I nuovi media e l’educazione alla scelta

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Luoghi magici o ambienti ricchi di insidie, i nuovi media sono un mondo in cui i giovani rischiano di smarrirsi. La comunicazione cambia e le tecnologie digitali riconfigurano le relazioni fra insegnanti e studenti. Il ruolo della media education tra nuove forme di inconsapevolezza e disagio.

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Parlare di nuovi media, oggi, significa avventurarsi in un mondo di una complessità decisamente difficile da gestire, anche solo a livello mentale: pensare di conoscerli a fondo utilizzando gran parte delle loro funzioni risulta oltremodo complicato. Tuttavia, una delle capacità più determinanti è legata alla motivazione di mettersi in gioco con una buona dose di curiosità. I nuovi media, in special modo i social network e i videogame, possono trasformarsi in luoghi magici oppure in ambienti ricchi di insidie.
La cronaca ci offre ormai una drammatica sequenza di episodi che, in qualche modo, si tramutano in vere e proprie tragedie. Spesso, però, sono i medesimi professionisti della comunicazione a utilizzare gli stessi media in modo strumentale. Di conseguenza le famiglie e il mondo della scuola cercano di controllare la situazione con occhio guardingo senza possibilità di venirne a capo.
Sostenere che «i ragazzi non hanno voglia di partecipare» significa cadere in un equivoco davvero imbarazzante. L’impegno è un investimento di energie nella direzione di un orizzonte personale o comune che, talvolta, si mostra offuscato dalle nebbie dell’incertezza e dell’indeterminatezza. Teniamo presente che i nostri ragazzi, figli, allievi, sportivi e così via, di paesaggi ne vedono molti (affacciati perennemente alla finestra del grande ipertesto multimediale) e quindi pare non esserci un problema di opportunità bensì di valutazione consapevole di ciò che si presenta al loro sguardo. L’attrattiva degli ambienti digitali non può e non deve rappresentare un problema: la questione sta nella capacità di scegliere, nella consapevolezza del gesto, nella responsabilità di ciò che potrebbe accadere.
Consideriamo anche il fatto che molti di questi paesaggi “stilizzati” non è dato sapere se siano rappresentazioni più o meno fedeli di realtà, vaghe verosimiglianze o pure e semplici invenzioni. Pensando a Facebook, il dubbio è di rigore: con chi sto parlando? Che cosa mi vuole dire il mio interlocutore? Che contributo posso dare a questo gruppo? Che ruolo occupo? Come mi vedono? Tutto ciò che accade quali legami presenta con la realtà? E così via. Il sistema categoriale di giudizio è pertanto costantemente messo alla prova: gli adulti faticano a riconoscere i ragazzi come vittime di una sorta di sindrome di Stendhal nei confronti del mondo, un misto di fascinazione, inettitudine e disorientamento valoriale. L’impegno e anche la partecipazione potrebbero aver subito un blocco in relazione a uno stato che i ragazzi vivono combinando senza soluzione di continuità la loro quotidianità fatta di ambienti reali (famiglia, scuola, gruppi sportivi e religiosi) e luoghi costituiti da mescolanze di realtà, verosimiglianza e finzione (il mondo dei media, soprattutto tv, web, cinema, fumetti e videogiochi, intrecciato alle loro esperienze personali). Dunque non si tratterebbe di mancanza di propensione alla partecipazione bensì di difficoltà a percepire direzione e traiettoria.

