professionali:
- il dibattito regolamentato è un valido antidoto alla povertà comunicativa: «Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando mancano le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, allora manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi»;
- l’attività di “orientamento” nella secondaria di primo grado indirizza sistematicamente i ragazzi con scarsa motivazione allo studio verso uno sbocco professionalizzante, tanto che una considerevole percentuale di ragazzi con risultati appena sufficienti si iscrive agli Istituti professionali;
- questa tipologia di Istituto presenta una realtà estremamente eterogenea e sfidante: il contesto socioculturale di provenienza, il numero elevato di alunni stranieri (12,4% contro gli 8,2 degli Istituti Tecnici e i 3,9 dei Licei) e con disabilità (1 alunno diversamente abile su 2 si iscrive agli Istituti professionali). I giovani hanno bisogno di costruire la loro identità, di saper gestire le sfide e le frustrazioni, e le ragazze e i ragazzi che frequentano gli IP possono avere dei gap ulteriori in questo processo di formazione;
- i dati sulla dispersione scolastica sono alquanto negativi per questi Istituti: per quel che riguarda l’abbandono, gli IP registrano, con il 7,2%, la percentuale più alta, relativamente alla dispersione implicita l’INVALSI dal 2019 ci fornisce una prima rappresentazione del fenomeno attraverso l’indicatore ESCS: in termini di punti percentuali la dispersione implicita è più che doppia per gli allievi che provengono da famiglie meno avvantaggiate e quasi quadrupla per gli allievi di cui non sono disponibili i dati di background. Il problema della dispersione scolastica è estremamente complesso e multiprospettico, ma l’abbandono scolastico può essere, talvolta, causato da una insoddisfazione per l’offerta formativa disponibile. Importante è quindi puntare all’ampliamento e/o alla differenziazione dell’offerta formativa in funzione della sua capacità di incontrare bisogni differenti.
Perché, dunque, il dibattito regolamentato potrebbe essere una risorsa preziosa in queste scuole?
Intanto, il dibattito regolamentato è un valido antidoto alla povertà comunicativa: «Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando mancano le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, allora manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi».
Il debate è un gioco di squadra che educa al confronto democratico e insegna ad accettare punti di vista differenti, a superare i bias cognitivi e a gestire i conflitti; se condividiamo il pensiero di Gianrico Carofiglio, ovvero che «in nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia», oggi più che mai educare alla cittadinanza democratica significa educare alla dialettica costruttiva, contro la parola urlata o la politica degli slogan; il dibattito favorisce la motivazione, l’autostima e l’autoefficacia dei ragazzi, fondamentali per contrastare l’abbandono e l’insuccesso scolastico, e sviluppa l’ascolto attivo, il pensiero creativo e l’empatia, proprio quelle soft skills così determinanti per il mondo del lavoro.
Molte ricerche da anni confermano la validità della metodologia, alcuni esempi: Mezuk e colleghi (2011) hanno analizzato dieci anni di dati scolastici provenienti dai registri istituzionali di 116 scuole superiori. I risultati dell’analisi hanno portato alla conclusione che i debaters avevano il 19% in più di probabilità di diplomarsi rispetto ai non partecipanti al dibattito e avevano una media dei voti di circa 1 punto più alta; l’aumento del livello di autostima emerge anche da un’analisi effettuata dalla Urban Debate League in Minnesota: i partecipanti al dibattito hanno mostrato un’autostima superiore del 15% rispetto al gruppo di controllo, un aumento proporzionale alla durata della loro partecipazione all’attività.
Concludendo, la formazione tecnica e professionale deve sicuramente garantire ai giovani professionalità qualificate per una realtà sempre più complessa e competitiva, ma deve anche essere superato il pregiudizio che spesso contraddistingue soprattutto gli Istituti Professionali, ovvero quello di Scuole che preparano al lavoro manuale (causa anche della costante flessione nelle iscrizioni degli ultimi anni),con un’utenza non sempre motivata allo studio: per questo è necessario un cambio di paradigma, come quello raccomandato dagli Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza: tutte le Scuole devono educare i futuri cittadini (e lavoratori) al pensiero critico, analitico, creativo; le modalità didattiche possono essere diverse, ma il debate è sicuramente una risorsa.
