In questo terzo intervento sul Canzoniere intendo affrontare due problemi che abbiamo lasciato in sospeso. Il primo è il problema della ripetitività dell’opera: Petrarca allinea una serie di testi che, laddove parlano del suo amore infelice per Laura, sembrano ripetere all’infinito lo stesso schema, gli stessi lamenti, le stesse malinconie. Il Canzoniere non è un romanzo d’amore, nel senso che non racconta una storia, ma descrive una condizione interiore che sembra priva di sviluppi, di eventi, di variazioni. Il secondo problema è, non paia un paradosso, quello dell’unità del Canzoniere: opera come abbiamo visto molto varia, in cui Petrarca parla, oltre che di amore, di politica, di morale, di arte. Come stanno insieme il sonetto in morte di Cino da Pistoia (n. 92) e la canzone all’Italia (n. 128)? Come si conciliano l’aggraziato erotismo del madrigale n. 52, “Non al suo amante piú Dïana piacque”, e la sublime solennità della canzone alla Vergine (n. 366)?
Cominciamo dal tema dell’amore, dunque. Umberto Saba, che Petrarca l’aveva letto bene, fa un’affermazione a tutta prima stupefacente: «non c’è, in tutto il lungo Canzoniere, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d’amore». Saba precisa subito quello che intende dire: non c’è in Petrarca l’intensità passionale che fa scrivere a Dante (o fa ricordare a Francesca) «la bocca mi baciò tutto tremante». E continua interpretando psicoanaliticamente Laura come una proiezione della madre, con quello che ne consegue. Ma la sua è un’indicazione di lettura preziosa, secondo me, per altre ragioni che non il complesso di Edipo presuntamente irrisolto del poeta.
Petrarca insiste, come sappiamo, sul gioco di parole Laura / lauro (e moltiplica virtuosisticamente il gioco stesso, chiamando in causa anche l’aura, cioè l’aria, la brezza, e l’auro, cioè l’oro dei capelli ecc.). Laura viene spesso evocata, quindi, attraverso il mito di Dafne, la ninfa amata da Apollo e trasformata in alloro o lauro, simbolo della poesia (in quanto Apollo è, ovviamente, il dio delle arti). L’oggetto del desiderio di Petrarca è quindi Laura, cioè l’amore, e nello stesso tempo è il lauro, cioè la poesia: l’amore infelice per Laura non è solo un fatto reale, autobiografico (lo era, senza dubbio), ma è anche una costruzione culturale, un grande “mito” che Petrarca riceve dalla tradizione precedente (dai provenzali a Dante). Le poesie di Petrarca, a dispetto di quanto a volte tentano di fare gli specialisti, con risultati in effetti poco incoraggianti, non vanno lette come pagine di diario, episodi di una biografia reale, ma come occasioni per svolgere temi e riflessioni che con l’amore hanno spesso a che fare solo parzialmente. Il poeta, in molti casi, non vuole parlarci del proprio amore infelice, ma usa la propria condizione come un punto di partenza per sviluppare riflessioni di tutt’altro tipo – morale, psicologico, culturale. Facciamo alcuni esempi, pescando fra le poesie che di solito non vengono antologizzate.
Il sonetto n. 96, “Io son de l’aspectar omai sí vinto”, è un concentrato dei motivi che l’infinita schiera di imitatori di Petrarca finiranno per rendere insopportabili: i sospiri, la speme, i desiri, il laccio che avvince il cuore, il viso leggiadro, gli empi martìri patiti dal poeta e così via. Ma facciamo uno sforzo e leggiamo con la mente sgombra, come se entrassimo nel Canzoniere per la prima volta:
Io son de l’aspectar omai sí vinto,
et de la lunga guerra de’ sospiri,
ch’i’ aggio in odio la speme e i desiri,
ed ogni laccio ond’è ’l mio core avinto.
Ma ’l bel viso leggiadro che depinto
porto nel petto, et veggio ove ch’io miri,
mi sforza; onde ne’ primi empii martiri
pur son contra mia voglia risospinto.