Sono molte le domande da porsi

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Insegnanti e genitori, talvolta in prima linea, talaltra arroccati nelle retrovie, da tempo si sono accorti che qualcosa occorre pur fare per aiutare questa generazione a orientarsi in questo enorme sottobosco di opportunità e pericoli. Noi pensiamo che nell’attuale fase storica, per svolgere al meglio il ruolo di affiancamento ai ragazzi, manchino tre elementi di base, che consistono nel trasmettere loro la capacità progettuale, la comprensione del presente e, di conseguenza, nel suggerire una o più traiettorie verso le quali dirigere il proprio percorso di vita.
Il risultato dell’assenza di questi elementi potrebbe portare, dunque, al disinvestimento, al desiderio di stabilità (per far fronte all’instabilità di ciò che li circonda), all’individualismo e alla passività: appunto, una sorta di smarrimento misto a confusione, sconcerto e turbamento.
A questo punto, sarebbero molti gli aspetti da analizzare poiché davvero i nuovi media pongono in gioco il nostro sé in tutti i suoi elementi costitutivi, cognitivi, emotivi e sociali con soluzioni e composizioni nuove e sorprendenti: occorre domandarsi se i ragazzi sono in grado di interpretare correttamente queste realtà, se riescono a cogliere le sfumature di una comunicazione autentica, fatta di voci e di corpi, se il loro stile cognitivo di approccio alla conoscenza si è spostato davvero verso quello visivo o se stanno incominciando a imparare diversamente, se il desiderio di connessione permanente invoca e determina un confuso intreccio tra vantaggi emotivi e limiti cognitivi, favorendo lo sviluppo di conoscenze e competenze, ma influendo negativamente sull’autenticità dei vissuti. E, ancora, se le abilità di base si esprimono una per volta, su un singolo livello, mentre le competenze devono fare i conti con la gestione complessa di strumenti, codici, livelli e rappresentazioni, se le “distanze” e le “presenze” perdono i significati originari e ne acquistano altri, costruiti su un rapporto ponderale sempre diverso tra pensieri, intenzioni, motivazioni, emozioni e sensazioni, e così via. Queste sono solo alcune delle domande che oggi possiamo porci, ma in effetti potrebbero essere molte di più.

La prossemica a distanza della rete

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Tali quesiti ci portano a pensare alla vita dei ragazzi come a un videogame nel quale realtà e rappresentazione non si distinguono più. Gli adulti non sono in grado di svolgere correttamente il loro ruolo di educatori poiché sono i primi a rifiutare la complessità e la combinazione dei livelli, mentre intuiscono il disagio a cui non sanno assegnare un nome, perché attingono al glossario della loro esperienza, ormai poco efficace per questi “nuovi mondi” e livelli di realtà e pseudorealtà che si intersecano creativamente.
Se consideriamo che la comunicazione si è rapidamente complessificata ed è costituita sostanzialmente da incontri a distanza, sincroni e asincroni, e in presenza con differenti strumenti e modalità distinte (testuali e audiovisive), possiamo dunque sostenere che davvero qualcosa sia cambiato anche da un punto di vista dell’approccio cognitivo ed emotivo alla comunicazione. Una comunicazione in presenza si risolve in una quantità enorme di segnali non verbali, e tra questi quelli prossemici, legati alla gestione dello spazio. A distanza tutto cambia poiché taluni di questi segnali (gestuali, vocali e legati all’immagine esteriore) resistono proprio grazie alla presenza delle immagini digitali (statiche o in movimento), ma vengono consapevolmente (e in parte inconsapevolmente) alterate e contaminate in base ai destinatari e all’idea che si ha di sé.
In altre pubblicazioni, quali Il destinatario immaginario (2008), abbiamo pensato di formulare il concetto di “riconfigurazione prossemica” della relazione con l’altro. Ciò accade (o può accadere) negli ambienti informali quali Facebook, ma anche nei contesti educativi e formativi formali, come la scuola: noi siamo convinti del fatto che gradatamente le nuove tecnologie digitali stiano riconfigurando, appunto, le relazioni anche tra insegnanti e studenti e i medesimi spazi all’interno della scuola divengono, auspicabilmente, più flessibili e si arricchiscono di spazi fisici e mentali anche fuori dalle mura degli istituti. In taluni casi, e soprattutto quando l’insegnante comincia a sentire la fatica dopo una lunga carriera e gli allievi mostrano poco feeling con le materie insegnate, investendo poca o nessuna energia, in sostanza ritirando interessi e passioni, allora possiamo asserire che, in quel momento, la scuola stessa diventi un «non luogo» (Augé 1992), quasi una sorta di «supermercato della conoscenza» (certamente non della competenza) nel quale gli individui si incontrano ma non comunicano.
A noi piace pensare che la scuola, oggi, possa rilanciare l’idea di talento divenendo, anche un po’ utopicamente, a seconda delle opportunità, una “impresa sociale” e/o una “casa editrice” (mutuandone alcuni aspetti), un ambiente ricco di stimoli in cui insegnanti e ragazzi collaborano per contribuire attivamente alla cultura del proprio territorio comunicando, tuttavia, con tutto il resto del mondo, i loro punti di vista e le loro passioni.
Da un punto di vista educativo, uno degli obiettivi più rilevanti è quello di trasformare l’inconsapevolezza dei soggetti in formazione (a livello cognitivo e metacognitivo, ma anche emotivo, come dicevamo poc’anzi) in capacità riflessiva, maggior attenzione e senso critico. Queste sono le finalità più importanti della media education, un campo di studio, di ricerche e di esperienze che considera i media come una risorsa fondamentale per la formazione di giovani e adulti: ciò aprirebbe loro nuove possibilità di «vedere il mondo» e di «saper stare al mondo», un’opportunità concessa dai nuovi strumenti digitali che tuttavia, per converso, possono contribuire a generare nuove forme di inconsapevolezza e un disagio sempre più confuso e sospeso (Parola 2008).
Se pensiamo che i contatti basati sulle tecnologie siano “freddi” e le relazioni edificate sui cinque sensi presentino “temperature” molto più elevate, evidentemente crediamo vi siano due differenti paesaggi e microclimi, uno gelido e strutturato (senz’anima) e uno tropicale, fondato sul calore del corpo e della mente (in cui si gioca tutta la vitalità degli individui). In verità la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare ed è troppo semplicistico ridurre a due ambienti in opposizione il rapporto tra distanze e presenze. La “temperatura” di una relazione, invece, si può “misurare” anche in altri modi, ad esempio con la creatività, la qualità dei messaggi, la capacità immaginativa, il potere delle attese, delle aspettative e della condivisione, solo per citare alcuni aspetti della comunicazione che si tende a trascurare. L’ambiente digitale non è semplicemente circoscrivibile a un uso passivo del computer (e degli smartphone), bensì è composto da una serie di elementi creativi e interattivi che lasciano intravvedere qualcosa di più che non un freddo e rapido invio di messaggi sconnessi e grammaticalmente scorretti.
Il digitale è dunque un luogo in cui si gioca comunque gran parte della natura umana, compresi i sentimenti, gli affetti, i vissuti e l’intelligenza degli individui. Sarebbe riduttivo pensare che esso limiti le relazioni tra le persone: senza ombra di dubbio è un’opportunità straordinaria, un territorio che in ogni caso consente incontri in presenza, pur sapendo che se i soggetti che lo abitano solitamente decidono, più o meno consapevolmente, di vivere “regioni” e “ragioni” della mente che travalicano quelle più naturali, fatte di corpi veri, allora potremo cominciare a dubitare dell’autenticità dei rapporti, nonché dell’organizzazione e gestione della quotidianità dei ragazzi.

