Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch’era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.
– Cosa c’è? –
Lì per lì non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. – Proprio lui, figurarsi – disse Nuto.
– Ha bruciato la casa – ripeteva Cinto, – Voleva ammazzarmi… Si è impiccato… Ha bruciato la casa… –
– Avranno rovesciato la lampada – dissi.
– No no – gridò Cinto, – ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l’ho lasciato… Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna –
Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S’era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: – Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa… anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello… È bruciato tutto, anche il Piola ha visto…
(Cesare Pavese, La luna e i falò, Capitolo XXVI)
Il Valino, nel romanzo di Cesare Pavese, stermina la famiglia e dà fuoco alla casa. Lo fa perché la miseria e la disperazione lo hanno reso pazzo, gli hanno negato qualunque speranza di futuro; futuro che però nel libro non si è spezzato del tutto, perché alla tragedia, a quei falò, il figlio Cinto è scampato: sì, Cinto – come gli altri contadini di una Langa povera, poverissima, ancora ben lontana dall’odierno business del vino – potrà ancora ammirare la Luna, e seguirne le fasi per regolare i lavori agricoli.
Al Valino ho pensato ieri, e ho riletto il passo sopra riportato. L’ho fatto sentendo che a Como un uomo di 49 anni, di origine marocchina – senza lavoro e senza un soldo – ha sterminato la famiglia dando fuoco alla modesta casa che i servizi sociali gli pagavano. Con lui sono morti 4 figli, dai 3 agli 11 anni, mentre la moglie si è salvata perché ricoverata in un centro di cura per la depressione… Depressione o follia, povertà, omicidio e fuoco conferiscono ai due episodi una straordinaria, drammatica analogia. Con una sostanziale differenza, però: nessuno dei 4 bimbi che Faycal temeva gli venissero strappati vedrà più la Luna, perché il falò che la lucida follia paterna ha approntato loro non ha dato scampo; il futuro di quella famiglia è una donna depressa rinchiusa in ospedale.
La realtà – mi son detto – è spesso più nera delle più cupe pagine che la letteratura ci ha consegnato; eppure, forse, è proprio da quest’ultima che ogni tanto dovremmo trarre spunto per una lettura più profonda del mondo che ci circonda. Magari molti di noi (compreso chi scrive) hanno un potenziale Valino come vicino di casa, e non se accorgono (o non se ne vogliono accorgere): infatti la povertà senza rimedio si è trasferita dalla campagne “pavesiane” nei condomini delle nostre città, e spesso a farne maggiormente le spese (anche se non solo) sono persone che vengono da lontano.
Chissà se ogni tanto Faycal, in relazione al suo Marocco, avrà pensato, come l’Anguilla di Pavese:
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Di certo quel Paese per lui e i suoi non è stata l’Italia. Quell’Italia che pure – e questo va detto, perché il qualunquismo e la demagogia sono nemici della verità – ha fatto ciò che poteva per favorirlo: ne ha curato la moglie, ne ha fatto studiare i figli, gli ha pagato l’affitto di casa. Ma qualche volta tutto ciò non basta, perché l’animo umano è un oscuro labirinto, ed è talora oppresso proprio dalla sensazione di essere soli, fino ad annegare nel mare delle proprie difficoltà: lo so, sembra banale dirlo, ma è così.
Che sia lieve la terra a Faycal e ai suoi figli; e che quella Luna – che loro non vedranno più – rischiari almeno il doloroso cammino di una madre inconsolabile.