Allor errai quando l’antica strada
di libertà mi fu precisa et tolta,
ché mal si segue ciò ch’agli occhi agrada;
allor corse al suo mal libera et sciolta:
ora a posta d’altrui conven che vada
l’anima che peccò sol una volta.
note
1. de l’aspectar… vinto: così spossato dall’attesa (che Laura ricambi il mio amore).
6. et veggio… miri: e vedo dovunque guardi.
10. precisa: tagliata, preclusa.
11. mal si segue: si segue con proprio danno.
12-13. ora… vada: in passato P. ha peccato perché, libero com’era, ha seguito “ciò ch’agli occhi agrada”; ora di conseguenza non è più libero e la sua anima “conven che vada”, cioè è costretta ad andare, “a posta d’altrui”, agli ordini di altri, cioè dell’amore.
Petrarca ci sta parlando di ben altro che della sua infelicità di amante insoddisfatto. Ci sta dicendo, in estrema sintesi, che noi siamo liberi di scegliere, ma che una volta effettuata una scelta, qualsiasi scelta, la nostra libertà viene meno. Il nocciolo del suo discorso è che ogni scelta è per sempre, perché nessuno può riavvolgere il nastro del tempo, e quindi ogni scelta assume un’importanza fondamentale, diventa un destino. Naturalmente lo dice con il linguaggio del suo tempo, martìri e peccato, ma la verità esistenziale colta dal poeta rende limitativa la definizione di questo testo come di una “poesia d’amore”.
Il sonetto n. 18, “Quand’io son tutto vòlto in quella parte”, è il primo esempio di una tendenza artificiosa, aborrita dai lettori romantici e ancora da molti lettori contemporanei, che culmina con testi famigerati come il sonetto degli oimè (n. 267: “Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo”) o quello delle antitesi (n. 134: “Pace non trovo e non ò da far guerra”), questi ultimi spesso antologizzati per esemplificare gli aspetti “deteriori” del tecnicismo petrarchesco, il carattere artificioso che può assumere la sua poesia e che diventerà predominante nei suoi imitatori. Ebbene, leggiamo:
Quand’io son tutto vòlto in quella parte
ove ‘l bel viso di madonna luce,
et m’è rimasa nel pensier la luce
che m’arde et strugge dentro a parte a parte,
i’ che temo del cor che mi si parte,
et veggio presso il fin de la mia luce,
vommene in guisa d’orbo, senza luce,
che non sa ove si vada et pur si parte.
Cosí davanti ai colpi de la morte
fuggo: ma non sí ratto che ‘l desio
meco non venga come venir sòle.
Tacito vo, ché le parole morte
farian pianger la gente; et i’ desio
che le lagrime mie si spargan sole.
note
2. luce: riluce, splende.
3. rimasa: rimasta. la luce: quella che promana dal viso di Laura.
5. temo del cor che mi si parte: temo per il cuore, che mi si spezza.
6. veggio presso il fin de la mia luce: vedo vicino il termine della mia vita.
7. vommene in guisa d’orbo: vado in giro come se fossi cieco.
10. ratto: rapido.
11. sòle: suole, ha l’abitudine di fare.
12. parole morte: parole che parlano di morte.
A me pare che il giudizio severo che viene comunemente dato di questo tipo di poesia nasca da una profonda incomprensione del progetto autoriale. Qui Petrarca non sta affrontando un tema filosofico rilevante, ma sta giocando con la lingua, sta affrontando una sfida tecnica (le rime equivoche, in cui lo stesso significante assume significati diversi; altrove le anafore, le antitesi o quant’altro) – e costruisce un gioiello di abilità. Ci entusiasmiamo dei giochi matematici di Guillaume de Machaut o di Bach, o del virtuosismo dei Capricci di Paganini e degli Studi trascendentali di Liszt, o dei trompe l’oeil di Arcimboldo e di Bramante, perché vi cogliamo un elemento essenziale della loro arte; lo stesso dovremmo fare di fronte a queste poesie di Petrarca, cogliendo l’occasione per una riflessione più approfondita sulla poesia stessa, giacché di questo, in realtà, ci parla il poeta in questi testi (ma io parlerei di “studi”, in senso musicale) “meta-letterari”.
