Il counseling filosofico: una strategia metodologica per l’orientamento formativo

Tempo di lettura stimato: 20 minuti
La filosofia offre importanti contributi teorici e concettuali in termini di esplorazione del sé, di strumenti per la critica e la decostruzione degli stereotipi, di elaborazione di possibili paradigmi esistenziali. L’approccio illustrato in questo articolo attinge alla tradizione filosofica per proporre un modello di relazione di aiuto e di consulenza che ha per obiettivo lo sviluppo delle life skills, competenze fondamentali per co-costruire in classe percorsi di orientamento efficaci.
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Le più recenti Linee guida ministeriali relative all’orientamento sottolineano la natura sistemica, integrata e continuativa che i processi orientativi dovrebbero assumere come condizione della loro stessa efficacia; come osserva Federico Batini, l’orientamento ha come obiettivo la promozione dell’empowerment, ossia dello sviluppo dell’autoefficacia della persona.

Gli approcci all’orientamento formativo possono essere molteplici, ma non tutto ciò che ha a che fare con il potenziamento delle competenze personali costituisce di per sé “orientamento”. Per parlare di “orientamento”, le pratiche di ascolto, consulenza, reperimento e attivazione delle risorse interiori dovrebbero essere collocate nell’ambito di una progettualità esplicita: il fine deve essere dichiarato ed è importante che siano sottolineati i passaggi della metodologia applicata, perché il processo di auto-esplorazione diventi consapevole e si possa così effettivamente parlare di auto-orientamento.

Vi sono molte strategie possibili per fare orientamento a scuola, che fanno riferimento ad ambiti disciplinari diversi, come ad esempio la letteratura o la storia, e da questi ambiti specifici attingono strumenti trasversali: una tra le possibili è il counseling filosofico. Secondo la definizione di Lodovico Berra, psichiatra, psicoterapeuta, counselor filosofico e direttore della Scuola di Specializzazione di Torino, il counseling filosofico è un intervento di aiuto all’individuo, finalizzato alla risoluzione di problemi esistenziali attraverso l’uso di metodi di pensiero, di ragionamento e di analisi di tipo filosofico. In analogia alla maieutica socratica, il counselor filosofico stimola i processi di pensiero logici e razionali del soggetto, agendo con una funzione di chiarificazione e di facilitazione, tesa alla risoluzione o alla risposta a domande o problemi dell’esistenza. Questo avviene utilizzando le personali risorse dell’individuo, che devono essere attivate e condotte.

La metodologia del counseling filosofico di ispirazione esistenzialista offre una cornice teorica e strumenti metodologici per lavorare in particolare sull’attivazione delle life skills, il cui sviluppo, come vedremo, è implicato e sollecitato nell’ambito dei processi di orientamento. Tre concetti operativi risultano particolarmente efficaci: la visione del mondo, il progetto esistenziale, il pensiero condiviso.

Il concetto di “visione del mondo” assume fondamentale importanza nell’ambito del counseling filosofico. Per una nutrita corrente di pensatori, l’esplorazione e chiarificazione della visione del mondo personale, unica e irripetibile in ciascuno, rappresentano l’obiettivo principale di una consulenza di tipo esistenziale. Ma che cosa si intende per “visione del mondo” (Weltanschauung)? Si tratta di una sorta di rete, costituita da pensieri, credenze, modi di vedere il mondo e attribuirgli significato, che costruiamo e continuiamo incessantemente a tessere nel corso della nostra esistenza. Alla base di qualsiasi nostra scelta e del modo in cui ci approcciamo alle diverse situazioni e sfide poste dalla vita quotidiana vi è un sistema di coordinate, una sorta di mappa delle idee e dei valori, della quale possiamo essere più o meno consapevoli.

Ogni problema e questione necessita di essere letta e interpretata alla luce della visione del mondo di ciascuno, ossia della concezione che una persona ha di sé stessa, del mondo e del significato della propria esistenza. Attraverso un’indagine che ha nella domanda il suo strumento fondamentale, la persona può maieuticamente «partorire» la propria visione del mondo e diventarne consapevole.

L’autoconsapevolezza è una delle life skill indicate dalle Linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e «comprende il riconoscimento di noi stessi, del nostro carattere, dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, desideri e preferenze» (Educazione alle life skills per bambini e adolescenti nelle scuole, 1994). Nei termini del counseling filosofico, l’autoconsapevolezza coincide con la conoscenza della propria visione del mondo. Diventando consapevole della propria visione del mondo, l’individuo apprende a essere autonomo e in grado di affrontare conflitti e crisi esistenziali, acquisendo sempre maggiore fiducia in sé stesso.

