Rubens e l’Italia: un legame spirituale
È dunque sbagliato – come spesso si fa frettolosamente – inserirlo soltanto nella nutrita schiera dei “pittori fiamminghi”, ed è invece importante andare alla ricerca delle numerose fonti della sua arte: tra queste – come già dicevo – vi è anche l’Italia, dove Rubens visse dal 1600 al 1608 (tra Genova, Mantova, Venezia, Roma), maturando un’esperienza che rimarrà vitale in tutta la sua vasta produzione artistica.
La mostra curata da Anna Lo Bianco a Palazzo Reale di Milano, dal titolo Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco, vuole appunto proporre al grande pubblico questo lato “italiano” del maestro, che nella Penisola trasse sì ispirazione – come si è detto – ma ispirò anche le giovani generazioni di artisti come Pietro da Cortona, Bernini, Lanfranco o Luca Giordano.
Storia antica e mitologia
Le opere esposte, provenienti da prestigiosi musei e collezioni, rappresentano tra l’altro assai bene il rapporto di Rubens con la mitologia classica e la storia antica; rapporto che meglio si comprende dal confronto con alcuni di pezzi archeologici che arricchiscono l’esposizione.
Ma – si potrebbe obiettare – il Seicento, il Barocco, non erano forse le fasi della cultura europea che, dopo l’entusiasmo umanistico-rinascimentale e prima della lezione neoclassica, si erano più allontanate dall’eredità greco-romana? Beh, non è che l’affermazione sia del tutto falsa, se per “eredità greco-romana” intendiamo un concetto astratto di armonia e perfezione; un’idea alla Palladio, Canova o Winckelmann, tanto per intenderci.
L’amore per i prosatori latini e “irregolari” (Tacito, Seneca…), per la statuaria antica meno “classicista” (Torso del Belvedere, Ercole Farnese…) non confliggeva però, anzi concordava, con l’inquietudine formale e spirituale del Barocco. E proprio da tale considerazione farò scaturire qualche affermazione su alcuni (pochi in verità: non vorrei davvero dilungarmi troppo) quadri in mostra, dove suggestioni antiche, messaggi etici e religiosi si mescolano in un rutilante tourbillon.
La morte di Seneca: suggestioni letterarie e filosofiche
Così vediamo che Rubens – appassionato di filosofia – si lasciò sedurre dal racconto di Tacito del suicidio di Seneca (Annales, XV, 62-64), per ideare un grande quadro del 1615 conservato al Museo del Prado di Madrid. Un quadro dove la centralità della muscolosa figura di Seneca – dai tratti somatici simili a un ritratto dei Musei Capitolini, anch’esso in mostra – è accentuata dalla verticalità della scena. Il filosofo è in piedi, con uno sguardo che sembra guardare lontano, ben oltre il drammatico momento che sta vivendo: sta guardando alla posterità, alla quale si sta proponendo come esempio di virtù e coraggio.
- Pietro Paolo Rubens, «Seneca morente», 1612 – 1615, Madrid, Museo del Prado
- Erma del cosiddetto Pseudo-Seneca. Prima metà II secolo d.C, Roma Musei Capitolini
- Pietro Paolo Rubens, «Ercole nel giardino delle Esperidi», 1638, Torino, Galleria Sabauda
- Guido Reni, «Ercole dopo l’uccisione dell’Idra», 1620 ca., Firenze, Galleria Palatina
- Pietro Paolo Rubens, «Ganimede e l’Aquila», 1611-1612, Vienna, Palais Schwarzenberg (in prestito presso Liechtenstein, The Princely Collection)
- Pietro Paolo Rubens, «Caritas romana», 1612
- Pietro Paolo Rubens, «La scoperta di Erittonio fanciullo», 1615 – 1616, Vienna, Palazzo Liechtenstein – The Princely Collections
- Pietro Paolo Rubens, «Saturno che divora uno dei suoi figli», 1636, 1638, Madrid, Museo del Prado
- Pietro Paolo Rubens, «Ritratto della figlia Clara Serena», 1615-1616, Vienna, Palazzo Liechtenstein – The Princely Collections
- Pietro Paolo Rubens, «Ritratto di Gio Carlo Doria a cavallo», 1606, Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola
- Pietro Paolo Rubens, «Susanna e i vecchioni», 1606-1607, Roma, Galleria Borghese
Un Cristo… del Belvedere?
