Il caso Boateng, ovvero razzisti tra noi

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Il caso Boateng insegna, almeno lo si spera. Ora è necessario che seguano atti concreti, reali, partecipati. Perché sugli spalti di Busto Arsizio sono riecheggiati gli stessi “buuu” che si sentono, purtroppo, in tanti altri luoghi dello sport, a ogni livello di competizione, persino nelle palestre scolastiche.

 

Il perché è noto: a percezioni identitarie fragili, deboli, ignoranti (nell’accezione più ampia: ignorare il mondo) proprie di troppi, giovani e meno giovani, l’adesione a gruppi ultras razzisti e delinquenziali si offre come una scorciatoia risolutrice che offre identità, appunto, e appartenenza. Oltre all’adesione esplicita a gruppi del genere – fatto che ha i suoi rituali di iniziazione – se ne assume l’espressività violenta come a manifestare l’inclusione in una subcultura affascinante perché fortemente trasgressiva e sedicente sportiva: laddove è solo rispondente ai luoghi comuni più vieti intorno al campionismo spettacolare matrice del presunto diritto alla vittoria e del disconoscimento dell’altro.
Che fare allora? Lavorare seriamente a partire dalla scuola e dai media, chiedendo alla politica di legiferare finalmente senza più fare sconti a vecchie lobbies e nuovi appetiti. Già, la politica: dov’è, cosa ha da dire? Quale spazio darà ad esempio il PD a questi temi? Chi li rappresenterà?
È un discorso che inizia con il diritto allo sport reso finalmente efficace (smettendola di scambiare una parte, il calcio stellare, con il tutto) e prosegue con la definizione delle questioni aperte da decenni: il ruolo del Coni, gli scandali ricorrenti, gli stadi obsoleti, la corruzione, la violenza; e poi lo sport educativo “scuola per tutti”, gli stili di vita attivi, le città rese sicure per bambini e anziani. Insomma, si tratta finalmente di realizzare lo sportpertutti.
Solo allora Boateng non tirerà più il pallone in curva perché i rivali in campo, su tutti i campi, nelle palestre e nelle strade daranno vita a incontri sportivi e non più a rappresentazioni estremizzate delle insufficienze sociali e normative.

Allora la rivalità sarà correttamente declinata. Ma chi sono i rivali? Sono coloro che, separati dal fiume, stanno sulle sue opposte rive. Due identità, due appartenenze che si definiscono reciprocamente; rispecchiandoci negli altri, in quelli che non siamo noi, abbiamo l’opportunità di conoscere il mondo oltre e altro da noi. La condizione di rivalità, quindi, si offre come opportunità di conoscenza, di estensione delle relazioni.

Ci sono evidenti motivi storici, culturali e sociali per ritenere che i rivali, separati dal fiume ma che del fiume godono come mezzo di sussistenza, di scambio, di mobilità – non per caso la civiltà è fiorita lungo il corso dei fiumi, dalla mesopotamica all’egizia, dalla cinese all’indiana – hanno sempre avuto un interesse assai robusto a superare la cesura rappresentata dall’acqua, riconoscendo i reciproci vantaggi insiti nell’incontro: commerci, scambi, arricchimento reciproco, forza, potere, progresso. Tanto è vero questo che presso i Romani la più grande considerazione era riservata a chi sapeva costruire ponti sui fiumi: più del re o dell’imperatore, il Pontefice Massimo rappresenta(va) l’acme della sapienza, dell’illuminazione, della grandezza.
Scendendo nel tempo e di grado fino a noi, possiamo affermare (con la dovuta leggerezza) che in mille e mille situazioni di confronto, magari rischioso, il ponte che unisce gli uni agli altri, i rivali, è costituito dallo sport che permette lo scambio, la relazione, l’arricchimento reciproco. La condizione della rivalità consentita dallo sport-ponte si pone (anche in questo caso) come necessaria non solo all’incontro ma, prima ancora, all’esistenza del fatto sportivo.
Senza, si è più poveri. Senza, non c’è gioco, non c’è sport. C’è il niente, l’ignoto, l’altro resta sconosciuto: non-conosciuto perché è mancato l’incontro. Il rischio forte è che l’altro venga percepito come straniero/nemico (hostis). È interessante notare come l’acqua giochi in questo caso un duplice ruolo, che si rivela fondamentale: in “ostile” e in “ospite” l’etimo dei due termini (apparentemente molto lontani), spiega come dal primo discenda il secondo: quando allo straniero/nemico (hostis) che viene accolto nella comunità si dà da bere (hostis potis), allora diventa ospite.
Questo lo scarto culturale da realizzare: incontrando il rivale attraverso il ponte-sport immediatamente si realizza un contesto nel quale entrano in gioco i valori più alti, quei valori umani, prima ancora che sportivi, che si sostanziano nel riconoscere all’altro uno status assolutamente identico al nostro. Un contesto sportivo è quello che realizza un rapporto paritario, equo, dato che riconosciamo al nostro rivale esattamente i medesimi diritti che pretendiamo per noi, e siamo da lui riconosciuti allo stesso modo. Non un’oncia di meno: gli stessi diritti. Siamo l’uno l’immagine riflessa dell’altro. In queste condizioni il gioco, lo sport sublimano e diventano espressione di massima civile democrazia. Di umanità.

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Giulio Bizzaglia

Sociologo dello sport, docente di Sociologia Generale e dello Sport, Università di Roma-Tor Vergata e docente di Metodi e Tecniche per la Ricerca Sociale, UCSC Roma.

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