Il Canzoniere a scuola # 4

Tempo di lettura stimato: 8 minuti
Ultima di quattro proposte di lettura scaturite dalla lettura integrale e ordinata della raccolta, quattro chiavi per portarla in classe e proporla agli studenti.

 

Vorrei concludere questi miei interventi petrarcheschi affrontando una questione giustamente molto sentita dagli insegnanti, e in generale da chi ama la letteratura italiana: che non si leggono più i classici. È un’affermazione certamente condivisibile, purché ci si accordi sul significato del verbo: è necessario chiarire se “leggere” Petrarca significa analizzare minuziosamente quattro o cinque sonetti e un paio di canzoni, con scrupolo di filologi e acribia di critici, scegliendo i pochi testi tra quelli di argomento esplicitamente amoroso, eventualmente accompagnati da un esempio di poesia “civile”. La tesi che sostengo qui, o almeno la tesi che enuncio, accennando sommariamente alle possibili argomentazioni a sostegno, è che al contrario sia necessario sottrarre ai filologi e agli storici della lingua e della letteratura Petrarca (e Dante e Boccaccio e gli altri classici, soprattutto fino al XVIII secolo), e restituirli ai lettori. Lettori attenti, ben inteso: non è mia intenzione fare l’elogio dell’ingenuità, tanto meno di letture impressionistiche e idiosincratiche. Ma insomma: Ariosto nelle mani di Cesare Segre, autore di una fondamentale (ripeto: fondamentale) edizione critica del Furioso, è un labirinto di varianti e di cruces e di sigle; nelle mani di Italo Calvino, che taglia, parafrasa e sì, in qualche caso forse attualizza e addirittura tradisce il testo originale, diventa una grande avventura capace di affascinare e divertire e commuovere e far pensare anche i lettori meno avvezzi all’italiano del Cinquecento. Dico Italo Calvino, non uno scamiciato divulgatore. So che le mie affermazioni aprono una serie di questioni molto serie; ma i fatti sono inoppugnabili: i nostri classici, in generale, non si leggono più, a dispetto delle tante e tante ore di letteratura “previste” dai nostri “programmi” scolastici. Bisognerà ben affrontare la questione, in qualche modo: le case vive sono quelle abitate, con tutti i rischi che ciò comporta, non i musei.

Ho cercato di mostrare nei precedenti interventi quanto Petrarca sappia essere psicologicamente coinvolgente, quanta sperimentazione linguistica e formale vi sia nel Canzoniere, e quanta varietà di generi e di forme e di temi sia presente nell’opera. Ma quest’ultimo punto solleva, ovviamente, la questione dell’unità di fondo del Canzoniere, del nucleo ispiratore che consente a frammenti così disparati di convivere all’interno della stessa opera.

Anche in questo caso, dovrò limitarmi a pochi accenni schematici, prendendo le mosse dall’evidente insistenza di Petrarca sul tema della bellezza. Il concetto di “bello”, in tutte le sue varianti (“bei”, “begli” ecc.), è onnipresente nel Canzoniere: le concordanze riportano un totale di 331 occorrenze; se aggiungiamo i sostantivi “bellezza/bellezze”, “beltà” e “beltade/beltate” superiamo abbondantemente la media di un’occorrenza per poesia; e non abbiamo nemmeno sfiorato i termini appartenenti al medesimo campo semantico, come per esempio “leggiadro”, “piacevole”, “grato” e così via.

L’insistenza di Petrarca sulla bellezza (bellezza fisica di Laura e bellezza dei suoi versi, della sua lingua: ma già sappiamo che Laura è anche il lauro, e l’amore per Laura è anche l’amore per la poesia) è una chiave di accesso preziosa alla poetica, e più in generale all’ideologia petrarchesca. La bellezza non è infatti un elemento accessorio, una decorazione esteriore, ma la qualità sensibile che rivela l’intima essenza della donna amata e il senso ultimo del lavoro artistico.

Le famose dittologie, come “solo e pensoso”, “piango e ragiono”; le famose attenuazioni, come “in parte”, “forse”, “se pur”; e tutti gli artifici retorici che concorrono alla ricerca di perfezione formale, euritmia, equilibrio ecc., rivelano la funzione che Petrarca attribuisce all’arte e alla poesia in particolare: che non è di rispecchiare il dolore e le incertezze dell’esperienza individuale, o l’incomprensibilità altrettanto dolorosa della storia collettiva, ma di svolgere una funzione nobilmente consolatoria, in quanto in quel dolore e in quelle incertezze e in quelle incomprensibili vicende collettive ci permette di scoprire (o ci illude che sia possibile scoprire) un ordine, un senso, una forma.

È questa l’essenza di ogni classicismo, naturalmente, ed è un concetto che ritroviamo esposto quasi esattamente negli stessi termini nelle pagine teoriche di Primo Levi, o di Elsa Morante; e giustifica l’alto grado di artificiosità della poesia petrarchesca, compresa quella dei giochi enigmistici e del virtuosismo verbale: dico giustifica perché ci permette di comprendere che l’artificiosità non è un difetto, non è sinonimo di insincerità, al contrario, paradossalmente, è il momento in cui massimamente il poeta si discopre e coinvolge il lettore nel suo lavoro.