La lezione di potenza espressiva del Torso del Belvedere dei Musei Vaticani, di cui qui è esposto un calco, è evidente in due diverse realizzazioni: Cristo morto (1602, Roma, Galleria Borghese) e Compianto su Cristo risorto (1615, Firenze, Palazzo Pitti). A mio avviso i quasi quindici anni di differenza si vedono tutti, perché il tentativo di riprodurre la postura della statua antica ha nel primo esempio qualche eccesso quasi “scolastico” di artificiosità prospettica, del tutto abbandonato nel secondo, dove Cristo – come avviene anche per molti santi dipinti da Rubens – ha un che di eroico, più che di divino.
La forza “scultorea” di Ercole
L’Ercole Farnese fu invece l’archetipo cui il pittore fiammingo si ispirò per il suo Ercole nel giardino delle Esperidi (1638), della Galleria Sabauda di Torino, esposto a Milano accanto ad altre raffigurazioni di questo eroe-dio per mano di Pietro da Cortona e Guido Reni. Ovviamente non c’è a Palazzo Reale la monumentale, quasi colossale statua del Museo Archeologico di Napoli (ci sono comunque altre sculture “erculee”): però il grande dipinto di Rubens la evoca con una forza che ci lascia stupiti, anche perché dall’oscurità del dipinto emergono a poco a poco i particolari (la pelle di leone, il drago etc.) che ne completano la narrazione.
Classicismo barocco: la rarità del mito
Il celebre La lupa che allatta Romolo e Remo (1615, Roma, Musei Capitolini), o lo strepitoso Ratto di Ganimede (1612, Vienna, Palais Schwarzenberg) sono dipinti che illustrano, pur con significative novità, miti noti a tutti.
Rubens, però, ci vuole stupire anche con la ricerca di miti che noti non sono: ad esempio quello – tratto da Valerio Massimo – della figlia Pero che allatta il padre carcerato Cimone. Ce lo propone in una incredibile versione intitolata Caritas romana (1612, San Pietroburgo, Hermitage), dove lo spettatore non sa se “stupirsi” di più davanti all’exemplum di carità filiale, alla bellezza del volto della fanciulla, o al particolare della vena della sua mammella, il cui colore blu sottolinea lo sforzo dell’allattamento.
Forse è però nella composizione del 1615-16 La scoperta di Erittonio fanciullo (Vienna, Palazzo Liechtenstein) che appare in modo più eclatante la rilettura “barocca” dell’antichità classica. Ciò è vero anzitutto per la ricerca di un mito non certo tra i più rappresentati; un mito che ha in sé quella componente di maraviglia che contraddistingueva l’epoca in questione: Erittonio nacque infatti dal seme di Efesto, che – inseguendo invano la “vergine” Atena – fecondò Gea, la Madre Terra. Qui Rubens raffigura il piccolo affidato in una cesta alle figlie di Cecrope che però non avrebbero mai dovuto aprirla, e dunque tra poco pagheranno con la vita la loro curiosità. Così la morte che le attende contrasta idealmente con le robuste, prospere forme delle fanciulle – le quali sprizzano vita da ogni poro della pelle – e con i colori sgargianti dei loro manti. E il tutto avviene sotto lo “sguardo” di una fontana dove è scolpita una Artemide Efesia, della quale si espone – proprio a fianco – una bella statua dai Musei Capitolini. È il Barocco, bellezza, che anche nelle manifestazioni formalmente più ricche, vivaci e trionfanti non dimentica mai di sussurrarci un memento mori.
La vecchiaia di Saturno, l’immortalità di Rubens
Sì, perché vita e morte, trionfo e disfatta, potere ed esilio, sono le facce di una stessa medaglia. Lo sapeva anche Saturno, quando uccideva e mangiava i suoi figli (come in un quadro del Prado quasi goyesco del 1636-38) nel disperato tentativo di preservare il proprio regno. E lo sapeva anche Rubens, che ce lo raffigura vecchio e un po’ cadente, forse già rassegnato a lasciare a Giove il governo del mondo; un mondo dove la gloria – si sa – transit piuttosto in fretta per chi comanda, ma non per chi – come il nostro pittore – ci ha lasciato opere d’arte davvero immortali, in virtù della loro prorompente bellezza, sublime qualità e potente suggestione.
Peccato che ragioni di spazio e tempo mi impediscano di dilungarmi anche su altri dipinti (ad esempio quelli di argomento biblico): ma per questi approfondimenti c’è il prezioso catalogo edito da Marsilio e curato da Anna Lo Bianco, bravissima, rigorosissima e serissima (chi scrive da anni ne conosce la produzione scientifica) curatrice della mostra.