Guerrieri e paciere nei poemi epici del Rinascimento

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In molti personaggi femminili della tradizione cavalleresca ed epico-storica è possibile riconoscere una visione della guerra, della pace, dei generi che contrasta con quella egemone. Dal numero 27 de La ricerca.
Dosso Dossi, La maga Alcina, 1515 circa, olio su tela (Washington, National Gallery).

 

Il genere letterario dell’epica, tanto nella sua declinazione storica quanto in quella cavalleresca, è tradizionalmente associato a fatti bellici e a quell’espressione di mascolinità che oggi viene definita tossica: il duello, la sfida per il primato qualitativo e quantitativo, la proclamazione di superiorità rivelano un intreccio di questioni che si fondano su una certa visione dell’uomo e della donna, della religione, dell’etnia se non della razza. Nella scuola italiana, l’epica è sempre stata considerata un punto imprescindibile della programmazione, una disciplina dotata di alto valore pedagogico per l’esemplarità delle azioni mescolata con il gusto per il meraviglioso. Scriveva nel 1855 la pedagogista e critica Caterina Franceschi Ferrucci, con riferimento alla formazione scolastica delle ragazze, oltre che dei ragazzi:

Venendo poscia a parlare dell’epica poesia, […] faremo chiaro […] convenirsi alla essenza sua unire il finto col naturale, spargere sulle cose più consuete colore di novità, e con immagini varie e proprie aggiunger decoro e ornamento al vero. Da che vuolsi far manifesto, come i costumi de’ personaggi di cui nel poema sono ritratte le imprese, debbano essere dipinti in maniera da risvegliare l’odio del vizio e l’amore della virtù. […] spetta al poeta d’intrecciare in tal guisa le sue finzioni, che ne derivino ammaestramenti appropriati ad emendare certi vizi, a togliere alcuni errori e a ridestare nell’universale lo zelo del bene e la morta fede.

I guerrieri epici devono spronare a nobili ideali e imprese, soprattutto quando la patria o non c’è ancora oppure è in pericolo. Anche per questo i momenti chiave dell’epica classica, tradotti da illustri intellettuali, conservano il loro successo didattico fin dal primo anno della secondaria di primo grado. Ovviamente sono cambiati i presupposti di queste letture, che privilegiano il racconto dei grandi miti, si aprono alle storie d’amore (quanti eufemismi, un tempo, per la relazione tra Patroclo e Achille o sulla vita comune delle Amazzoni!), spesso saltano i lunghi e soporiferi cataloghi bellici. Mentre però osserviamo le immagini di un’Europa e di una Palestina sconvolte, di nuovo, dalla guerra, mentre nelle parole delle opposte propagande si continua a parlare di uno scontro tra Occidente e Oriente, tra civiltà e barbarie, la memoria torna alle vicende dell’epica rinascimentale, ai duelli e alle battaglie tra franchi e saraceni. Di queste vicende, che studiamo in genere da un unico punto di vista, si tende oggi a porre in risalto due aspetti: il legame solo apparentemente consequenziale tra mascolinità e guerra; la carica colonizzatrice del racconto delle guerre carolinge (il ciclo di Rolando-Orlando), delle crociate medievali (la conquista di Gerusalemme, nel 1099, tra le poche vittorie “franche”), dei tentativi di riconquista di aree balcaniche passate, nel Quattrocento, al controllo turco (le imprese di Scanderbeg, eroe nazionale albanese). In realtà, sono il tono e il temperamento del singolo autore o della singola autrice a inserire le vicende epiche entro una cornice più o meno consapevolmente imperialistica; Ludovico Ariosto, ad esempio, ben conscio del logoramento a cui la tradizione cavalleresca era andata incontro, anziché riproporre il già detto tale e quale, lo rivisita e ne prende le distanze con l’arma, questa sì efficacissima, dell’ironia.

Il caleidoscopio dell’Orlando furioso ci offre, così, ampio materiale per osservare una costante decostruzione dei modelli epici, delle barriere etniche, dei confini di genere.