La visione del mondo personale è composta da una serie di “pezzi” di natura diversa: da un lato, idee ereditate in modo acritico dall’educazione e rafforzate da valori frutto di costruzione sociale; si pensi anche al ruolo delle piattaforme e dei social network nel plasmare oggi l’immaginario di studenti e studentesse. Dall’altro, da giudizi che ci rispondono e ci corrispondono in modo diverso, ossia che siamo in grado di fondare e argomentare in modo autentico, coerente con la nostra “filosofia personale”. Il contrasto tra le diverse parti che compongono la visione del mondo può generare un senso di contraddizione ed essere alla base di aspetti cruciali e irrisolti. Si rivela allora necessario compiere un lavoro ermeneutico sui pregiudizi interiorizzati o bias cognitivi che agiscono in noi inconsapevolmente, attivando un’altra importante life skill, ossia il pensiero critico.

Il pensiero critico è «la capacità di analizzare informazioni ed esperienze in modo oggettivo. Il pensiero critico può contribuire alla salute aiutandoci a riconoscere e valutare i fattori che influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti, come i valori, la pressione sociale e i mezzi di comunicazione» (OMS, 1994). Il filosofo Ran Lahav invita a uscire dalla propria «caverna di Platone», intesa come il perimetro di idee, convinzioni, presupposti che ci condizionano senza che ce ne rendiamo conto. La nostra tendenza usuale è quella di vivere in uno stato superficiale, ma la possibilità di una trasformazione che ci porti da questo a un modo di vivere più pieno e profondo è un tema portante di quelli che Lahav definisce i «filosofi della trasformazione». I filosofi della trasformazione, tra i quali Nietzsche e Rousseau, descrivono il nostro stato superficiale come governato da schemi rigidi di comportamento, di pensiero, di desiderio, di emozione. Questi schemi sono il risultato di potenti meccanismi psicologici o sociali che operano dentro di noi, che conducono a modi di essere riduttivi e sono distaccati dalla pienezza della nostra vera realtà1. L’orientamento è, o dovrebbe essere, prima di tutto un processo di trasformazione.

Potremmo chiederci a questo punto quale sia il ruolo delle emozioni nell’ambito di un paradigma epistemologico che assuma come centrale il lavoro sul pensiero: il counseling filosofico si applica principalmente alle idee che compongono la visione del mondo, ma così facendo agisce anche sulle emozioni, facendo propria la teoria neostoica elaborata da Martha Nussbaum, nell’opera L’intelligenza delle emozioni2. Si tratta di una teoria ricca e ampia, che tiene conto della complessità delle emozioni, attingendo ai lavori di ricerca della psicologia e dell’etologia. La tesi centrale sostenuta dalla filosofa è che le risposte emotive agli eventi che ci provocano sofferenza e confusione abbiano spesso alla loro base una serie di giudizi normativi, in cui si mescolano molto facilmente le proprie credenze con quelle ereditate o frutto di convenzioni sociali. Un esame razionale dei giudizi a esse sottostanti può aiutare ad affrontare il problema e a individuare le risposte cercate nell’ambito della propria visione del mondo. Anche le emozioni, quindi, possono essere analizzate in termini di idee che compongono la nostra visione del mondo. Ad esempio, il senso di colpa per una scelta o desiderio diversi da ciò che vorrebbero i nostri genitori per noi può basarsi su una precisa idea o concezione di “famiglia” come luogo armonico e immune da conflitti profondi, idea che può essere sottoposta a un preciso esame razionale proprio partendo da una concettualizzazione: “Che cos’è per te la famiglia? Quali ne sono i valori fondanti?”.

Alcuni teorici, come Gerd Achenbach, individuano la natura essenziale della consulenza proprio nell’investigazione critica, ossia nella messa in discussione del perimetro di valori e credenze della persona, allo scopo di “fare pensiero”, decostruendo stereotipi e individuando fallacie di ragionamento e aporie. In questo senso, il consulente avrebbe come obiettivo quello di suscitare dubbi, “mettere alla prova” in forma di domanda. Un diverso filone della consulenza filosofica individua invece il ruolo del consulente non tanto nella messa in discussione di valori fuorvianti della persona o nell’individuazione di contraddizioni o aporie, quanto nella chiarificazione delle idee e del processo di pensiero. La funzione principale del consulente diviene in questo caso la “restituzione” ossia il momento in cui egli riporta i concetti espressi dal suo interlocutore all’interlocutore stesso, in modo sistematico ed esplicitando nessi e connessioni. Su questa base, lo studente/studentessa potrà poi portare avanti in autonomia una valutazione critica, ma questa è affidata a lui/lei.

