L’equilibrio nella foresta
Sumak kawsay.
Manari Ushigua tenta di creare concetti attraverso la relazione che il popolo Sapara stringe con Kamungwi, la foresta dove nacquero i suoi antenati. I Sapara sono una popolazione indigena dell’Amazzonia ecuadoriana, abitanti della foresta pluviale, uno degli ecosistemi più ricchi di biodiversità e uno dei tanti minacciati dall’ingordigia dell’economia umana. All’inizio del XX secolo erano circa 200 mila, oggi sono cinquecento. La loro cultura, storia, tradizioni, lingua e conoscenze stanno svanendo, come il mondo a cui appartengono. Manari Ushigua è un leader, un combattente per le foreste, uno di coloro che resistono. Perché vivere nella foresta e attraverso essa per proteggere mondi di vita in estinzione significa resistere alla dilapidante macchina di annichilimento contemporanea.
Sumak kawsay è uno dei tanti concetti che derivano dal mondo spirituale dei Sapara e indica l’importanza di essere in equilibrio con Kamungwi. «Un modo di prestare attenzione alle singolari proprietà e qualità della vita stessa – il kawsay – per trovarvi un modo di vivere bene; ovvero, si tratta di un orientamento etico che proviene dal mondo vivente» (Kohn, 2021). Per Manari Ushigua la foresta non è una semplice somma di alberi, un insieme indifferenziato e impersonale di tronchi, foglie e radici. La foresta è naku, Uno, in cui vivono tanti, tra esseri materiali e immateriali, umani, più-che-umani e spiriti. Un mondo con cui connettersi ed entrare in relazione, prima e al di là di quelle frammentazioni individualiste forgiate da menti e mani ecocide.
Attenzione, ascolto e spiritualità sono modi di stare su questa Terra e nella terra, che i Sapara rammentano e a cui cercano di ridare respiro attraverso il dialogo con noi, che sembriamo avere rinunciato a simili doti, sotterrate da colate di cemento. Ma per fortuna il materiale da costruzione del XX secolo, che soffoca e tarpa la vita ovunque poggi, non è fatto per durare a lungo. E allora si frammenta in crepe e forre da cui emerge un germoglio di speranza. Tsawanu, lo spirito che ci accomuna e che tutti possediamo, umani, animali, piante e persino la terra e l’acqua. Tsawanu, che ci connette per ricomporre le frammentazioni ecologiche e sociali che abbiamo creato. Tsawanu, perché come dicono i Sapara, tra noi, gli animali, le piante e la terra non c’è tanta differenza, siamo tutti persone.
“Cecità dell’anima”
Quando entriamo in una foresta veniamo in contatto con un organismo antico. Possiamo respirarne l’aria dilavata dalla pioggia, odorare le fragranze di muschi e cortecce che si sfaldano, tastare le porosità del terreno e le sue irregolarità, percepire la vita muoversi in nicchie d’aria e fibre. La foresta ci restituisce un mondo a cui non siamo più abituati, di suoni e silenzi, di attenzione e sorprese. All’interno della sua volta arborea procediamo con cautela e riverenza, forse per la maestosità dei fusti e delle chiome che raschiano il cielo, forse per i segreti che nasconde al di sotto dei nostri piedi. Siamo ospiti, passanti in un luogo a cui apparteniamo ma da cui ci siamo estraniati. Qui la mente, le ansie e le stanchezze quotidiane trovano sollievo, il bagno nella foresta ci dilava dagli affanni, ci riconnette con la materialità e la spiritualità naturali. Qui è più facile vedere e prendere coscienza dell’altro, del più-che-umano: i nostri sensi sono esposti a una dimensione lenta, aperti all’incontro e alla scoperta.
Una realtà totalmente opposta a quella che viviamo ogni giorno nelle foreste che abbiamo creato con esiti e risvolti sorprendenti ormai dal V millennio a.C. Le nostre case, i luoghi destinati alla concentrazione e all’esaltazione dell’attività umana. Le città sono foreste di cemento, vetro e metallo, carne e acciaio in movimento, fluidi e gas in dispersione nell’aria, nell’acqua e nel suolo. Sono esplosioni culturali (umane) e grovigli di relazioni (sempre umane). Qui vedere l’altro – che pure esiste, umano o più-che-umano – ed entrarvi davvero in relazione è più complicato, un gesto apparentemente superfluo di fronte all’imperante necessità di un egocentrismo smisurato.
La giornata degli alberi può essere un’occasione per adottare un altro modo di abitare, per rallentare e soffermare l’attenzione su ciò che solitamente non vediamo. Per uscire di casa o dagli uffici e guardarsi semplicemente intorno. Chi abita al nostro fianco?
Thoreau, nelle sue riflessioni sulla pratica di Camminare, scriveva:
Penso che non riuscirei a mantenermi in buona salute, sia nel corpo che nello spirito, se non trascorressi almeno quattro ore al giorno – e generalmente sono di più – vagabondando per boschi, per le colline e per i campi, totalmente libero da ogni preoccupazione terrena. (Thoreau, 2016)
Camminare, praticare la lentezza, prestare attenzione sono attività che possono aiutarci a ritrovare un equilibrio. A coltivare quella spiritualità che stiamo perdendo di cui parla Manari Ushigua. Una via per emergere dalle cecità che ci opprimono.