Tra i paladini di Carlo, a parte le differenze caratteriali, lo schema etico dominante è quello del guerriero indomito, sempre pronto a sacrificarsi e messo alla berlina o relegato negli abissi della follia quando, uscito come Orlando dal campo di battaglia, entri in quello dell’eros. Un altro personaggio spicca per i suoi continui attraversamenti di porte: è Ruggiero, cui Ariosto affida il non secondario compito di incarnare il filone encomiastico del poema, come progenitore cavalleresco della casata d’Este; tra i suoi membri c’era l’agguerritissimo cardinal Ippolito, la «generosa Erculea prole» del proemio, protagonista di un’accesa e sanguinosa rivalità con il fratello Giulio, che fu sfregiato (lo riracconta Maria Bellonci nella sua sublime Lucrezia Borgia). Ruggiero transita fra due mondi (discendente di Ettore troiano e di Alessandro il Macedone, re dei Bulgari, soldato di re Agramante e poi di re Carlo, infine vassallo dell’imperatore di Costantinopoli), fra due religioni (musulmano, poi cristiano), fra due legami sociali dalle forti connotazioni sentimentali (la protezione del mago Atlante, il matrimonio con Bradamante). In un’occasione, inoltre, Ruggiero sembra avviare un percorso di transizione di genere, quando l’ippogrifo, su mandato del solito Atlante, lo fa atterrare nell’isola remota di Alcina.

La maga, il cui nome ricorda quello di Alcinoo, altro re di una corte pacifica e amena, nell’Odissea, vive oltre l’Europa, oltre il «segno» d’Ercole, quelle colonne che all’epoca di Ariosto erano state varcate dai colonizzatori.

Tra «chiare acque, ombrose ripe e prati molli» (VI, 20), fragranti agrumeti, fronde ombrose contro il calore estivo, usignoli canterini che incoraggiano il sesso, animali liberi, dai cervi ai conigli, «senza temer ch’alcun gli uccida o pigli» (VI, 22), Ruggiero pensa di essere arrivato, appunto, nell’isola dei Feaci, in un giardino paradisiaco e pacifico. Per prima cosa si disarma: è un gesto di forte valenza simbolica, per un guerriero sempre pronto al duello, e che rivela il suo ingresso in una dimensione nuova.

L’isola di Alcina, però, non è veramente in pace. La maga ha dovuto ritagliarsi il proprio spazio di governo strappandolo, con l’alleanza di Morgana, a una terza sorella, Logistilla, «pudica e santa» (VI, 46), la maga del lógos, della razionalità, dell’ordine costituito, specchio dei valori maschili. È dunque un regno solo apparentemente armonioso, presidiato da un esercito che più plurale non si può: creature da corteo bacchico, metà uomini e metà animali (scimmie, gatti, capri, centauri), «chi femina è, chi maschio, e chi amendue» (VI, 62), tuttə guidatə da un panciuto ubriaco a cavallo (si fa per dire) di una lentissima testuggine.

L’isola è anche popolata di ex uomini, gli amanti di Alcina trasformati da lei, ormai stanca della relazione, in vari esseri, secondo la tradizione della Circe omerica. Tra questi Ruggiero incontra subito Astolfo, ridotto a vegetale, che lo mette in guardia, invano. L’accoglienza di Alcina e delle sue ministre è troppo gradevole per essere rifiutata e Ruggiero, come tutti i polli prima di lui, conta di diventare quell’unico prescelto per essere amato in esclusiva dalla maga. Una volta varcata la porta d’oro della città-paradiso, accolto da due donzelle, Ruggiero assiste a uno spettacolo impensato, che trasuda abbondanza («sta ognor col corno pien la Copia»: VI, 73): ragazze di verde vestite e inghirlandate che corrono; giovani che si confidano; Amorini che affilano le frecce (le uniche armi qui ammesse). Tuttavia, prima di arrivare a palazzo, Ruggiero deve affrontare una breve prova, come in una contro-iniziazione: l’amenità è disturbata da un mostro, la gigantessa Erifilla, allegoria simile alla lupa dantesca, la quale infatti troneggia su un lupo «grosso et alto più d’un bue» (VII, 4). Sconfitta senza troppa fatica Erifilla, Ruggiero entra in un bosco e lungo una via stretta e sassosa sale una collina che invece è ben diversa dal colle della Grazia avvistato da Dante all’inizio dell’Inferno. Sulla sua cima sorge il bellissimo palazzo di Alcina, con la gente più gentile e gradevole del mondo, compresi i poeti. La descrizione di Alcina è uno sfoggio di stilemi petrarcheschi e danteschi, che culminano nel dolce sorriso «ch’apre a sua posta in terra il paradiso» (VII, 13); questa quasi-Beatrice osa indossare un vestito che non nasconde (come per le donne in carne e ossa dell’epoca), ma rivela, persino i piedi, che andavano assolutamente coperti. Qui gli amanti si sentono liberi di confessarsi ogni segreto «senza divieto» (VII, 21), senza pressioni sociali. Se proprio ci si deve dedicare a maschie passioni, si va a caccia.