Seduzione ed empatia nella rete

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Per tale motivo i concetti di seduzione ed empatia ci aiutano a introdurre una riflessione che per motivi di spazio non potremo approfondire ma che, in ogni caso, ci consente di aprire la strada a un sintetico ragionamento e porre l’attenzione su un cambiamento che è naturalmente in atto, ma non necessariamente sfavorevole e dannoso. Le cronache relative al mondo della scuola ci restituiscono ciclicamente notizie legate alla produzione di video di alunni disabili e contenenti scene a sfondo sessuale ripresi con i cellulari e fatti circolare liberamente sul web, sino a giungere addirittura a suicidi indotti all’interno dei social media. Questo è ciò che emerge dai quotidiani e dai telegiornali, mentre fa sempre molta fatica a rendersi visibile la grande quantità di comunicazione funzionale ed empatica che scorre all’interno dei nuovi ambienti digitali, utile per far comprendere a fondo le potenzialità di questi mezzi.
Il concetto di seduzione è talvolta concepito in modo negativo (pedofilia, tentativo di inganno, rapporti non o poco autentici e così via), mentre quello di empatia è sempre immaginato come molto distante dalle attività che si svolgono on-line. Per semplificare, immaginiamo il concetto di seduzione in alternanza, più che in opposizione, su una linea continua, a quello di empatia: estrapolando parte dei loro significati (e ipersemplificando), il primo può essere espresso con “attrarre a sé”, il secondo con “andare verso” e “sentire insieme”.
I due aspetti presuppongono rispettivamente un desiderio di contatto e la coltivazione di un tentativo funzionale alla relazione, il secondo la propensione a una dualità emozionale. I social network, ad esempio, dispongono di strumenti di comunicazione predisposti a provocare e stimolare reazioni che gli individui, in questi anni, hanno dimostrato di saper utilizzare allo scopo di sviluppare approcci seduttivi ed empatici degni di studi e ricerche, fondati sullo scambio, la condivisione, la produzione di messaggi che, al di là del “mare retorico” orientato in parte all’espressione autentica, in parte al desiderio estetico di “esserci”, spesso tendono ad amplificare e rinnovare le sei funzioni della comunicazione di Roman Jacobson (referenziale, emotiva, conativa, fàtica, poetica e metalinguistica; Jacobson 1963): queste ultime sono strettamente riferibili alle competenze in relazione ai linguaggi cui la media education tiene in particolar modo. Tali funzioni, messe in gioco nel mondo digitale, contribuiscono a riconfigurare le modalità di sedurre (portare a sé in un’ottica partecipativa) e di essere in empatia con altri individui (coinvolgendo altri individui e condividendo con essi propensioni e curiosità).
Potremmo sostenere che tali messaggi rappresentino un preludio a una relazione che può anche divenire significativa proprio perché mette in gioco i contorni identitari dei soggetti e può aprire a infinite possibilità. L’altra faccia della medaglia, la partita persa, è la tendenza a trasformare i destinatari dei loro messaggi in individui ideali, cioè semplici “persone-schermo” utili solo per costruire, in parte attraverso uno sterile esercizio di stile, la parte illusoria e narcisistica della loro personalità, mettendo in campo elementi esibizionistici (non solo in senso sessuale, bensì anche in riferimento all’emozione della curiosità in generale) che innescano dinamiche visionarie, corrotte e viziose (Parola e Ranieri 2010).

