Grande scultura nei musei di Copenhagen

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Non è forse sbagliato definire Copenaghen una sorta di “capitale europea” della scultura, soprattutto grazie a due musei che rappresentano al meglio questo tipo di arte.

Kouros

Mi riferisco, anzitutto, alla celeberrima Ny Carlsberg Glyptotek sorta nel 1888 dopo che Carl Jacobsen (1842-1914) donò allo Stato la sua collezione d’arte e di antichità: infatti il museo reca il nome del birrificio che Jacobsen fondò e che ancora oggi fa la felicità di assetati bevitori, danesi e no…
Non intendo in questa sede parlare diffusamente del museo, perché è grande e ricco di reperti archeologici, sculture, dipinti dall’antichità al primo Novecento. Voglio invece, brevissimamente, soffermarmi solo sulla statuaria della sezione greco-romana, che contiene dei pezzi di particolare qualità e notorietà; e anche qui, è davvero difficile fare delle scelte. Sul fronte greco non si può però omettere di segnalare una Testa di kouros (520 a.c. circa), i cui occhi e la cui chioma conservano ancora traccia del rosso della colorazione originaria; le celebri, drammatiche, due statue greche di Niobidi (440 a.C. circa), provenienti dai cosiddetti Horti sallustiani dell’Urbe, alla data della mia visita (gennaio 2014) erano invece assenti, perché esposte a Roma, alla mostra delle Scuderie del Quirinale sul Bimillenario Augusteo.

Busto_da_Palmyra

E, passando all’arte romana, che dire del celebre Ritratto di Pompeo – presente in tutti i libri di storia – le cui rughe sembrano provocate dalla paura di perdere la libertas repubblicana? O dell’inquietante Busto dell’imperatore Caligola, che manifesta nello sguardo tutta la folle ferocia del potere? Interessanti sono pure le sculture provenienti da alcune lussuose ville romane, e del tutto particolari i rilievi funerari di età imperiale avanzata che provengono dalla città romano-siriaca di Palmyra e che rappresentano un unicum nella pur variegata realtà dell’arte antica. Insomma, perdersi tra gli eleganti corridoi, le ampie sale, il magnifico “giardino d’inverno” della Glyptotek è un’esperienza da consigliare a ogni appassionato d’arte antica.
Ma Copenaghen è anche la patria di Bertel Thorvaldsen (1770-1844), uno degli indiscussi protagonisti del Neoclassicismo europeo. Non stupisce, dunque, che larga parte della sua carriera artistica si sia svolta in Italia: qui – al pari di molti suoi contemporanei – lavorò per mecenati privati, ma anche per il “Bonaparte liberatore” di foscoliana memoria e, con lo stesso zelo, per alcuni pontefici romani. Dunque la sua vita artistica ebbe come poli, oltre l’amata Copenaghen, l’altrettanto amata Roma, ma anche città – tra le altre – dell’importanza di Vienna e Varsavia.

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Meno geniale, certo più schematico e dai tratti un po’ meno “leggeri” di quelli del sublime Antonio Canova, che pure apprezzò il nostro e lo protesse, Thorvaldsen fu comunque scultore di valore e successo, e le sue opere si trovano nei maggiori musei del mondo, Louvre compreso. A Copenaghen, però, dopo la sua morte, è stato costruito un museo a lui interamente dedicato, cioè il Thorvaldsen Museum, che custodisce una vasta collezione di oggetti e di opere del Maestro, nonché la sua tomba, come egli aveva espressamente richiesto: il minimo, diremmo noi, per uno che aveva donato alla propria città natale tutti i suoi averi. L’edificio attuale, progettato dall’architetto danese Gottlieb Bindesbøll, fu terminato nel 1848 e rappresenta il più antico museo di Danimarca. Il materiale conservato è molto ed eterogeneo: infatti, oltre ai pezzi archeologici, alle gemme antiche, ai quadri e ai disegni (di Thorvaldsen e no), spicca una collezione di gessi, statue marmoree e bassorilievi autografi davvero emozionante. Anche qui – come per la Ny Carlsberg Glyptotek – non è facile segnalare qualcosa, senza “far torto” ad altri monumenti di pari bellezza; impossibile però non ammirare a bocca aperta l’eroico Giasone col vello d’oro (1803), la “perfetta” Venere con una mela (1813-186), il giovane Ganimede con l’aquila di Giove (1817), o una delle versioni del celebre Cupido e le Grazie (1820-22), che tanto occhieggia ai modi canoviani.

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Termino questo mio breve reportage con una riflessione paradossale. Il giovane Thorvaldsen si “fece le ossa” a Roma, dove eseguì molte copie da opere antiche, e studiò la pittura vascolare etrusca, e la scultura fittile etrusco-romana: se fosse nato un secolo dopo, quelle “ossa” avrebbe potuto “farsele” anche alla Ny Carlsberg Glyptotek della sua città! Ma, ripeto, si tratta di un paradosso, perché è solo in quel particolare contesto romano, dove si sentiva ancora l’eco della lezione del grande Winckelmann, dove risiedevano il papa e i cardinali, dove operavano abili maestri di bottega, dove girellavano archeologi più o meno validi, dove giungevano mercanti, collezionisti, mecenati da tutta Europa, che Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen potevano diventare quello che sono stati. Diventare gradi scultori “neoclassici”, insomma, era possibile (quasi…) solo all’ombra del Colosseo. All’ombra di quel Colosseo dove lo stesso Thorvaldsen divenne maestro per generazioni di futuri scultori, molti dei quali nordici, i quali propagarono un po’ ovunque in Europa lo spirito neoclassico: tra i danesi ricordo solo il pupillo Herman Wilhelm Bissen, e quel Jens Adolf Jerichau, che – più giovane – virò poi verso una mossa sensibilità romantica. E il nostro non lesinò neppure il suo influsso sui pittori suoi connazionali, se è vero che il danese Christoffer Wilhelm Eckersberg, dopo avere studiato a Parigi con David, soggiornò a Roma tra il 1813 e il 1816 e fece parte dell’entourage di Thorvaldsen: non a caso il neoclassico Eckersberg è considerato una sorta di “padre della pittura danese”, e comunque l’iniziatore del suo cosiddetto “periodo d’oro”, che coincide con la prima metà dell’Ottocento.

P.S. Due parole, solo due, per segnalare come alla Ny Carlsberg Glyptotek (gratis la domenica) e al Museo Nazionale Danese e alla Galleria Nazionale d’arte (gratis sempre) di Copenhagen ci fossero nei giorni passati vere e proprie colonie di famiglie danesi con bambini piccoli. E non penso sia soltanto – o almeno non solo – il gratis ad attirarle, ma i passeggini e i fasciatoi a disposizione del pubblico, le belle caffetterie con menu appositi per grandi e piccini, le sale sicure e modernamente attrezzate. Inoltre numerosi giochi a tema sono vendibili nei bookshop: gli stessi bambini che poco prima ammirano le navi vichinghe, come possono poi non volere un bell’elmo con le corna di plastica? Anche così s’impara. Anche così si diventa orgogliosi tutori del proprio patrimonio culturale. Forse, se anche i nostri musei facessero qualche passo in più in questa direzione, meno bambini italiani passerebbero il week end in quei rumorosi non-luoghi che sono i centri commerciali o nelle affollate multisala cinematografiche. E i piccoli renderebbero inoltre i musei luoghi più vivaci, più lieti: sono infatti stufo – ultracinquantenne come sono – di esserne spesso il più giovane visitatore…

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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