Entrambe le procedure sono condotte attraverso il dialogo, il cui obiettivo principale è fare in modo che lo studente o studentessa divenga autoriflessivo/a, ascoltando in primo luogo sé stessa.

Nell’opera Teoria e pratica del counseling filosofico3, Peter Raabe individua quattro possibili varianti della tecnica dialogica:

1) L’approccio socratico, per cui si pongono domande che non conducono a una particolare conclusione né suggeriscono un particolare punto di vista. Si ritiene che questo approccio aiuti a sviluppare un’attitudine riflessiva e quindi a maturare autoconsapevolezza e competenza di risoluzione dei propri stessi problemi o questioni irrisolte.

2) Lo scambio basato sul principio dell’“uguaglianza delle opinioni”: in questo scambio il consulente/docente non si limita nell’esprimere le proprie opinioni, ma le mette sul piatto in modo non direttivo, considerandole parte di uno scambio tra pari. L’idea di fondo è che, presentando la propria opinione come personale, e non come quella corretta, si stimoli lo studente o la studentessa a definire meglio il proprio punto di vista, argomentando e confrontandolo con delle alternative. In questo tipo di dialogo esiste la possibilità che entrambi gli interlocutori giungano a revisioni e chiarificazioni relative alla propria visione del mondo.

3) Il dialogo asimmetrico: sebbene in generale, nel supporto ai processi di orientamento, l’insegnante sia chiamato a porsi come consulente, perciò a servizio dello studente/studentessa, il suo ruolo può assumere connotazioni di maggiore partecipazione in senso direttivo qualora lo studente gli richieda informazioni relative ad approcci e teorie per orientarsi, o quando l’insegnante stesso percepisca come essenziale offrire informazioni supplementari per la risoluzione del problema.

4) La discussione in gruppo, che può essere svolta attraverso diverse pratiche filosofiche, come il Dialogo socratico, il Dilemma Training, la Philosophy for children. Il consulente/docente in questo caso può assumere il ruolo di facilitatore, che non partecipa alla discussione del gruppo classe, oppure avere un ruolo più attivo o ancora intervenire con un intento pedagogico.

Il dialogo non risponde solo alla necessità di risolvere un problema urgente e immediato: apre la porta all’acquisizione di un atteggiamento filosofico verso sé stessi e verso il mondo. È importante sottolineare questo aspetto anche per ribadire la necessità di non limitare l’azione orientativa ai momenti cardine decisionali, vissuti come problemi urgenti da risolvere. In questo senso, Lou Marinoff afferma che le persone

indirizzate nella loro filosofia personale […] sono in grado di elaborare un contesto dentro il quale affrontare le questioni del momento e quelle future con un più solido fondamento.4

Il lavoro di chiarificazione e revisione della visione del mondo è preliminare all’elaborazione del progetto di vita, che, nei termini del counseling filosofico di ispirazione esistenzialista, si definisce progetto esistenziale: una sorta di mappa o disegno, all’interno del quale possono essere inseriti gli obiettivi a medio e lungo termine. Il progetto esistenziale corrisponde in qualche modo al senso della nostra vita; lo psichiatra e filosofo Michele Torre teorizza e approfondisce questo concetto nel saggio Esistenza e progetto, in cui afferma:

con la dizione “progetto esistenziale” intendo dire ciò che l’uomo vuol fare di se stesso nel mondo; […] dunque progetto esistenziale è la scelta di se stesso.5

La nostra direzione di vita risente dei significati che attribuiamo al mondo e alla vita stessa; in questo senso visione del mondo e progetto esistenziale sono reciprocamente connessi. In Essere e tempo, Heidegger analizza le strutture fondamentali dell’esistenza dell’esserci. Da questa analisi emerge come l’essenza dell’esserci consista nell’aver-da-essere, ossia nella possibilità di essere sé stesso, di diventare sé stesso. L’esserci è “gettato” nel mondo delle possibilità e l’uso della forma passiva da parte di Heidegger fa riferimento al fatto che non solo abbiamo “possibilità di” ma siamo anche “obbligati a” progettare, non possiamo stare fermi. Siamo costretti a scegliere. Anche non scegliere è una scelta.

