Il Commissario diventa nonno
In realtà è un po’ difficile non ripetersi, perché la struttura dei suoi ultimi noir è abbastanza simile, basati come sono su alcuni omicidi seriali sullo sfondo – più o meno vicino – della grande (e non ancora del tutto superata) crisi economica greca: così è infatti anche per il recentissimo Il tempo dell’ipocrisia, La Nave di Teseo, Milano 2019. La bravura di Markaris è proprio quella di saper giocare abilmente con questo format (che ormai i suoi lettori si aspettano), connotandolo ogni volta di significative suggestioni innovative.
Ma, in fondo, è così ogni qualvolta un autore inventa un personaggio che – in bilico tra finzione e realtà – diventa una piccola parte del nostro immaginario: noi ci aspettiamo che non ci annoi, ovviamente, ma anche che non perda parte del suo conosciuto e rassicurante modo di essere, agire e – nel caso di Charitos – indagare.
In quest’ultimo libro il Commissario Kostas Charitos accentua ancora quella dimensione intima, familiare, della quale già avevo accennato a proposito de L’università del crimine. Ciò anche in conseguenza della nascita del nipotino Lambros: Caterina (figlia di Kostas) e il marito Fanis lo hanno voluto chiamare come il vecchio amico di famiglia Lambros Zisis che il Commissario aveva conosciuto – in anni lontani, quando era ancora un giovane poliziotto – come “nemico”, in quanto oppositore della giunta dei Colonnelli.
Quasi inutile menzionare la gioia dei neo-nonni: Kostas conta le ore di astinenza dal nipotino e la moglie Adriana non manca di sfoderare anche in questo frangente il suo ormai noto talento di cuoca: ogni occasione è buona, così, per festeggiare (e ri-festeggiare), cenando in compagnia, il nuovo nato. Se poi ci sono in tavola i ghemistà (pomodori ripieni) la festa è ancora maggiore!
L’Esercito degli Idioti Nazionali
Gli affetti familiari non placano però il profondo sentimento di giustizia che anima il nostro protagonista; un sentimento che comunque, stavolta ancor più del solito, si accompagna a numerosi rovelli interiori. Infatti Charitos (le cui responsabilità al Commissariato aumentano, ma non dico altro…) si trova davanti a un fantomatico “Esercito degli Idioti Nazionali”, che rivendica alcuni omicidi di personaggi solo in apparenza integerrimi, e invece – come dicono gli assassini – colpevoli di “ipocrisia”. Indagando, la polizia scopre così che l’ipocrisia di cui parlano questi assassini di mezza età (il particolare non è irrilevante) è stata davvero una sorta di marchio di fabbrica della vita delle loro vittime, a cominciare dall’albergatore-filantropo con il cui omicidio il romanzo si apre.
E ciò, come dicevo, porta Charitos da un lato a cercare con ogni sforzo i colpevoli per assicurarli alla giustizia processuale e carceraria; dall’altro a riflettere sulle motivazioni dei terroristi (ma sarà proprio giusto chiamarli così? Il proverbiale dizionario Dimitriakós stavolta non sembra aiutare troppo il Commissario), che forse anelano anch’essi a una qualche forma di giustizia. Ciò in modi del tutto sbagliati, e con strumenti esecrabili, ovviamente; ma non senza che – almeno per un attimo – si debba provare a capire, pur senza giustificare, il loro operato.
Un poliziotto maturo
Al di là del costante dialogo con la propria di coscienza, cosa che fa sempre superare a Kostas Charitos il ruolo istituzionale di detective, il Commissario sembra – in questo romanzo – cresciuto e maturato proprio come poliziotto. Mai lo avevamo visto così collaborativo con i colleghi di altri Dipartimenti (economico, informatico…), mai così a proprio agio con i vertici della Polizia e dei Ministeri, mai così spigliato (e scaltro) con la stampa.
Charitos non è pertanto né un vendicatore, né uno “sbirro” spietato, né un libero battitore; non si sente al di sopra delle leggi o libero da catene gerarchiche; e, men che meno, pensa di salvare l’umanità: forse, però, spera di cambiare almeno un po’ il mondo. Un buon poliziotto infatti può e deve soprattutto arrestare i criminali, senza rinunciare a lavorare sottotraccia per un mondo dove le ragioni dei crimini – per lo più di natura politica o socio-economica – possano diminuire.
In fondo Kostas aveva iniziato la sua carriera con il “vecchio” Lambros, comunista, in prigione, e ne raggiunge i vertici con il “vecchio” Lambros divenuto suo amico e con un “nuovo” Lambros pronto a crescere in una Grecia in difficoltà, ma pur sempre libera, anche (o soprattutto?) per merito di uomini come suo nonno.
Uomini che sanno come sia necessario manifestare sempre e comunque la propria humanitas senza se e senza ma, anche a costo di qualche sacrificio, davanti ai parenti delle vittime, agli assassini, o al Ministro degli Interni. Non perché questi soggetti siano uguali – se no, che ci starebbe a fare Charitos nella Polizia? – ma perché è solo un sentimento di apertura e ascolto verso tutti che consente di capire chi ha torto e chi ha ragione.
Insomma: devo dire che cenerei volentieri chiacchierando con Kostas, magari in una taverna davanti a un piatto di quei succulenti souvlaki (spiedini) che la moglie – ritenendoli malsani – gli impedisce spesso di mangiare. Magari gli chiederei, se possibile, di riportare – come già avvenne con La balia – Charitos a indagare a Istanbul, dove Markaris è nato nel 1937: le particolari atmosfere di questa città, infatti, regalavano un importante valore aggiunto a quel bellissimo romanzo. Ciò, ovviamente, senza nulla togliere ad Atene, che i lettori de «La ricerca» sanno quanto mi sia cara.