 

Rutilio Manetti, Ruggiero alla corte di Alcina con le altre coppie di innamorati/e, 1624, olio su tela (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina).

Questo luogo di amore contrasta con la morale corrente e, nonostante a Ruggiero non dispiaccia, viene presentato come «lunga inerzia» (VII, 41), «regno effeminato e molle» (VII, 48), insomma un concentrato di tutto ciò che un eroe non dovrebbe essere, non dovrebbe volere. Gli abbracci d’amore con la maga, lungamente attesi, infine avvengono; Ariosto paragona gli avviticchiati Ruggiero e Alcina all’edera e commenta divertito la loro capacità orale: «avean più d’una lingua in bocca» (VII, 29). La trasformazione dell’ormai ex eroe è sottolineata dal suo inesorabile scivolamento dalla sfera tipica della mascolinità a quella tipica della femminilità: Ruggiero si traveste; Alcina lo ingioiella come un bambolo; gli dona un abito raffinato da lei stessa confezionato (l’arte della tessitura accompagna anche le donne emancipate e ribelli come Alcina); ne fa il suo Adone.

Tutto ciò è intollerabile e Bradamante, la guerriera innamorata di Ruggiero (altro personaggio in cui femminilità e mascolinità si mescolano), chiede di intervenire alla propria alleata magica, Melissa. Questa a sua volta si traveste, da uomo, da Atlante, e si presenta a Ruggiero: lo ritrova agghindato da donna, con abiti lussuosi, con uno «splendido monile» incastonato di gemme, due braccialetti, gli orecchini di perle, con i capelli profumati e lisci grazie a una specie di gel; insomma, «tutto ne’ gesti era amoroso» (VII, ott. 53-55). Melissa gliene dice di tutti i colori, predica contro l’«ozio» e la «lascivia» (VII, 53) come una discepola di san Bernardino, paragona i gioielli a catene, fino a dare a Ruggiero del «già virile» (VII, 54) e a definire il futuro fondatore degli Este un eunuco («come / fosse in Valenza a servir donne avezzo»: VIII, 55). Proprio il tratto della fecondità, normalmente associato alle progenitrici, entra di prepotenza nel discorso di Melissa-Atlante: Ruggiero è colpito al «ventre» (VII, 60), nella sua capacità generativa («concetto», VII, 60, dalla stessa radice di concepimento), al pari di una donna-madre: l’«arbor tuo fecondo» (VII, 62) rischia di rimanere senza frutti, di non generare la «generosa Erculea prole». Dall’altra parte, Alcina è presentata come una meretrice, «concubina» di mille altri amanti (VII, 64), che ha disperso le proprie potenzialità materne. E la quasi-Beatrice si trasforma nel suo opposto, una contro-Beatrice di sapore anti-petrarchesco: dietro il make-up, Alcina è pallida, quasi calva, sdentata, di bassa statura, più vecchia della Sibilla Cumana, e solo grazie a una sorta di alchimia plastica riesce ad apparire sempre giovane. Ruggiero si vergogna, prova «scorno», vorrebbe sotterrarsi, si mostra vittima (povero ingenuo erede di Adamo) di «magica violenza» (VII, 67). Rinsavito, risvegliato, tornato in sé (ma non era un sé anche il Ruggiero travestito?), il riaffermato eroe ha bisogno di un aiuto: un anello magico, che, come un’arra dell’anello nuziale, Melissa gli consegna da parte di Bradamante. Questo gli consente di verificare le parole di Melissa e ora Alcina gli appare davvero come la donna più brutta e «laida» del mondo (VII, 72), una «puttana vecchia» (VII, 79), alla quale pure si era avvinghiato come edera e di cui aveva assaggiato la lingua.