I Runa di Ávila, il villaggio di lingua kichwa dell’Amazzonia ecuadoriana dove l’antropologo Eduardo Kohn ha condotto le ricerche per pensare con la foresta, riconoscono la fondamentale importanza che ricopre essere consapevoli degli altri esseri viventi e relazionarsi con essi. Perdere questa capacità significa non essere più in grado di percepire gli altri e di vedere oltre sé stessi e al di là del proprio genere. Per i Runa questo ha enormi conseguenze, immersi in un cosmo in cui è fondamentale essere in relazione con ogni elemento circostante. Kohn definisce questa perdita “cecità dell’anima”, una condizione che mi pare affligga ampiamente le nostre società. Percepire l’altro, entrarvi in corrispondenza, pensare oltre il proprio genere e al di là di sé stessi, sono attività che la frenesia della contemporaneità ha relegato ai margini, in favore di attività generatrici di profitti immediati. Ribaltare questo modo di essere è un allenamento che non dobbiamo svolgere in solitudine.
Cecità vegetale
– Cosa vedi?
L’intervento di Stefano Mancuso, Professore dell’Università di Firenze e direttore del Linv, all’esposizione “Broken Nature: Design Takes on Human Survival” della Triennale di Milano 2019, si apriva con questa domanda.
La risposta, nella maggioranza dei casi, era:
– Una tigre.
Il pubblico aveva di fronte un’opera consistente in un pannello di grandi dimensioni raffigurante l’immagine di una foresta tropicale (si può vedere qui). Numerose specie di piante dal verde brillante si impongono allo sguardo, accatastandosi le une sulle altre per formare un intricato paesaggio arboreo. In basso, a sinistra, la testa di una tigre fa capolino dal folto della foresta.
Mancuso vuole porre l’attenzione su un fenomeno che ci accomuna e che, in larga parte, non dipende dalla nostra volontà. Si chiama “Plant blindness”: la cecità verso le piante consiste nella tendenza degli esseri umani a non vedere il mondo vegetale. Non si tratta di un processo culturale, sebbene in passato si ipotizzava che fosse dovuto alla minore attenzione con cui le piante sono trattate in ambito scolastico per esempio, ma di una disfunzione cognitiva. Il cervello umano riceve costantemente informazioni in forma di bit, non tutte possono essere elaborate, alcune vengono trascurate, altre sono considerate in maniera superficiale e solo poche diventano informazioni coscienti. Le piante, impossibilitate a compiere movimenti improvvisi e spesso innocue per Homo sapiens, possono rientrare tra quelle informazioni superflue da non considerare obbligatoriamente. Per i nostri antenati si trattava di un vantaggio evolutivo: solo gli stimoli più importanti, quelli necessari per la sopravvivenza, devono avere la precedenza.
La Plant blindness, definita così da James Wandersee ed Elizabeth Schussler nel 1998 dopo anni di studi, oggi rappresenta un ostacolo e un problema con cui fare i conti. Questa abitudine a mettere da parte il mondo vegetale e a relegarlo nel profondo delle nostre coscienze ha impedito di apprezzarne i valori e i benefici che esso comporta. Le piante sono esseri viventi che abitano questa Terra da molto più tempo di noi e hanno saputo adattarsi a essa e coglierne la più intima essenza. Organismi non predatori in grado di favorire le condizioni per la vita e dei cui benefici godiamo quotidianamente.
Oggi l’interesse verso questi sorprendenti esseri viventi sta trovando una rinascita. Le pubblicazioni relative agli alberi e, in generale, al mondo vegetale si stanno moltiplicando; le green infrastructure, quella rete di aree naturali e semi-naturali verdi e acquatiche, sono tra gli strumenti dell’Unione Europea per costruire e pensare città sostenibili; mentre numerosi filoni di ricerca sembrano averle riscoperte come fonti di ispirazione, ma anche come soggetti dotati di una propria agentività.
Pensare attraverso le piante e con esse è un atto di responsabilità che ci può riavvicinare a un mondo che stiamo velocemente abbandonando.
Gli alberi non ricoprono tutta la sfera del mondo vegetale, ma ne costituiscono una parte essenziale.
Mi è sempre parso strano che la nostra società celebri la spiritualità all’interno di edifici di vetro e cemento. Gli alberi sono colonne viventi, arcate, pareti, volte e persino pavimentazioni maestose impregnate di vita. Le foreste sono cattedrali in divenire che interpretano un personale e intimo modo di vivere nel mondo.
Celebrare gli alberi è un gesto di cura.
Vederli è un atto dovuto.
Pensare con loro è un movimento rivoluzionario.
BIBLIOGRAFIA
E. Kohn, Come pensano le foreste, trad. it. A. Lucera, A. Palmieri, Nottetempo, Milano 2021.
H.D. Thoreau, Camminare, trad. it. M.A. Prina, Mondadori, Milano 2016.