Il ruolo dei nuovi educatori

La media education può rappresentare per loro un valido approccio, al fine di entrare gradatamente dentro la complessità comunicazionale e educativa dei “luoghi digitali”, prendendo contatto con l’inevitabile evoluzione di una modalità differente di approcciare all’altro da sé. I media non sono solo veicolo di divertimento, leggerezza e cultura o un semplice supporto didattico, bensì divengono oggetto di studio, strumenti di scrittura e contesti formativi (Parola, Robasto, Trinchero 2011).
La scuola non si può sottrarre al cambiamento ed è certamente in grado di cominciare a strutturare percorsi basati sull’asse dei linguaggi: infatti, le otto competenze chiave di Lisbona possono essere sviluppate con un intreccio continuo con gli altri tre assi culturali (matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale) e non prese di volta in volta singolarmente. Inoltre, diviene improrogabile un glossario che definisca le differenti competenze: disciplinari, trasversali, sociali e mediali (Ceretti, Felini, Giannatelli 2006), solo per citare le più diffuse e dibattute. Infine, se pensiamo che leggere e scrivere hanno assunto negli ultimi due decenni significati nuovi, che la verticalità si presenta sempre più come un obiettivo necessario, che la strategia di ricerca educativa più congeniale, cioè la ricerca-azione, rappresenta la via regia all’attività scientifica all’interno del mondo scolastico (accompagnata comunque da altre strategie, ad esempio la sperimentale e l’interpretativa) ci si rende conto immediatamente del forte bisogno di formazione da parte degli insegnanti.
Occorre tuttavia partire in parallelo con l’idea di incrementare la rete di collaborazioni formali e informali sul territorio, rinforzare il legame tra ricerca e produzione, condividendo con enti locali, produttori e società civile una cultura della qualità (di tutti i contesti che fanno comunicazione e educazione) sostenuta dalla ricerca e da nuovi strumenti di valutazione. Già da molto tempo sono stati studiati metodologie e strumenti utili per diffondere la cultura della media education: per far sì che siano davvero efficaci abbiamo bisogno che l’alleanza tra scuola, ricerca e famiglie si realizzi concretamente.

N.d.r. Le fotografie che illustrano l’articolo fanno parte di una serie scattata dall’artista newyorchese Gabriela Herman, che ha ritratto alcuni blogger illuminati dallo schermo del loro computer.

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Alberto Parola

Docente di Pedagogia sperimentale presso il dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino. I suoi principali interessi scientifici includono le metodologie della ricerca educativa, la media literacy e le tecnologie dell’educazione. È psicologo del lavoro e delle organizzazioni. Di recente ha pubblicato Media, linguaggi, creatività (Erickson 2013). È vicepresidente di MED (Associazione italiana per la Media Education) e codirettore della rivista scientifica “Media education: studi, ricerche, buone pratiche”

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