Dopo la parentesi, Ruggiero si riarma (inizio di una nuova fase), imbraccia lo scudo magico e si rimette ben saldamente al fianco la spada Balisarda, gesto che non possiamo non leggere come una riaffermazione – più metonimica che metaforica – della sua potenza sessuale (ora sì che è tornato il Ruggiero estense, futuro marito di Bradamante). Bisogna però mantenere il segreto per sconfiggere Alcina e il suo esercito, e tagliare la corda al momento opportuno; Melissa, spogliatasi dei panni di Atlante, gli sussurrerà il da farsi, invisibile, alle orecchie, durante la fuga verso Logistilla, la maga dai «costumi casti» e dalla «bellezza eterna» (X, 45), nel cui soave regno non c’è più da sperare né da temere ma nemmeno da desiderare (che noia!). Per arrivare alla sua corte, diciamo pure, patriarcale, si percorre una strada impervia e solitaria, molto meno affollata di quella di Alcina e, questa sì, molto più simile alla selva oscura di Dante, oltre una spiaggia deserta, assolata, immobile, con il solo frinire della cicala, e poi a bordo di una barca guidata da un Caronte buono, che traghetta l’eroe verso la parte “giusta” dell’isola (e della Storia).

Alcina è «disperata» (VIII, 13) e lascia incustodito il proprio palazzo pur di fermare Ruggiero; se ne approfitta Melissa, che restituisce forma umana agli amanti i quali, diversamente da Ruggiero, avevano perseverato nella relazione con la maga e ne erano stati trasformati, come Astolfo. Non solo quindi Ruggiero si salva, ma la sua salvezza è stata l’occasione per sconfiggere definitivamente Alcina e le sue pretese dinastiche contro Logistilla. La vinta vorrebbe poter morire, come Cleopatra, come Didone abbandonata, ma le fate – precisa maliziosamente Ariosto – sono immortali, quanto meno sino alla fine del mondo.

Tutto è cambiato: Astolfo è tornato Astolfo, persino l’ippogrifo sarà più docile agli ordini del suo cavaliere grazie a un nuovo morso logistillico. E Ruggiero, dopo questa avventura, sarà di nuovo un bravo eroe, un eroe “vero”; viaggerà e tornerà ai suoi doveri di soldato, come un Odisseo moralizzato, un Robinson Crusoe imborghesito: a partire dall’isola coprirà l’altra metà del planisfero, fino alla Scizia, alla Sarmazia, alla Russia, alla Prutenia, alla Pomerania, luoghi che ci sono diventati tanto cari. Un Odisseo pur sempre d’Oriente: Ariosto lo paragona ai re magi che, dopo aver saputo dell’ira di Erode contro il piccolo Gesù, tornano in Persia da una strada diversa, cioè senza passare dal via, da Gerusalemme, senza dire addio ad Alcina. La sua prima avventura sarà quella di un eroe che ha vinto la tentazione, che è rientrato nei ranghi: libererà la bella Angelica (lei sì che se lo meritava!), sul punto di essere sbranata dall’orca di Ebuda.

L’episodio di Alcina avrà un enorme successo, iconografico e soprattutto operistico; tra i tanti melodrammi, ricordiamo la Liberazione di Ruggiero da l’isola d’Alcina (1625), che vanta due primati: prima opera di una compositrice, Francesca Caccini (su libretto di Ferdinando Saracinelli), e prima opera esportata all’estero, per volontà di Władisław IV Waza, principe di quella Polonia percorsa in volo da Ruggiero. Sulla scena i giardini rivali di Alcina e Logistilla, i travestimenti dei personaggi, le loro molteplici transizioni sono ancora più efficaci.

Nessun eroe – sembra la morale fiabesca dell’episodio se non di tutto l’Orlando furioso – è immune dall’amore; anche i pii e i duri di cuore sperimentano questo sentimento, che sia o meno corrisposto. E lo prova il poema che si può considerare l’espressione per eccellenza del clima controriformistico della seconda metà del Cinquecento: la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Tra tutti i suoi personaggi, quello più associato a una storia di passione turbolenta è Tancredi, che le cronache medievali ricordano per le sue efferatezze durante l’assedio colonizzatore di Gerusalemme, e che in Tasso è protagonista di un triangolo amoroso: di lui è innamorata la principessa di Antiochia Erminia, mentre lui è innamorato della guerriera musulmana Clorinda, nata nel Regno d’Etiopia, altra eroina oltre i confini e oltre i generi. L’incontro fra Tancredi e Clorinda è però fatale; morte, amore e fede si congiungono nell’istante in cui il cristiano colpisce, riconosce e battezza la guerriera. Il proverbio greco per cui dal dolore deriva il sapere è condensato in un distico memorabile: «La vide, la conobbe, e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!» (XII, 67).