L’esserci dell’individuo ha per Heidegger nell’“avanti a sé” un momento primario e costitutivo: in questo senso, è sempre in cerca di qualcosa che manca, che lo completi, e questa incompletezza determina la sua costante proiezione verso il futuro. Osserva ancora Michele Torre:

una delle determinazioni del progetto esistenziale, che lo accomuna al modo d’essere, con cui probabilmente in generale ci si identifica, è che non ha mai fine sin che l’esserci esiste. Non potrebbe essere altrimenti. Se il progetto esistenziale avesse un termine, l’uomo a quel punto sarebbe senza futuro e dovrebbe ripiegare, per proteggersi dall’inevitabile angoscia, su difese inautentiche o patologiche.6

L’assenza di una prospettiva futura può evolvere verso una forma di depressione esistenziale, dal momento che non possiamo esistere senza futuro (si pensi a quella causata oggi, ad esempio, dalla così detta “eco-ansia”, in cui a essere in gioco è l’assenza di futuro del pianeta stesso): la nostra vitalità consiste proprio nella proiezione verso l’avanti, nella progettualità. Come osserva Lodovico Berra, l’individuazione di una direzione della propria vita (nella forma di un macro progetto e di micro progetti con esso coerenti) è di per sé qualcosa che offre serenità, stabilità, senso. Quella relativa al senso della nostra vita può essere infatti considerata la domanda filosofica per eccellenza; una vita priva di senso, di significato, è viceversa davvero difficile da vivere7. In questo senso, il lavoro della docente che si occupa di orientamento si concentra principalmente sulla dimensione temporale del futuro: la docente può approfondire elementi della storia della studentessa o dello studente, ma è fondamentale individuare la direzione verso la quale si vuole camminare.

Ma come individuare lo slancio individuale, il “verso-dove” autentico, rispetto alle tante spinte ad agire, ad apparire, a performare che sono invece il risultato di pressioni esterne (famigliari, sociali, ecc.)? Già Rousseau, nel Discorso sull’origine e il fondamento della disuguaglianza tra gli uomini, osservava che «l’uomo della società, sempre al di fuori di sé, sa vivere unicamente dell’opinione degli altri ed è […] soltanto dal loro giudizio che egli trae il sentimento della propria esistenza»8.

Le dinamiche sociali, competitive e conflittuali, spingono l’individuo a estraniarsi da sé stesso e a costruire una falsa immagine di sé. Pur cogliendo bene, come molta parte della filosofia moderna, la scissione dell’io generata dal bisogno di apparire, Rousseau presuppone però l’unità e l’integrità dell’Io originarie, che non sono mai completamente perdute, ma che anzi costituiscono il fondamento che rende possibile un recupero dell’autenticità. Al concetto di amor proprio, inteso come spinta ad apparire e a primeggiare snaturandosi, è contrapposto quello di amore di sé, in cui

diventare se stessi (…) richiede una distanza critica dall’esistente e dal proprio Io in quanto complice più meno consapevole dell’esistente. (…) L’interiorità non è un’evidenza immediata, bensì la meta finale di un difficile percorso di autoconoscenza.9

Pur muovendosi nell’ambito di un paradigma concettuale e semantico molto diverso, Heidegger giunge a una conclusione analoga: siamo “gettati” in un mondo di possibilità, ma proprio la possibilità è condizione necessaria della scelta, ciò che fa sì che il progetto possa effettivamente risultare autentico; il progetto è autentico quando definisce l’identità della persona, è scelto in sintonia con il suo modo di essere e questo presuppone che sia possibile una scelta.

L’inautenticità consiste invece nel fatto che l’Esserci si pone sul piano della semplice presenza, nel modo del “si” inautentico, il “si dice”, “si fa” impersonale, capace di offrire, attraverso risposte e valori precostituiti, una sorta di tranquillità rassicurante. Scegliere è faticoso, mentre seguire un percorso già tracciato perché “si è sempre fatto così” è rassicurante, riduce i conflitti esterni ed interiori; ma la strada per l’autenticità non può prescindere da questa fatica e si rivela la più appagante sul lungo periodo.