Un ultimo esempio utile è il sonetto n. 98. Petrarca si rivolge a Orso dell’Anguillara, un uomo politico romano da lui conosciuto nel 1337, in occasione del suo primo viaggio nella città eterna, e poi ritrovato nel 1341, all’epoca della famosa incoronazione poetica. Il sonetto è legato a un’occasione precisa – non sappiamo quale, ma non ha molta importanza, perché dai versi del poeta si capisce quanto basta: Orso vorrebbe partecipare a un torneo, o forse a una battaglia, e non può; ma il suo cuore, animato da un nobile desiderio di gloria, prende parte idealmente all’evento al posto della sua persona.
Orso, al vostro destrier si pò ben porre
un fren, che di suo corso indietro il volga;
ma ’l cor chi legherà, che non si sciolga,
se brama honore, e ’l suo contrario abhorre?
Non sospirate: a lui non si pò tôrre
suo pregio, perch’a voi l’andar si tolga;
ché, come fama publica divolga,
egli è già là, ché null’altro il precorre.
Basti che si ritrove in mezzo ’l campo
al destinato dí, sotto quell’arme
che gli dà il tempo, amor, vertute e ’l sangue,
gridando: D’un gentil desire avampo
col signor mio, che non pò seguitarme,
et del non esser qui si strugge et langue.
note
1-2. si po’… un fren: si può ben imporre un freno (morso e briglie).
3. che non si sciolga: in modo che non sfugga al controllo.
4. brama… abhorre: brama la gloria e rifugge dal suo contrario, cioè dalla viltà e dal disonore che ne consegue.
5-6. non si po’… pregio: non si può togliere il suo (del cuore) valore. perch’a voi l’andar si tolga: benché si tolga a voi la possibilità di scendere in campo.
7. come fama… divolga: come tutti sanno.
8. egli: il vostro cuore. il precorre: lo precede, cioè desidera torneare più di voi.
10. sotto quell’arme: protetto da quell’armatura, o secondo altri interpreti sotto quelle insegne.
11. il tempo: l’età giovanile, e quindi appassionata.
12. D’un gentil desire avampo: ardo di un nobile desiderio.
Il desiderio irrealizzabile di Orso, che porta alla lacerazione dell’io (lo sdoppiamento fra il cuore e Orso stesso), rimanda ovviamente al desiderio irrealizzabile di Petrarca per Laura (in altri termini, il sonetto acquista il suo senso per il fatto di essere collocato all’interno del Canzoniere, se fosse una poesia isolata potremmo darne una lettura assai diversa). Ma questo parallelismo sottinteso è la premessa per un’ulteriore riflessione: il desiderio di gloria è proposto come virtù cavalleresca, ma la gloria militare finisce per coincidere con la gloria poetica (quali sono infatti le “armi” di Orso? “amor”, “vertute”, cioè valore, e “sangue”, cioè nobiltà – e non si capirebbe la presenza di amore se non in base a questo parallelismo tra la condizione di Orso e quella del poeta). Insomma: P. anche in questo caso parla, sia pure indirettamente, di amore, ma ne parla per svolgere una riflessione morale in cui esalta il desiderio di gloria, equiparando poeta e cavaliere. Cioè sta dicendo (forzo un pochino, ma altri passi di Petrarca ci autorizzano a questa lettura) che il poeta è il nuovo cavaliere, che la cultura è la nuova cavalleria.
È una lettura molto povera quella che accorpa testi così diversi nella medesima categoria di “poesia d’amore”, senza render conto dell’ampiezza dei temi e dei problemi che il poeta affronta mentre parla del suo amore e della sua condizione psicologica. Lungi dal risultare ripetitiva, la lettura continuata e attenta del Canzoniere rischia a tratti di provocare l’effetto opposto, cioè di suscitare un’impressione di dispersività e di eccessiva varietà – quella rispetto alla quale l’autore metteva per così dire avanti le mani nel sonetto proemiale.
E questo ci porta alla seconda questione di cui dicevo all’inizio, la ricerca dell’unità profonda del Canzoniere, del nocciolo nascosto sotto la continua variazione di temi e di toni con cui l’opera si presenta. Che sarà l’argomento del quarto e ultimo dei miei interventi.
(continua)