Domenico Tintoretto, Tancredi battezza Clorinda, 1586-1600, olio su tela (Houston, The Museum of Fine Arts).

Nella Gerusalemme liberata c’è però un’altra coppia che rinverdisce la memoria della corte eterodossa di Alcina. Il guerriero Rinaldo, campione dell’esercito crociato, cede all’amore e alla pace nel giardino della maga Armida, che si contempla in uno specchio di sapore narcisistico. Rispetto ad Ariosto, Tasso si profonde in meno dettagli circa il nuovo outfit dell’eroe, ma, quando questi si vede a sua volta riflesso, l’immagine specchiata è inequivocabile: «con delicato culto adorno», «spira / tutto odori e lascivie il crine e ’l manto» e il ferro stesso della spada sembra «dal troppo lusso effeminato» (XVI, 30). Rinaldo come Ruggiero si è spostato nel mondo dell’amore e della raffinatezza estetica, tipicamente femminile. Anche lui dovrà lasciarlo sotto la spinta dei doveri militari e sociali (il freudiano Super-Io), ma intanto se lo è ampiamente goduto. Armida, infine, non potrà sfuggire, come già Alcina, alla punizione: innamorata di Rinaldo, cercherà di colpirlo durante l’assedio finale, ma sarà da lui raggiunta e, disarmata, spinta alla conversione. Il corpo della maga viene così esposto a una colonizzazione che parte dall’eros per toccare ben altri livelli di possesso.

Francesco Hayez, Rinaldo e Armida, 1812-13, olio su tela (Venezia, Gallerie dell’Accademia).

Mentre gli eroi Ruggiero e Rinaldo offrono tracce di passaggi di genere, nell’Orlando furioso è contenuto un vero e proprio racconto di transizione. Benché il travestimento o lo scambio maschile-femminile sia spesso un accorgimento da commedia, un momento carnevalesco che deve alla fine rientrare, Ariosto si addentra in un racconto che non può essere relegato a mero intrattenimento drammaturgico. Esso coinvolge sia due dei protagonisti del poema (Ruggiero e Bradamante) sia una coppia di personaggi secondari (Ricciardetto e Fiordispina). Tutto ha inizio, nel canto XXV, con Ruggiero (proprio quello che si era travestito da donna alla corte della maga Alcina) che si imbatte in un giovane condannato a morte identico alla sua amata: è Ricciardetto, fratello gemello di Bradamante, così punito perché innamorato di Fiordispina, figlia del potente Marsilio, re dei saraceni in Spagna. Ruggiero lo salva, facendo strage dei soldati che lo avevano legato, e, quando gli chiede di presentarsi, si accorge che, nonostante la forte somiglianza con l’amata Bradamante, qualcosa non torna: la bellezza è la stessa, ma «la suavità de la favella» e «la relazion di grazie» mancano (ott. 20). Oltretutto il bel giovane mostra di non ricordarsi il nome del suo salvatore – cosa impossibile se si fosse trattato della vera Bradamante. Il ragazzo scioglie presto ogni dubbio, non lasciando il tempo per manifestazioni d’affetto più ravvicinate. È appunto Ricciardetto, le cui fattezze sono sovrapponibili a quelle della sorella gemella anche perché ormai portano entrambi i capelli corti (unica differenza utile in passato a distinguerli agli occhi dei loro stessi parenti e servitori).

È quindi il momento di una digressione (una «istoria» più bella di qualunque «fabula», proclama Ricciardetto con consapevolezza metaletteraria, ott. 27) sul motivo della condanna a morte a cui è scampato. Pochi giorni prima, Fiordispina, a caccia, aveva incontrato per caso, in un bosco, la vera Bradamante ferita ed essendo costei tutta armata e con i capelli corti l’aveva presa per un cavaliere: «avea la spada in luogo di conocchia» (ott. 28; Bradamante, come poi Clorinda in Tasso, «sdegna ai femminili uffici / chinar la destra» di tessitrice, avrebbe scritto la poetessa arcadica Petronilla Paolini).

