Confesso di essere nostalgicamente legato alla pittura del grande ritrattista bergamasco Giambattista Moroni (1521-1580) a causa di un particolare ricordo personale. Infatti nel lontano 1979 – frequentavo l’ultimo anno di Liceo Classico al “Beccaria” di Milano – la nostra insegnante di Storia dell’Arte ci invitò a visitare la mostra di Moroni che la grandissima studiosa Mina Gregori aveva allestito al Palazzo della Ragione di Bergamo.
Una mostra del 1979, a Bergamo
Io (con pochi altri compagni in verità), seguii le sue indicazioni e ci andai, restando molto impressionato da quei ritratti realistici che sembravano guardarci e uscire dalle tele per fare due chiacchiere con noi. Non solo: in quell’occasione Giovanni Testori pubblicò (se ben ricordo sul «Corriere della sera») qualche articolo che invitava a valorizzare anche la pittura “sacra” di Moroni, che invece a me era sembrata un po’ troppo convenzionale. Si tratta, come si può capire, di ricordi lontani, resi vaghi e indefiniti non solo dalla distanza cronologica, ma anche dalla scarsa competenza (direi sacrosanta e legittima) del ragazzo che ero allora, abituato a visitare le mostre e i musei solo se spinto da genitori e professori… Eppure furono proprio quella mostra, il dibattito critico che ne seguì, le discussioni che facemmo in classe, a farmi appassionare all’arte intesa come fenomeno storico-culturale; a farmi capire che una statua o un quadro non valgono solo come documento di un’epoca ma nella misura in cui ne parlano, discutono (e perfino litigano) le generazioni successive; e che le esposizioni (quelle vere, ovviamente, non quelle fatte di “fuffa”) vanno fatte e visitate, a costo di cadere – da parte dei loro curatori – in qualche eccesso modaiolo o addirittura furbesco. Altrimenti cala sulle opere d’arte una coltre di polvere difficile da rimuovere.
Moroni, oggi, alle Gallerie d’Italia
E se non erano né modaioli né tantomeno furbeschi Mina Gregori o Giovanni Testori, intellettuali veri e solidi, non lo sono neppure Simone Facchinetti e Arturo Galansino, i curatori di una mostra che si terrà aperta fino al 1 aprile 2024 alle Gallerie d’Italia di Milano, dal titolo Moroni (1521 – 1580). Il ritratto del suo tempo.
L’esposizione, pur se in terra milanese, in qualche modo chiude l’intensa stagione che ha visto Bergamo e Brescia “capitali della cultura” in Italia; e non potrebbe essere diversamente, poiché Moroni, che era nato ad Albino, nella Bergamasca, affinò la sua arte alla bottega bresciana del Moretto (soprannome di Alessandro Bonvicino), per poi operare per (quasi) tutta la vita a Bergamo e dintorni, dove divenne ritrattista affermato. Ha così consegnato alla posterità i volti di veri o presunti vip locali, senza però – come vedremo – fare troppi “sconti” alle loro imperfezioni fisiche, come ben seppe il nobile bergamasco Gabriele Albani, del quale – oltre la barba bianca, lo sguardo austero e le vesti costose bordate di pelliccia – Moroni in un’opera realizzata tra il 1572 e il 1574 ha voluto eternare un ben poco estetico bernoccolo, cresciuto proprio nel centro della fronte. Niente Photoshop, dunque!
Una variegata galleria di ritratti realistici
La mostra è suddivisa in nove sezioni, le prime delle quali contengono per lo più opere del Moretto da Brescia e di Lorenzo Lotto, veneziano molto attivo a Bergamo, città che della Repubblica di San Marco era suddita. Impressionante, tra le altre, la pala Caduta di San Paolo del Moretto (1540-41), di sapore prettamente controriformistico.
A proposito di Controriforma: una terza sala si propone di analizzare il contesto artistico del Concilio di Trento, con ritratti di suoi protagonisti diretti o indiretti ad opera di autori del calibro di Tiziano, Giulio Romano e lo stesso Moroni.
Le sezioni successive vedono esposti ancora ritratti, in tutte le “salse”; sono di Tiziano, Tintoretto e – ovviamente – di Moroni che fa davvero la parte del leone e del quale parlerò dunque in modo più dettagliato.
Impressionante, tra gli altri, il ritratto del nobile veneziano Antonio Navagero, podestà di Bergamo, che Moroni raffigura nel 1565 con dei pantaloni volutamente attillati che ne esaltavano la prorompente virilità, esibita dal committente come simbolo “machista” di potere.
Che dire poi delle tele che raffigurano l’elegantissima poetessa Isotta Brembati (del 1554-57) nonché gli aristocratici Giovan Gerolamo Grumelli (del 1560) e Gabriel de la Cueva, quest’ultimo futuro Governatore di Milano (del 1560)? Sono tutti e tre splendidi ritratti, messi in dialogo con cinquecentine, armi e armature, selezionati con lo scopo di creare una relazione diretta con i dipinti.
Non posso evitare di spendere qualche parola in più per il Grumelli, il celebre, Cavaliere in rosa, che con l’anonimo Sarto (del 1570) con cui si chiude la mostra – una sorta di stilista d’antan – è forse il quadro più conosciuto del Moroni. E lo è a buon diritto: il giovane raffigurato è infatti vestito con abiti di fogge spagnolesche di un affascinante color rosa corallo ed è inserito in un contesto in parte rovinistico e in parte paesaggistico. Anche qui, però, il pittore non ci propone una totale idealizzazione del suo soggetto, come attestano gote rubizze e pancetta…
Soggetti sacri e devoti committenti
Non mancano anche opere di soggetto religioso, alcune delle quali però sono manifestazioni di quella che si suole definire “orazione mentale”, che ben si inserisce nella mentalità controriformistica del tempo. Infatti in molti dipinti gli eventi di storia sacra – ad esempio il Battesimo di Cristo (del 1555 ca) o l’Ultima cena (eseguito tra il 1566 e 1569) – sono immaginati come ricreati dalla mente del devoto committente, raffigurato anch’egli sulla tela come anacronistico spettatore. Anacronistico, ho detto? Probabilmente così appare a noi, ma vale la pena di ricordare come il Concilio di Trento avesse ribadito il fatto che i sacramenti (e battesimo ed eucarestia lo sono) non fossero semplici atti rituali, ma momenti di reale presenza di Cristo in mezzo ai suoi fedeli. E proprio questo Moroni ha voluto rappresentare, in opere che – in fondo – danno ragione sia a Mina Gregori sia a Giovanni Testori, perché il Nostro seppe coniugare mirabilmente la ritrattistica con la pittura sacra.
Molto di più si può sapere su tutto ciò leggendo il bel catalogo edito dalle Edizioni Gallerie d’Italia-Skira, disponibile anche in una suggestiva versione minor per bambini, dal titolo accattivante Giambattista Moroni e il mistero del ritratto perfetto. Storia illustrata e un po’ inventata di un pittore coi baffi e persino la coda. Mi piace allora pensare che qualche bambino portato – magari un po’ a forza – dai genitori a vedere questa splendida mostra, potrà tra una quarantina d’anni e passa, come è avvenuto al sottoscritto, dire che è stata proprio quella visita a suscitare in lui una profonda passione per l’arte.