Vorrei che quanto segue non fosse trattato come un articolo, o perlomeno non nel senso tradizionale del termine. Non come un articolo di un giornale culturale, di una rivista di moda, di un magazine di viaggi. Non un articolo divulgativo, di cronaca o scientifico.
Se proprio come articolo si deve presentare, vorrei che lo fosse in qualità di quelle poche lettere che precedono e introducono un nome.
Un articolo indeterminativo, forse: vago, incerto, che per la prima volta permette a qualcosa o a qualcuno di fare capolino all’interno di un testo o di una conversazione. Maschile, femminile, neutro, polimorfo, l’articolo in questione muta e cambia abito con la sola funzione di sostegno, stampella letterale minimalista che, con profilo ancillare, introduce nel discorso un nuovo arrivato.
Un ospite che si presenta – come di dovere – un po’ timidamente nelle battute iniziali. In disparte, si muove con passo felpato e ponderato, con i sensi in allerta per evitare di dare nell’occhio. Forse troppo, perché – si sa – quando si usa eccessiva cautela è facile ottenere il risultato contrario e incappare in un fragoroso disastro. Un ospite che, comportandosi in modo così goffo, non può che trasmettere una fugace impressione di sé stesso. Una percezione labile e sfocata di chi è, della sua intima personalità. Che forse, però, sarà abbastanza per insinuare una qualche curiosità.
I soggetti, sostantivi, nomi, introdotti sono dotati di corteccia, fronde, nodi e radici.
Il sostegno che li introduce è dotato di parole, tra le più belle che abbia udito su di loro.
Ricordo ancora quella tiepida notte d’estate, quando dormimmo, noi due, sotto il fico – lo sento ancora parlare della vita che ha avuto, della Via Lattea che risplendeva sulle nostre teste (le cose che lui sapeva del cielo e delle stelle), delle bestie che lo conoscevano, delle storie e leggende che erano il suo capitale di un’infanzia remota. Ci addormentammo tardi, avvolti nella coperta, perché all’alba sicuramente sarebbe rinfrescato e la rugiada non cadeva solo sulle piante.
Ma l’immagine che non mi abbandona è quella del vecchio che cammina sotto la pioggia, ostinato e silenzioso, come chi compia un destino che nulla può cambiare. Se non la morte. In quel momento, però, questo vecchio, che è mio nonno, non sa ancora come morirà. Ancora non sa che pochi giorni prima del suo ultimo giorno avrà la premonizione (perdona la parola, Jerónimo) che la fine è arrivata, e andrà, di albero in albero del suo podere, ad abbracciarne i tronchi, a congedarsi da loro, dai frutti che non mangerà più, dalle ombre amiche. Perché sarà arrivata la grande ombra, finché la memoria non lo farà risorgere sul sentiero allagato o sotto la concavità del cielo e l’interrogativo delle stelle.
J. Saramago, Di questo mondo e degli altri, trad. it. G. Lanciani, Feltrinelli, Milano 2013.
Queste foglie[1] hanno ancora una specie di vita. Sono straordinariamente belle nel loro stato appassito. Se resistono, è come la perseveranza dei santi. Hanno colori integri e forme più perfette che mai. Ora che la folla e il trambusto dell’estate sono passati, ho modo di ammirarle a piacimento. Le loro sagome non mi stancano mai l’occhio. […] Che colori piacevoli e armoniosi all’interno e all’esterno, sopra e sotto. La superficie superiore liscia, delicatamente tinta di marrone, color ghianda, quella inferiore innervata e chiarissima (a volte argentea o cinerea). Con quanta poesia rendono l’anima, come santi o creature innocenti e benefiche! Sono spirituali: sebbene abbiano perduto la linfa, non hanno in realtà reso l’anima. Raramente toccate da vermi o insetti, sono più belle che mai.
Diario, 17 dicembre 1856
H.D. Thoreau, Ascoltare gli alberi, trad. it. A. Bariffi, Garzanti, Milano 2018.
La distruzione dell’Amazzonia è diventata per me una questione personale, ho cominciato a vedere la corrosione della foresta come la corrosione del mio stesso corpo, e non in un senso soltanto intellettuale. O retorico. Ho cominciato a concepirmi come foresta. La comprensione di me come una realtà espansa mi ha fatto capire che la lotta per la foresta è la lotta contro il patriarcato, contro il femminicidio, contro il razzismo contro il binarismo di genere. E anche contro la centralità della persona umana.