È un colpo di fulmine. Fiordispina si innamora all’istante del misterioso cavaliere e lo/a trascina in una radura solitaria per confessare la propria passione lontano da occhi e orecchie indiscrete: «con gli occhi ardenti e coi sospir di fuoco / le mostra l’alma di disio consunta» (ott. 29). In ottave che trasudano erotismo (piene «di dolce e di nettareo succo», ott. 31: altro che petrarchismo canonico!), Fiordispina, senza saperlo, fa coming out e bacia Bradamante. Quest’ultima, trovandosi in territorio nemico, non può reagire brutalmente e così opta per un discorso cortese, in modo da risolvere l’equivoco comportandosi da «femina gentile» anziché da «uomo vile» (ott. 30). Si presenta come cavaliera, sul modello di Ippolita, regina delle Amazzoni, e di Camilla, guerriera virgiliana nel Lazio, ma la rivelazione non spegne l’amore di Fiordispina, anzi lo fomenta. Il cuore di costei è diviso in frammenti, uno in sede, l’altro negli occhi di Bradamante, secondo una fenomenologia di tradizione, e le due metà non sono più ricomponibili. Fiordispina si scioglie allora in un lamento, frutto di «doglia immensa» (ott. 33), che ricorda quello di Ifi nelle Metamorfosi di Ovidio, punto di riferimento per i racconti di transizione:

Se pur volevi, Amor, darmi tormento
che t’increscesse il mio felice stato,
d’alcun martìr dovevi star contento
che fosse ancor negli altri amanti usato.
Né tra gli uomini mai né tra l’armento,
che femina ami femina ho trovato:
non par la donna all’altre donne bella,
né a cervie cervia, né all’agnelle agnella.

Esattamente come Ifi, Fiordispina si sente sola al mondo, vittima di un dio d’Amore che ha voluto fornire attraverso di lei un esempio estremo di passione non conforme, ancora più difficile da appagare degli incesti di Semiramide e di Mirra o della zooerastia di Pasifae (ossia le storie di amori fuori dai canoni cristallizzatesi nel tempo e confluite nel calderone della «sodomia»). L’eventuale relazione tra le due giovani è priva di modelli, è «folle» (ott. 36), eppur reale, visto che la potenza di «Natura» sembra vincere su tutto (ott. 37). Al riconoscimento di un’eccezionalità irregolare seguono manifestazioni di autolesionismo, volte ad annullare i tratti femminili, soprattutto il viso e i capelli, per una forma di crudele contrappasso; a nulla valgono le parole di Bradamante che, donna di mondo ma in questo caso disarmata, tenta di alleviare i sintomi dell’amore. Fiordispina cerca «aiuto», non «conforto» (ott. 39); quando invita Bradamante a ricoverarsi nel suo palazzo per non rimanere di notte sole nel bosco, la fa rivestire di abiti femminili e proclama ai quattro venti che sì, sta ospitando una donna. Questa sottolineatura apparentemente accessoria è ricondotta dall’acuto Ariosto a una precisa funzione difensiva in un contesto omofobico: Fiordispina – scrive il poeta – vuole da un lato ridimensionare il proprio desiderio, incrementato dalla vista di Bradamante vestita da guerriero; dall’altro intende scongiurare qualsiasi «biasmo di sé» da parte dei castellani (ott. 41), ovvero i pettegolezzi dei malpensanti su una principessa che si accompagni a una Barbie cavaliere. Nonostante le precauzioni, le due finiscono a letto insieme, in teoria per riposare, in realtà, nel caso di Fiordispina, per continuare ad alimentare una passione ardentissima e quasi pronta per essere consumata. Anche i sogni sono attraversati dal desiderio: Fiordispina immagina che Bradamante si trasformi in uomo per prodigio e Ariosto le fa invocare Macone, una divinità confusa con il Profeta Maometto nei racconti cristiani (in realtà le confessioni abramitiche condividono gran parte della morale sessuale). Nulla però accade e Bradamante non vede l’ora di partire. Al momento di congedarla, Fiordispina le regala un cavallo e una sopravveste da lei cucita. Fu vero addio? Non proprio.