La percentuale degli Istituti Professionali che pratica il debate in Italia è piuttosto bassa (il 10%) rispetto a Licei e Istituti Tecnici, ma ci sono docenti e Scuole che hanno investito nel potere della parola, e quindi del pensiero, proprio in realtà problematiche; di seguito un’esperienza appassionata e significativa.
Angela Di Bono, formatrice e giudice di debate
La narrazione di una buona pratica: il progetto La voce del debate nell’IPSEOA “Ippolito Cavalcanti” di Napoli
Insegno Italiano e Storia all’ Istituto IPSEOA “Ippolito Cavalcanti”, nella zona est di Napoli; un crocevia di vissuti non sempre semplici, una realtà complessa, ma ricca di potenzialità umane. La popolazione scolastica è riferibile soprattutto al Capoluogo, anche se la scuola accoglie sempre più studenti provenienti dall’hinterland e dalla periferia. L’ampliamento dell’offerta formativa, di cui la scuola si fa portavoce, necessita della profusione di impegno, risorse ed energie per renderla più efficace in vista di una complicata ed articolata gestione interna e di una incisiva azione professionalizzante in un contesto territoriale, non sempre accogliente per carenze strutturali, oltre che per gli irregolari tassi di immigrazione e disoccupazione: l’istituto espleta la sua azione didattica in un contesto dove il tasso di disoccupazione è quasi il doppio di quello nazionale.
In questa realtà, non certo facile, il debate ha rappresentato non solo una metodologia innovativa efficace, ma l’opportunità di dare voce a ragazzi spesso poco motivati e con situazioni di disagio affettivo e relazionale.
I corsi di formazione per alunni si ripetono ogni anno, e grazie alla loro eterogenea provenienza, diffondono la metodologia nelle classi. Nasce l’esigenza di formare i docenti, aprire le porte a questa nuova metodologia, non solo ai fini della partecipazione a tornei, ma per sviluppare le competenze trasversali oltre a quelle tecniche, e che ha come obiettivo ultimo il “saper pensare in modo creativo e comunicare in modo efficace ed adeguato”. Credendo in modo sempre più preponderante nel valore di questa metodologia, ho ritenuto concludere il percorso di formazione con una sfida, un dibattito tra gli alunni e i docenti, in un capovolgimento di relazioni che mette in gioco due vissuti diversi che si incontrano attraverso la passione del Debate.
In un contesto così diversificato come la platea del nostro Istituto, dove dare la parola significa smuovere le emozioni e, anche, dove il vernacolo è dirompente, spesso è lì, che, insegnare il dibattito, significa abbassare il volume e argomentare le proprie opinioni, motivandole. Capire che esiste un altro da noi che può avere idee diverse e non per questo avere nei suoi confronti reazioni “esplosive”; per ragazzi che spesso non ascoltano perché non ascoltati nell’ambiente familiare o dalle istituzioni, praticare l’ascolto attivo rappresenta un decisivo passo per il riconoscimento di sé.
Da qui nasce la funzione inclusiva del debate, che permette ai DSA, BES e i diversamente abili di avere lo spazio necessario per confrontarsi, ognuno secondo le proprie potenzialità; ciascuno di loro ha un pensiero che prende voce, in un sistema di collaborazione e di rimozione delle barriere emotive.
Inoltre, dalla mia esperienza sul campo, ho riscontrato che gli alunni che hanno vissuto l’esperienza del debate competitivo o che comunque l’hanno utilizzato in classe, hanno attuato scelte universitarie mirate allo sviluppo delle loro “riscoperte potenzialità”, dimenticate, sommerse, tacite.
Paola Graziano, docente di Italiano e Storia e formatrice e giudice di debate