La scelta autentica non può escludere l’altro, ma al contrario si basa sul riconoscimento del ruolo che l’altro può assumere nel proprio progetto di vita. Si pensi ad esempio, nel caso di studenti e studentesse, ai genitori. Esiste spesso il rischio che i genitori carichino i figli e le figlie del pesante fardello di costituire il loro proprio progetto esistenziale. Nel saggio Fissando il sole, lo psicoterapeuta esistenzialista Irvin Yalom racconta il caso di Susan. Susan percepisce una crisi nella vita del figlio adulto come un terribile affronto personale, che la logora e la affligge in modo apparentemente spropositato. Racconta Yalom:

le descrissi come, per molti genitori, i figli spesso rappresentino un progetto d’immortalità. Questa idea risvegliò il suo interesse. Riconobbe che aveva sperato di estendersi nel futuro attraverso George, ma che adesso sapeva che avrebbe dovuto rinunciare all’idea. “Non è abbastanza solido per una cosa del genere” disse. “Esiste un figlio abbastanza solido per una cosa del genere?” chiesi. “E, quel che più conta, George non ha mai preso un impegno in tal senso… ed è per questo che il suo comportamento, la sua ricaduta, non hanno nulla a che fare con lei.10 

L’illusione di essere “genitori onnipotenti”, in grado di sconfiggere la morte e proiettarsi nel futuro attraverso i propri figli in misura più o meno consapevole, porta a porre al centro il figlio e a farlo diventare il proprio progetto di vita: questa soluzione inautentica è spesso la spia dell’assenza di un proprio progetto esistenziale e alimenta un circolo vizioso di genitori insoddisfatti e figli sovraccaricati di aspettative. In questo senso può essere di stimolo far riflettere studenti e studentesse sul ruolo che l’altro, in particolare i famigliari, sta assumendo nel loro progetto di vita, per evitare che questo provochi “tappi” o forzature a energie che naturalmente sarebbero portate a incanalarsi altrove.

Se mettere a fuoco il proprio progetto di vita significa tracciare delle strade, individuare un macro percorso e dei micro percorsi ad esso coerenti, vediamo come a essere attivata sia ancora una importante life skill, quella del decision making, ossia la capacità di prendere decisioni consapevoli, scegliendo tra due o più alternative. Quando riflettiamo su che cosa voglia dire prendere una decisione ci concentriamo sempre sulla scelta intrapresa e non su tutte le altre, le scartate. Ma prendere una decisione implica chiudere la porta ad altre strade, rinunciare a delle parti di sé a favore di altre. La consapevolezza di questa situazione genera angoscia, Kierkegaard definisce addirittura “vertigine” la sensazione che l’individuo prova di fronte all’infinità delle possibilità contrapposta alla propria finitezza. Ogni scelta rappresenta una piccola morte a noi stessi, intesi come coloro che avrebbero potuto compiere in quel momento tutte le altre; nella scelta ci sperimentiamo nella nostra finitezza. Con le parole di Yalom,

la scelta è un’esperienza di confine. Non solo ci mette a confronto con il punto fino al quale noi creiamo noi stessi, ma anche con i limiti delle nostre possibilità. Prendere una decisione ci taglia fuori da altre possibilità. […] Più ci troviamo di fronte ai nostri limiti, più dobbiamo abbandonare il mito di essere persone speciali, di avere potenzialità illimitate, di essere imperituri, immuni alle leggi del normale destino biologico.11

Prendere decisioni presuppone che si sia condotto l’esame di sé stessi e dei propri pensieri; che si conoscano gli aspetti emotivi legati alla propensione verso una scelta o verso un’altra; che si abbia una buona comprensione di eventuali giudizi normativi “nascosti” dietro le nostre emozioni, per una loro corretta comprensione. Oltre alle competenze più analitiche, di autoconsapevolezza e pensiero critico, che consentono la chiarificazione e la “pulizia” della visione del mondo, nel processo decisionale interviene anche un’altra importante competenza, che si attiva quando immaginiamo gli sviluppi delle strade che intendiamo percorrere. Il progetto esistenziale di ciascuno è composto dalle possibilità e dall’anticipazione delle possibilità e ciò che rende attuabile questa anticipazione è il pensiero creativo.

