Il carcere: lo spazio della differenza

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I corsi scolastici in carcere attecchiscono con grande difficoltà perché la scuola rappresenta un corpo estraneo all’universo carcerario; quando riesce a incunearsi, deve sforzarsi di sopravvivere e mantenere la propria identità senza soccombere all’assimilazione.

 

“Se provassi per un solo istante l’intensità del dolore emanato dal luogo ne sarei incenerito, distrutto”. Le parole di Edoardo Albinati in Maggio selvaggio continuano a risuonarmi nella mente a ogni ingresso in carcere. Corridoi interminabili, soffitti scrostati gocciolanti umidità, pavimenti consumati dai passi. Nei locali della scuola carceraria i murales colorano le pareti; sono realizzati dagli stessi detenuti, ma la mano che dipinge deve solo riprodurre, copiare. Si vedono balaustre affacciate sul mare, foreste tropicali lussureggianti, baie assolate, donne che contemplano l’orizzonte, addirittura una Sibilla michelangiolesca, eppure la tristezza non abbandona mai quei muri. Cosimo, studente al terzo anno del corso per geometri nel carcere fiorentino di Sollicciano, sostiene che quelle pareti hanno un’anima intrisa di sofferenza.
La scuola in carcere è una realtà poco conosciuta, che attraversa come un fiume carsico il cosiddetto “pianeta carcere”. I corsi scolastici attivati all’interno degli istituti penitenziari sono un fenomeno diffuso in modo irregolare, del quale non esiste un censimento completo.
Stando alle rilevazioni del Ministero della Giustizia, nell’anno scolastico 2008-2009 i detenuti iscritti a corsi scolastici erano 3606 in tutta Italia, una quota di appena il 5,7% su un totale di 63.630 presenze effettive (al 30 giugno 2009). Il fatto che la scuola riesca a coinvolgere una fascia così esigua della popolazione detenuta pone l’accento sul ruolo marginale a cui i circuiti penitenziari relegano l’istruzione. Malgrado le norme dell’ordinamento penitenziario collochino l’istruzione tra gli elementi del trattamento (Legge n. 354 del 26 luglio 1975, art. 15), l’accesso alle opportunità offerte dai percorsi di istruzione è di fatto precluso a moltissimi detenuti e la scuola resta un privilegio di pochi. Sarebbe errato concludere che i detenuti mostrino disinteresse verso la scuola, che anzi rappresenta in molti casi l’unica alternativa allo stillicidio di ore trascorse in celle sovraffollate. Si potrebbe piuttosto affermare che la scuola deve approfittare dei pochi interstizi disponibili, rassegnandosi a essere ospite spesso sgradito, correre sottotraccia per affiorare alla superficie nelle rare congiunture favorevoli alla crescita e allo sviluppo delle sue attività.
I corsi scolastici in carcere attecchiscono con grande difficoltà perché la scuola rappresenta un corpo estraneo all’universo carcerario, per sua natura isolato e impermeabile; quando riesce a incunearsi, deve sforzarsi di sopravvivere e mantenere la propria identità senza soccombere all’assimilazione. La scuola vive perciò su un crinale, sospesa e in bilico: da una parte, essendo inclusa tra le attività trattamentali, deve inserirsi in un’istituzione totale come quella carceraria; dall’altra, però, si espone al rischio di diventare parte organica della struttura, trasformarsi in supplemento di sorveglianza o in occasione di mero intrattenimento culturale. Per la scuola, mantenere un equilibrio salvaguardando la propria differenza è un obiettivo prioritario, perché, se si omologa al carcere, muore.

Ai detenuti cosa serve studiare?