Bradamante torna a casa, ritrova la madre e i fratelli (Ricciardetto e Rinaldo), e racconta loro la storia con Fiordispina, che suscita in tutti «pietade» (ott. 48). Ricciardetto non resta indifferente perché già in passato aveva ammirato Fiordispina, ma aveva poi deposto il proprio amore senza speranza; a quelle parole, si risveglia «l’antiqua fiamma» (ott. 49) e inizia la seconda fase del racconto. Ricciardetto intende approfittare della propria somiglianza con Bradamante per riprendere e portare a buon fine il corteggiamento. Ruba le armi e il cavallo della sorella e parte per il castello di Fiordispina, che, al colmo della gioia, ricopre di baci e abbracci quella che crede essere la sua amante tornata; la invita in camera da letto, slaccia le sue armi e la riveste con abiti femminili (di nuovo una veste da lei tessuta e cucita a marcare la transizione di genere). Quindi lo/a accompagna davanti a tutta la corte, che accoglie le due dame come se fossero regine o «gran madonne»; anche altri cavalieri presenti, poveri maschi illusi, desiderano «con lascivo sguardo» la nuova arrivata (ott. 56). Al sopraggiungere delle tenebre, Fiordispina reinvita l’ospite in camera da letto, evidentemente credendo che sia tornata per compiere quello che il giorno precedente aveva lasciato interrotto. A questo punto Ricciardetto travestito integra nell’ordita finzione le motivazioni che l’avrebbero spinto/a a lasciarla, ovvero il tentativo di far smorzare l’amore impossibile di Fiordispina; partito da lei – continua – aveva incontrato una ninfa catturata da un fauno che avrebbe voluto divorarla; Ricciardetto-Bradamante aveva ucciso l’aggressore e, come premio, aveva ottenuto dalla ninfa (capace di «sforzar gli elementi e la natura», ott. 62, di scatenare terremoti, di fermare il corso del Sole) di essere trasformato in uomo. La ninfa, evidentemente più potente di Macone, avrebbe spruzzato addosso alla finta Bradamante dell’acqua miracolosa e così la donna, come Tiresia in Dante, «sento in maschio, di femina, mutarmi» (ott. 64). Fiordispina intende accertarsi personalmente dell’avvenuta metamorfosi e, come san Tommaso, vede, sente e crede «la veritade espressa» (ott. 65); ciononostante, si trova in un grande turbamento, come chi – scrive Ariosto – pensi di sognare e non voglia destarsi, dopo aver finalmente visto compiersi ciò per cui aveva tanto penato. Torna l’impeto dei baci, compaiono le metafore belliche per gli assalti erotici, insomma finalmente Fiordispina fa l’amore – crede lei – con Bradamante: sarà una notte di «risi, feste, gioir, giochi soavi», di contorcimenti e di unioni che alle fronde e alle aure di Petrarca sostituiscono ben più carnali «e colli e fianchi e braccia e gambe e petti» (ott. 69). L’affare va avanti, finché il re Marsilio lo scopre dai pettegoli di corte e fa condannare a morte Ricciardetto, che oltretutto è nemico politico e religioso del sovrano. E qui finisce la lunga digressione, con Ruggiero intervenuto per difenderlo e portarlo con sé.

È un peccato che Ariosto lasci spezzato, nel seguito del poema, il discorso su Fiordispina, la quale non riappare più. Convinta dalla bella menzogna di Ricciardetto, sembra fare la parte dell’ennesima sedotta e abbandonata. Qualcuno le avrà riferito che il cristiano era stato liberato e non condannato a morte, poi chissà. Quel che è certo è che Ariosto ci abbia consegnato, nel bel mezzo della guerra, sia un racconto di amore omosessuale senza falsi pudori, nei suoi snodi ricorrenti (la coscienza dell’emarginazione, la difficile accettazione del corpo e delle sue pulsioni, il percorso dentro e fuori l’armadio per antonomasia), sia la descrizione dettagliata e scevra di becera ironia di una metamorfosi transessuale (pur soltanto immaginata).