Anche nelle Linee guida dell’OMS si osserva come la life skill “pensiero creativo” «agisca in modo sinergico rispetto alle due competenze Decision making e Problem solving, mettendo in grado di esplorare le alternative possibili e le conseguenze che derivano dal compiere e dal non compiere determinate azioni». Questa competenza di vita rimanda al cosiddetto pensiero “laterale” o “divergente”, un pensiero non lineare, che esplora direzioni e possibilità alternative e dal quale deriva l’elaborazione di nuove idee. Nel saggio Il mito dell’intelligenza, Galimberti sostiene l’importanza di non privilegiare a scuola l’intelligenza convergente, ossia «quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti dell’immaginazione, ma tende all’univocità della risposta, a cui tutte le problematiche vengono ricondotte». Molto più interessante è «l’intelligenza divergente, tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali, perché, invece che accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar vita a nuove ideazioni».12

Il lavoro di chiarificazione e di elaborazione della visione del mondo e del progetto esistenziale di ciascuno si co-costruisce nel contesto della pratica dialogica, richiamando all’ultimo dei tre concetti operativi enunciati in questo articolo, ossia il “pensiero condiviso”. Il concetto di “pensiero condiviso” emerge come una prospettiva filosofica e pedagogica che pone al centro dell’esperienza umana l’intersoggettività e la costruzione collaborativa del significato. La filosofa contemporanea Marina Santi ne ha esplorato le radici teoriche e le implicazioni pratiche nel saggio Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni in classe13. La tesi sostenuta è quella secondo cui la nostra comprensione del mondo non è un processo solitario e individuale, ma piuttosto un’attività condivisa e intersoggettiva. Ciò che pensiamo, conosciamo e crediamo è modellato e influenzato dalle interazioni sociali e dalla comunicazione con gli altri individui. Questo concetto ribalta l’immagine tradizionale del pensiero come un’attività solitaria e autonoma, riconoscendo piuttosto la centralità delle relazioni umane nella formazione delle nostre idee e dei nostri valori. I processi mentali sono fondamentalmente operazioni cognitive che coinvolgono più individui e si distribuiscono tra essi. Pertanto, non possiamo considerare il pensiero di un singolo individuo come un nucleo isolato, separato e costante, ma piuttosto come un insieme di contributi partecipativi. Ogni individuo diviene protagonista di queste azioni di partecipazione in diversi contesti culturali.

Ogni “altro” rappresenta una fonte di sviluppo per le nostre mappe mentali ed un possibile modello. […] Apprendere vuol dire far proprio qualcosa che prima non si aveva, essere diversi da come si era precedentemente […] Se i processi di pensiero sono partecipati la quantità e la qualità del feedback è maggiore, le operazioni mentali vengono meglio controllate e vagliate, il confronto con altri punti di vista può mettere meglio in luce i limiti del proprio.14

L’esperienza dei filosofi greci, delle scuole platoniche, aristoteliche, stoiche è il racconto di un pensare collettivo che ha portato allo sviluppo di nuove idee e alla trasformazione di chi le ha elaborate. In questo senso, il pedagogista russo Vygotskij considera la famiglia e la scuola “laboratori culturali” per eccellenza, ossia «ambienti sociali specificamente predisposti per modificare il pensiero» e per operare in esso cambiamenti, in altre parole: per fare orientamento.


NOTE

  1. R. Lahav, Uscire dalla caverna di Platone. Consulenza filosofica, pratica filosofica e auto-trasformazione, trad. it. di V. Quintabà, Loyev Books, 2017.
  2. M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, trad. it. di R. Scognamiglio, il Mulino, Bologna 2009.
  3. P. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, trad. it di N. Pollastri, Apogeo, Milano 2006.
  4. L. Marinoff, Platone è meglio del Prozac, trad. it. a cura di F. S. Sardi, Edizione speciale per GEDI Gruppo Editoriale S.p.A., Roma 2020, p. 13.
  5. M. Torre, Esistenza e Progetto. Fondamenti per una psicodinamica, Edizioni Medico-scientifiche, Torino 2015, p. 108.
  6. M. Torre, Esistenza e Progetto cit., p. 109.
  7. L. Berra, Manuale di Psicoterapia esistenziale, Edizioniuniversitarie.it, 2012.
  8. E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Roma 2001, p. 94.
  9. Pulcini, L’individuo senza passioni cit., pp. 100-101.
  10. I. D. Yalom, Fissando il sole, trad. it. di S. Prina, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017. Edizione digitale, posizione 352.
  11. I. D. Yalom, Il dono della terapia, trad. it. di P. Costa, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014.
  12. U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2012, p. 79.
  13. M. Santi, Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni in classe, Liguori Editore, Napoli 2006.
  14. Santi, Ragionare con il discorso, cit., posizione 647 di 2611 nell’edizione digitale.
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Rebecca Impellizzieri

Lavora per la casa editrice Loescher e si occupa della redazione dei testi di storia e di arte e immagine.

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