 

Ritenere che i corsi scolastici siano finalizzati al conseguimento di un titolo di studio o abbiano una valenza professionalizzante vorrebbe dire svilirne il ruolo. Certo, la scelta d’iscriversi a un corso può essere legata, almeno all’inizio, alla mancanza di alternative a 22 ore giornaliere di cella, stesi su una branda o in terra davanti alla televisione o storditi dagli psicofarmaci. Poi, però, qualcosa accade. Si comincia a percepire che “l’aria della scuola rende liberi”, che al di qua della porta chiusa di un’aula lo spazio del carcere si trasforma. Come in un arsenale delle apparizioni, si diventa personaggi di un altro racconto.
Un’aula scolastica diventa un luogo fisico, mentale ed emotivo dove si cerca di ricreare uno spazio di libertà anche per quegli individui che ne sono privi. La scuola non può, ovviamente, incidere sulla carcerazione come condizione materiale e oggettiva, ma attraverso un’erosione lenta e laboriosa della fortezza che intrappola il cervello può combattere quella che un detenuto ha efficacemente definito la “carcerizzazione”, ossia una condizione soggettiva, psicologica di resa agli ingranaggi della detenzione. In carcere si parla solo di carcere, processi, avvocati, magistrati, appelli, ricorsi, sentenze, domandine. In un’aula no. Allenare la mente a concentrarsi su una poesia o su un calcolo è un modo per condividere insieme all’insegnante un’esperienza positiva di straniamento. «A scuola», ha scritto Giuseppe, «è stato un po’ rinascere. Ascoltare e dialogare hanno ripreso senso: un cuore che, grazie a impulsi esterni, riprende a battere in sintonia col mondo che vive».
La scuola dunque è uno “spazio della differenza” rispetto alla staticità della realtà carceraria, ai ruoli cristallizzati e ai codici di comportamento che sembrano incastonati nei muri come fossili. Un individuo in carcere è un numero di matricola, il fascicolo processuale è il suo alter ego e il reato è l’ombra che lo segue ovunque; “dentro”, ogni tipo di relazione si modella su questi elementi. La gabbia non è soltanto quella dei cancelli e delle porte blindate, ma anche quella, invisibile ma non meno tenace, dei pregiudizi, dei canoni non scritti, delle regole di comportamento sottintese. In questo microcosmo che si nutre di rigidità e controllo, la scuola funziona se riesce a interrompere il circolo vizioso degli stereotipi. Una spia di questo diverso approccio è nel fatto che gli insegnanti continuino a chiamare “studenti” quelli che per gli agenti sono sempre e solo “detenuti”; non è raro che un insegnante venga redarguito per aver usato questo pericoloso appellativo. Evidentemente non si tratta di una disputa terminologica, ma di una delle tante occasioni in cui la scuola entra in collisione con il carcere, nel tentativo di creare una condizione essenziale: l’assenza del pregiudizio e l’apertura di un essere umano verso un altro essere umano. Da parte dell’amministrazione penitenziaria tutto ciò suscita malumore; chi è addetto alla sorveglianza e alla custodia teme che gli onnipresenti dispositivi di controllo ne risultino affievoliti. È molto faticoso far comprendere che la scuola si serve di un altro linguaggio e che gli insegnanti svolgono una funzione istituzionalmente diversa da quella degli operatori dei sistemi penitenziario e giudiziario. La lotta per il riconoscimento del “diritto di cittadinanza” della scuola nel perimetro del carcere non conosce sosta.
Naturalmente, lo sforzo per uscire dalla costrizione dei luoghi comuni e dei codici comportamentali sedimentati riguarda sia gli studenti che i docenti: i primi chiamati a mettersi in discussione e a sviluppare strumenti critici; i secondi alle prese con una revisione radicale dei propri metodi. Solo così un detenuto che entra in un’aula respirerà un’aria diversa, nonostante le sbarre e i cancelli e tutto il resto.

