I bambini che piangono crescono in fretta

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Nessuna mamma vorrebbe vedere il suo piccolo disperarsi. Tranne quelle giapponesi. Per lo meno ogni 5 maggio.

Recentemente ho visto in uno show televisivo la clip di una competizione giapponese, in cui due lottatori di sumo lanciavano altrettanti neonati in aria per poi riprenderli fra le braccia, mentre una platea di spettatori assisteva sorridente allo spettacolo. Prima o poi tutti i bambini iniziavano a piangere. Davo per scontato che il bambino vincente sarebbe stato quello che non aveva pianto o che almeno aveva iniziato a disperarsi più tardi. Non vi dico la sorpresa nel capire che aveva trionfato il piccolo che aveva pianto di più e più forte. Altrettanto sorprendente la dichiarazione della madre, dichiaratasi molto orgogliosa del suo piccolo urlatore.
Ho poi scoperto che l’evento bizzarro cui avevo assistito si chiama Nakizumo, traducibile con “il piccolo sumo che piange”. Si tiene tutti gli anni, per la precisione ogni 5 maggio, nel tempio Sensoji di Tokyo. L’occasione da celebrare è la Giornata dei Bambini, una festività che fa parte della “Golden Week”, la settimana in cui in Giappone ricorrono ben quattro festività pubbliche: la Festa del Verde (tradizionalmente il 29 aprile ma ora spostata al 4 maggio), la Festa della Costituzione (il 3 maggio), la Festa del Popolo (il 4 maggio) e, per l’appunto, la Festa dei Bambini. Due neonati vestiti in kimono dai colori vibranti sono sistemati su cuscini in una piccola arena rotonda. Un arbitro dà inizio al gioco, che consiste nel far piangere i due sfidanti: per prima cosa si mette a urlare in modo truce “Nake! Nake! Nake!” (Piangi, piangi, piangi!), e se questo non funziona indossa una maschera da demone per spaventarli. Sembrerebbe una pratica terribile ma è basata su una tradizione giapponese di più di 400 anni, fondata sulla credenza consolidata che, come recita un proverbio famoso, “i bambini che piangono crescono in fretta” (in giapponese naku ko wa sodatsu). È esattamente lo scopo della gara: sostenere la crescita di bambini sani e rafforzare il loro spirito, in linea con la tradizione buddista per cui il pianto è un modo per far uscire gli spiriti cattivi.
Al di là della curiosità che genera, lo spettacolo del Nakizumo suggerisce che ogni nazione ha un complesso di credenze specifiche su cosa i bambini siano, quale sia il modo migliore di prendersene cura e quali le qualità e i comportamenti che si desidera insegnare loro. Le mie aspettative sul comportamento vincente all’interno della competizione erano evidentemente basate sui miei assunti culturali. Fra questi il credere che gli adulti debbano incoraggiare nei bambini le qualità più simili possibile a quelle degli adulti, come la capacità di trattenere il pianto. Diversi studi antropologici sottolineano come, invece, i giapponesi privilegino i comportamenti esplicitamente e sfacciatamente infantili. Lo si osserva anche a scuola. Nelle classi europee e americane gli insegnanti cercano di ridurre il tono dei conflitti fra gli alunni, favorendo l’espressione verbale di richieste, spiegazioni e scuse. Negli Stati Uniti, ad esempio, un comportamento scorretto viene punito assegnando ai bambini momenti di pausa detti time out, durante i quali devono ripensare a ciò che è stato fatto e individuare con calma il modo di porvi rimedio.

In Giappone, invece, le insegnanti tendono a non intervenire direttamente nei conflitti fra bambini, e li incoraggiano a risolvere direttamente i problemi con i compagni, poiché il conflitto è visto come una manifestazione tipica dell’età, e quindi desiderabile. Negli anni Settantta l’antropologo e psicologo Robert Le Vine, professore emerito di Pedagogia e Antropologia alla Harvard University, lo aveva chiamato “il problema giapponese”: il modo di educare i bambini del Sol Levante metteva in crisi molti assunti dello sviluppo infantile occidentale e in particolare nordamericano. I genitori giapponesi dormono tradizionalmente con i figli, le madri antepongono il legame madre-figlio a quello moglie-marito e l’interdipendenza fra adulti e bambini è preferita rispetto all’autonomia. Tutte pratiche che in termini psico-dinamici occidentali dovrebbero produrre bambini nevrotici.
Va poi detto che il Nakizumo non riproduce il modo quotidiano giapponese di prendersi cura dei bambini. Gli etno-pediatri che hanno studiato come le varie culture gestiscono il pianto dei neonati hanno calcolato che mentre nelle culture tradizionali, per esempio presso i Kunng del Kalahari, la risposta al pianto avviene dopo circa 30 secondi, in America nel 43% dei casi non c’è alcuna risposta da parte del genitore. Un’attitudine rafforzata dall’abitudine di sistemare i piccoli in letti e in stanze separate da quelle dei grandi, diminuendo così la possibilità di rispondere rapidamente ai vagiti del neonato.

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