La mescolanza tra aspetti, fisici e interiori, tipicamente maschili e tipicamente femminili caratterizza una coppia di eroine fuori dagli schemi nella Scanderbeide di Margherita Sarrocchi. In questo poema epico-storico, il primo pubblicato da un’autrice (l’edizione definitiva, postuma, è del 1623), troviamo due personaggi femminili che scelgono una vita diversa da quella prefissata per il loro genere: Rosmonda, la figlia del sultano Amuratte, il «cattivo» della situazione, la quale ha imbracciato le armi per combattere contro i ribelli albanesi dell’Impero ottomano, nel Quattrocento, e Silveria, una donna che ha deciso di ritirarsi a vivere sul monte Olimpo. Rosmonda e Silveria, che non si conoscono, si incontrano per un fatto di sangue; la principessa ha infatti promesso a una donna di vendicare la morte dei suoi due figli, caduti – pare – per la furia ferina di Silveria, nata tra le selve. Messasi sulle sue tracce, Rosmonda la stana e scopre però dalle sue parole una versione diversa della storia: i due fratelli Silveria li ha uccisi perché avevano tentato di violentare lei che, asessuale seguace di Diana, aveva deciso di non cedere all’amore e quindi non aveva espresso alcun consenso. Silveria professa di non amare le carneficine umane, a lei bastano le battute di caccia («non che di sangue human nudrir mi piaccia, / bastan le fere a me, ch’uccido in caccia»: XIII, ott. 24); Rosmonda è convinta dalle sue argomentazioni, tanto da proclamare con l’autorità della legislatrice:

«Morte unqua altra non fu con più ragione»,
dice, «non pena, no, merti, ma lode.
Nome d’amante il cieco volgo impone
così ad un cor che con inganno e frode
l’odio ricopre sotto il vel d’amore,
del chiaro honor donnesco insidiatore» (ott. 25).

Rosmonda assolve Silveria, non la perseguita, come invece aveva promesso alla madre degli uccisi, e arriva a elaborare una spiegazione modernissima della tentata violenza sessuale come frutto di un’errata interpretazione dell’amore. La gente, dice Rosmonda, chiama «amore», seduzione, ciò che una donna subisce senza consenso. È una visione nuova del «ratto» che può essere il frutto di una vicenda che a Roma aveva destato scalpore, nel 1599: la nobildonna Beatrice Cenci aveva ucciso il proprio padre abusante ed era stata per questo processata e condannata a morte. Come ricorda la curatrice dell’edizione inglese della Scanderbeide, Rinaldina Russell, Sarrocchi ospitò nella sua casa di Roma la donna a cui Cenci aveva affidato il proprio figlio, mostrando non solo di conoscere bene il caso, ma di esservi stata coinvolta, dalla parte della condannata. Le armi di Silveria, in questo quadro, diventano mezzo di legittima difesa e rivelano quelle battaglie quotidiane che, pur senza dichiarazioni di guerra formali, costringevano le donne a guerre continue, da una posizione subordinata, mal tutelata persino dal diritto.

Che cosa resta dell’isola di Alcina, del giardino di Armida, delle selve di Silveria? Di quei mondi un po’ speciosi, che nei poemi sono l’alternativa alla guerra? Che fine han fatto il palazzo d’oro, il non-esercito di ermafroditi, lo specchio, le vesti delicate, la singletudine pacifica? Alcina, Armida, Silveria sono fra noi, solo che se ne stanno in disparte: vigilano intorno ai tavoli delle trattative e alle videoconferenze dei Carli e degli Agramanti di oggi; presidiano il Palazzo di Vetro; invitano a coltivare l’edera più della zizzania. Il potere, però, preferisce Melissa e Logistilla, si appella al finale prevaricatore delle storie, guai a ricordare le parentesi poco guerresche degli eroi. Bisognerebbe invece toglierle, quelle parentesi, e ricollocarle altrove, perché il regno colorato della pace non sia l’eccezione ma la regola.


Bibliografia

M. Bellonci, Lucrezia Borgia, Mondadori, Milano 2003.
M.-M. DeCoste, “Knots of Desire: Female Homoeroticism in Orlando furioso 25”, in Queer Italia: Same-Sex Desire in Italian Literature and Film, a cura di G.P. Cestaro, Palgrave Macmillan, New York 2004, pp. 55-69.
C. Franceschi Ferrucci, Degli studi delle donne italiane libri quattro, Pomba, Torino 1855.
M. Sarrocchi, Scanderbeide: The Heroic Deeds of George Scanderbeg, King of Epirus, trans. R. Russell, The University of Chicago Press, Chicago 2006.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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