 

Guardarsi negli occhi

In carcere sia i docenti che gli studenti sono chiamati a una sorta di “denudamento”, a uno scostamento dalle consuetudini. Se fossimo a teatro, avremmo un palcoscenico vuoto, senza scenografie né costumi, con un attore e uno spettatore: l’arte teatrale nella sua essenza. Allo stesso modo, la scuola in carcere è spoglia, vuota, scarnificata. L’insegnante deve compiere uno sforzo di sincerità: non può rifugiarsi dietro la maschera cui spesso il proprio ruolo lo costringe, né fare ricorso a un copione precostituito. Il significato “primordiale” del fare scuola va individuato nella possibilità di instaurare un rapporto in un ambiente disadorno, dove lo studente e il docente si guardano negli occhi e comunicano. L’esperienza didattica si costruisce a partire da questo rapporto così semplice e intenso. La disponibilità a mettersi in gioco sul piano della relazione è il requisito da cui dipendono la riuscita e l’esito di ogni percorso formativo.
È fondamentale innanzitutto che i docenti considerino di avere davanti a sé persone, non esemplari di tipologie criminali; chiunque insegni in carcere sa che la curiosità, talvolta morbosa, verso i reati commessi dagli studenti uccide ogni germoglio di relazione, come un veleno potentissimo. Non si tratta di adottare accorgimenti o “trucchi del mestiere”, o simulare una ritrosia pudibonda: si tratta di rispetto, riconoscimento della dignità, onestà nell’assunzione di un ruolo. Gli studenti hanno bisogno di sapere, sentire che nei nostri occhi non ci sono pregiudizi né etichette, ma una volontà schietta di dialogo. Solo così sarà possibile condividere un’esperienza attraverso i territori disciplinari propri di ciascun docente, apprendere le regole per viaggiare nei luoghi della matematica e del diritto, della letteratura e della storia, ogni tanto sconfinando, ogni tanto perdendosi. L’atteggiamento di disponibilità umana non deve far credere che gli insegnanti appartengano a una squadra di soccorso e consolazione sguinzagliata nei luoghi del patire. A chi insegna in carcere non è richiesto di essere una persona di buona volontà e buon cuore attenta alle sfortune altrui; né i docenti debbono essere visti come benefattori mossi da slancio filantropico. Accade fin troppo spesso che le attività in ambito carcerario siano affidate al volontariato e alla “supplenza” di soggetti non istituzionali, che sostituiscono i “diritti” con le “concessioni” e tramutano ciò che è meritevole di tutela giuridica in elemosina dovuta alla beneficenza.

Il diritto di studiare, in carcere

La scuola carceraria è un’enclave immersa in una struttura fortemente gerarchizzata innervata da relazioni di potere. I detenuti, “uomini di altri uomini”, una volta rinchiusi, devono abituarsi a pensare di dipendere totalmente dall’istituzione, perdendo del tutto la padronanza di sé, del proprio corpo, del proprio tempo, in una situazione di completo assoggettamento a chi in quel momento è più forte. La consuetudine con il carcere porta, tra le altre cose, a interrogarsi su un paradosso: il luogo deputato alla rieducazione al rispetto della legalità è il regno dell’arbitrio, dell’incertezza delle regole, delle difformità macroscopiche di trattamento. Ci si potrebbe perfino chiedere se le opportunità di una vera “rieducazione” non risiedano proprio nella possibilità di mettere in crisi il surplus di regole e di uscire da schemi rigidi e coattivi.
La dimensione di potere tipica delle relazioni carcerarie è estranea alla scuola. L’insegnante intraprende un’opera di persuasione, tesa a dimostrare che si può essere efficaci e convincenti anche senza l’uso della forza o la minaccia della sanzione; non ambisce a imporsi sugli studenti, ma a stimolarli, abituarli all’indipendenza delle opinioni, alla critica. È uno strano allenatore, che li accompagna in un percorso di formazione e insieme a loro compie un’esplorazione, un’avventura di conoscenza.
Qualche anno fa Flavio, studente dell’Alta Sorveglianza, aveva scritto (in curiosa assonanza con le parole di Albinati): «Un osservatore che provasse per un solo istante l’intensità dell’emozione che un’aula così eterogenea emana resterebbe impietrito. Ci guardiamo in faccia, quasi non ci riconosciamo». Quasi non ci riconosciamo. Ogni tanto la scuola riesce ad accendere una luce nuova negli occhi degli studenti, e questo rende tutto diverso.

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