Che è un lavoro nello stesso tempo privato, addirittura solipsistico, di autoanalisi e di scavo interiore (e anche questo è ben noto e quasi non metterebbe conto di ripeterlo); ma è anche un lavoro dotato di una fortissima valenza civile, giacché scrivere bene (Petrarca ne è convinto, anche se noi possiamo dubitarne, e io personalmente ne dubito) – scrivere bene, dicevo, è la premessa per pensare bene, e pensare bene è la premessa per agire bene. Ecco perché le poesie sul meraviglioso ritratto di Laura eseguito da Simone Martini (meraviglioso e perduto, per noi) possono, anzi devono convivere con quelle sulla corruzione della curia avignonese, e l’amore per Laura può dar luogo a testi onirici come “Una candida cerva sopra l’erba” (n. 190), a riflessioni filosofiche come quella sulla libertà del sonetto n. 96, e ad aneddoti come quelli famosi sul primo incontro (“Era il giorno ch’al sol si scoloraro”, n. 3).

In questo senso, Petrarca è un grande poeta civile non perché ogni tanto parli di politica, ma perché tutta la sua poesia (tutta la sua attività di scrittore e di intellettuale) ha l’ambizione di svolgere una funzione essenziale all’interno della società, fondandone valori e principi. Certo Petrarca non ha letto Machiavelli, né Hobbes, né Marx, e non ha vissuto la Rivoluzione francese e il nazionalismo ottocentesco (a volte ce ne dimentichiamo, ma quando dice “Italia” intende altro da noi…), e tanto meno Auschwitz e Hiroshima, ma il nucleo profondo del suo messaggio, del suo messaggio civile, dico, resta valido. E su questo concludo.

Petrarca (come spiega Ugo Dotti in uno dei suoi studi più importanti, Petrarca civile) ha condotto una grande battaglia per ridefinire il ruolo dell’intellettuale e di conseguenza della cultura, alla ricerca di una difficile e sempre precaria autonomia – sul piano personale, liberandosi a poco a poco della tutela dei Colonna e poi di altri signori, e costruendo con determinazione e consapevolezza il “mito” di Petrarca, dall’incoronazione poetica del 1341 alle missioni diplomatiche presso la corte imperiale, dalle clamorose scoperte di testi antichi alla cessione a Venezia della sua celebre biblioteca; sul piano di una più vasta ridefinizione di uno “spazio sociale” per la poesia e per l’arte, destreggiandosi tra la vecchia idea medievale della cultura al servizio di un contenuto morale e religioso, da una parte, e la nuova idea della poesia come intrattenimento e svago, anziché come strumento di conoscenza e fondamento di un’identità collettiva, dall’altra. Tutto il Canzoniere, tutta l’opera di Petrarca, testimonia la lotta dell’autore su questi due fronti: la concezione moraleggiante della letteratura, che non concepisce l’autonomia dell’arte, cioè il valore del bello non sottomesso al vero e al buono, e la concezione “mercantile” della letteratura, che non sa cogliere il valore della bellezza perché non è in grado di attribuirle un prezzo.

Quando si dice che Petrarca è il primo umanista, in buona sostanza si sta dicendo proprio questo. E quando si lamenta la morte dei classici, si lamenta proprio la fine di questo umanesimo e dei suoi valori, che è uno dei grandi fenomeni storici a cui ho assistito nel corso della mia vita. E che questi valori (e la loro scomparsa, e la conseguente ridefinizione del rapporto fra intellettuali e potere, politico ed economico, e della funzione della cultura all’interno della società) ci riguardino molto da vicino è confermato proprio dal più famoso dei testi “politici” del Canzoniere. Nell’inverno del 1344-45 il poeta dovette fuggire da Parma e riparare a Verona a causa della guerra che sottrasse la città agli Scaligeri e la ridusse sotto il dominio dei Visconti di Milano. In quell’occasione, descritta con i toni dell’avventura rocambolesca in una delle sue lettere, il poeta scrisse la canzone “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno” (n. 128). È un testo famosissimo, oggi poco amato dai lettori e poco frequentato, a quanto mi risulta, anche dagli insegnanti nelle scuole. E si capisce: oltre ai numerosi riferimenti a fatti storici noti solo agli specialisti, il poeta ricorre a una retorica a tratti pomposa, densa di personificazioni mitologiche, di appelli, domande, esclamazioni, che al nostro gusto suonano datati quanto l’antitesi fra italiani e barbari. Ammettiamolo pure. Ma l’ultima strofa della poesia, il “congedo”, sembra scritta oggi: il poeta prende atto amaramente della sua reale impotenza e si rivolge alla canzone stessa, avvertendola che troverà nei potenti (la “gente altera”) dei lettori maldisposti, abituati all’adulazione e nemici della verità; pochi sono quelli che amano sinceramente il bene e che sapranno ascoltare il messaggio dei suoi versi:

 

Canzone, io t’ammonisco

che tua ragion cortesemente dica,

perché fra gente altera ir ti convene,

et le voglie son piene

già de l’usanza pessima et antica,

del ver sempre nemica.

Proverai tua ventura

fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.

Di’ lor: – Chi m’assicura?

I’ vo gridando: Pace, pace, pace! –

“Pace” è anche l’ultima parola del Canzoniere, l’estrema preghiera del poeta alla Vergine, nella canzone n. 366; e sia la speranza su cui, in questo annus horribilis 2024, chiudiamo queste note.

(fine)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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