[…] La battaglia per l’Amazzonia, per la riforestazione di sé, l’amazzonizzazione del mondo è un movimento per abbattere l’egemonia del pensiero occidentale, patriarcale, bianco, maschile e binario che ha dominato il pianeta negli ultimi millenni – e sterminato, messo a tacere o spinto ai margini tutte le altre forme di percepirsi nel mondo, per il mondo e con il mondo. La battaglia per l’Amazzonia è una battaglia per la riforestazione dei mondi – quelli fuori e quelli dentro.
E. Brum, Amazzonia. Viaggio al centro del mondo, trad. it. V. Barca, G. Falconi, Sellerio, Palermo 2023.
[…] E poi osservare gli animali e gli alberi e imparare altre grammatiche d’amore. Voglio conoscere tutti i legami, dai più lievi ai più robusti.
Mai sottovalutare l’amore di alberi e animali. Ci sono animali che riconoscono al primo sguardo un bambino rotto e accorrono più veloci di un pensiero e gli fanno festa. Me ne accorgo? E ci sono alberi che non vedono l’ora di essere abbracciati, che nell’abbraccio assorbono tutte le pene e le malinconie e dopo non si sentono importanti. Ci sono alberi che ascoltano per ore i racconti dei bambini spaccati e poi, come per caso, lasciano cadere ai loro piedi una foglia o una bacca. Ci sono alberi che toccano e ci sono alberi che fremono quando si passa, una volta che si è entrati in confidenza con loro. Basta accorgersene, ricevere questi amori di altri regni e non montarsi la testa, perché alberi e animali lo fanno con tutti noi, assolutamente con tutti, purché siamo disponibili e ne abbiamo bisogno.
C. Candiani, Questo immenso non sapere, Einaudi, Torino 2021.
[…] è ripetendo innumerevoli volte i propri messaggi che l’albero si garantisce contro il continuo incombere d’accidenti mortali sulle singole parti, e così riesce a imporre e a perpetuare la sua struttura essenziale, l’interdipendenza di radici e tronco e chioma. Ma qui siamo oltre la ridondanza: ciò che mi preoccupa mentre giro intorno all’albero del Tule è la disponibilità della morfologia a cambiare i propri ruoli, è lo sconvolgimento della sintassi vegetale: radici che salgono verso l’alto, segmenti di rami diventati tronco, segmenti di tronco nati dalla gemma d’un ramo. Eppure il risultato, visto a distanza, è sempre ancora un albero, – un super-albero – con radici tronco chioma al posto giusto – super-radici, super-tronco, super-chioma –, come se la sintassi sconvolta si ristabilisse a un livello superiore.
È attraverso un caotico spreco di materia e di forme che l’albero riesce a darsi una forma e a mantenerla? Vuol dire che la trasmissione d’un senso s’assicura nella smoderatezza del manifestarsi, nella profusione dell’esprimere se stessi, nel buttar fuori, vada come vada? Per temperamento ed educazione sono sempre stato convinto che solo conta e resiste ciò che è concentrato verso un fine. Ora l’albero del Tule mi smentisce, vuol convincermi del contrario.
I. Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori, Milano 2017.
Se un albero potesse vedere, le sue foglie sarebbero occhi in miniatura e ognuno dei loro barlumi – mentre si sforza di trovare il suo posto al sole – disegnerebbe ramoscelli e rami come un grande fascio. Dove noi spettatori vedremmo un solido tronco, l’albero, nella sua visione, si aprirebbe a un mondo in fiamme. Sarebbe una creatura della luce.
T. Ingold, Corrispondenze, trad. it. N. Perullo, Raffello Cortina Editore, Milano 2021.
Vogliamo imparare in due giorni
una lingua millenaria
che solo gli alberi conoscono:
lasciarsi cullare dall’aria,
mentre le foglie dicono me ne vado
e le radici resto qui.
A. Brezmes, Quando non ci sono, trad. it. M.A. Barbonetti, Einaudi, Torino 2021.
Nota dell’autore
I brani citati sono alcuni di quelli possibili, quelli che mi hanno tagliato la strada lungo il cammino, a cui sono intimamente legato.
Sarei contento se ognuno avesse i propri, perché di parole sugli alberi ce ne sarà sempre bisogno.
Ma soprattutto di persone capaci di ascoltarli e passare del tempo con loro, tra risate e silenzi, danze e pensieri.
Le foto che accompagnano i testi sono scatti che ho realizzato nel tempo, catturato dalla luce e dalla bellezza dei soggetti. Spero che siano state capaci di trasmettere una minima sfumatura della personalità di questi meravigliosi esseri viventi, compagni, amici.
La prima parte di questa riflessione è qui.
[1] Quelle della quercia detta shrub oak (più nota come bear oak o scrub oak), ossia l’arbusto Quercus ilicifolia.