Gli “Acarnesi” di Aristofane, tra guerra e pace  

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Una recente, ottima edizione della commedia di Aristofane diventa lo spunto per una riflessione sulle sfide che comporta tradurre e commentare il teatro greco.
Scena bellica, da una pittura vascolare greca.

Le opere della drammaturgia greca andrebbero certamente fruite da spettatori, in un contesto – mi si perdoni l’ovvietà – “teatrale”, laddove la qualità del testo può essere esaltata (o almeno, così si spera) dalla bravura di attori, registi, coreografi, costumisti etc… insomma, da tutte quelle componenti senza le quali fin dal mondo classico il teatro stesso non esisterebbe.

Non è dunque semplice mettere quelle opere su carta, consegnarle cioè all’immobilità (e immutabilità…) della forma libraria, e di conseguenza a una fruizione individuale fatta da lettori, e non da spettatori. E ancor meno semplice lo è se si tratta di testi antichi, da tradurre e commentare, ma soprattutto da rendere in qualche modo intelligibili a chi si avvicina a essi talora senza le necessarie informazioni sul contesto storico, sociale e culturale nel quale sono state create.

Aristofane e la Guerra del Peloponneso

Busto di Aristofane, Firenze, Galleria degli Uffizi (da Wikipedia).

Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la commedia greca (sarebbe meglio dire ateniese) cosiddetta Archáia (cioè «antica»), il cui principale esponente fu Aristofane (450-380 a.C. ca), autore del quale ci sono rimaste undici opere che sono intimamente connesse alla vita della sua pólis di appartenenza. Un’Atene, la sua, impegnata per quasi trent’anni (431-404 a.C.) nella sciagurata (e infine perduta) Guerra del Peloponneso con la rivale Sparta; guerra voluta dal “grande” Pericle, il quale però morì quasi subito lasciando la città nelle mani di una classe dirigente costituita per lo più da demagoghi litigiosi e corrotti, e pertanto del tutto inadeguati a portare a termine con successo quel conflitto.

Aristofane è colui che forse più di ogni altro ha denunciato questa inadeguatezza, favorito dalla grande libertà espressiva che il genere comico gli consentiva; e che si è fatto interprete – in molte delle sue opere – di un pacifismo pragmatico e non ideologico, piuttosto diffuso tra i suoi concittadini. In poche parole: la guerra è cosa che interessa ai politici – come l’incompetente demagogo Cleone – o ai boriosi generali – come il rozzo Lamaco – ma che invece impoverisce i non aristocratici e affama la gente comune, spinta comunque a credere dagli uomini al potere che la colpa di tutto sia sempre e comunque degli Spartani.

Una nuova traduzione di Giuseppe Zanetto

La prima di queste opere a noi rimaste si intitola Acarnesi, commedia che fu messa in scena nel 425 a.C., nel pieno della cosiddetta “fase archidamica” della guerra con Sparta. Ne è appena stata pubblicata – per opera di Giuseppe Zanetto – una traduzione italiana (G. Zanetto, Acarnesi di Aristofane, Carocci, Roma 2024) nell’ambito di una collana («Teatro classico in scena») che si propone di superare quelle difficoltà alla quali alludevo prima. Zanetto lo fa anzitutto con una splendida traduzione in «italiano corrente, facile, parlato» che egli stesso spiega e giustifica (pp. 47-52) offrendola come bozza di «copione» per chiunque – anche a livello amatoriale – vorrà metterla in scena; inoltre correda il testo di una necessaria introduzione (pp. 9-21) e di poche, mirate, mai erudite, annotazioni; affida poi a Maddalena Giovannelli un’interessante riflessione sulle più recenti – invero non moltissime – messe in scena della commedia (pp. 23-45).

Il buon senso di Diceopoli, il bellicismo dei carbonai

Protagonista assoluto dell’opera è Diceopoli, un piccolo proprietario terriero che ha visto il suo podere più volte devastato dalla guerra; davanti all’ottusità guerrafondaia del governo della pólis (incarnata soprattutto, come si diceva, da Cleone e Lamaco) egli ottiene una sorta di “pace privata” (possibile solo nell’immaginario comico, ovviamente) col nemico: lui, e lui solo (insieme con la sua famiglia) ne potrà godere, ottenendo garanzie di incolumità e libertà di commercio. Chi lo avversa è soprattutto il coro dei carbonai di Acarne (gli «Acarnesi», dunque), vecchi – diremmo noi – “reduci combattenti” dalle Guerre persiane, ferocemente antispartani, che lo accusano di tradimento o almeno di scarso patriottismo; a loro Diceopoli obietta «Li conosco anch’io gli Spartani. Però ce la prendiamo troppo con loro: non hanno la colpa di tutti i nostri guai» (vv. 311 ss). Il Nostro, insomma, non è un eroe, né un “militante” di qualche gruppo pacifista, ma il detentore di un buon senso comune che il bellicismo imperante sembra avere fatto smarrire; così come aveva fatto svanire il ricordo che la guerra era stata inizialmente voluta da Pericle, non dagli Spartani. Ma – allora come oggi – «costruire il nemico» (come scriveva Umberto Eco) fa comodo non solo per rafforzare la propria identità, ma anche per camuffare (talora censurare) i propri errori.

I vantaggi della “pace privata”

Spassoso (ma non sempre lieto) è il racconto dei vantaggi della “pace privata”, che garantisce a Diceopoli la possibilità di compravendere beni di consumo altrimenti introvabili in guerra (soprattutto cibi gustosi) e di godersi la vita tra bevute e incontri con ragazze compiacenti. A proposito di ragazze, un Megarese (colpito come tutti i suoi concittadini da un durissimo embargo) vende a Diceopoli le due figlie travestite da «porcelline» per una treccia d’aglio e un po’ di sale, perché non muoiano di fame: il passo è tanto commovente quanto ricco di pesantissime allusioni sessuali (rese con eleganza dal traduttore), in un mix di temi e toni che è tipico della commedia antica. Più sarcastico è invece il racconto di come un servo di Lamaco – presto richiamato alla guerra e poi ferito – abbia chiesto a Diceopoli tordi e anguille per il suo ghiotto padrone, che diventa così emblema di inettitudine e immorale “doppiogiochismo” (egli è infatti rigoroso in apparenza, corrotto in sostanza).

Anche Euripide è preso in giro…

Tale inettitudine Aristofane la vede anche in uno dei maggiori intellettuali del tempo, il tragediografo Euripide che viene lungamente preso in giro ai vv. 390 ss. per il suo scollamento con la realtà, se è vero che il suo servo a chi gli chiede se il padrone sia in casa risponde: «La mente è fuori, a raccogliere versetti, e non è in casa; lui invece è in casa, a gambe in aria, e compone una tragedia». Particolarmente interessante, da questo punto di vista, un passaggio del breve ma acuto saggio di Maddalena Giovannelli, la quale – parlando di un recente allestimento dell’opera a cura della compagnia romana «Il gruppo della Creta» – riporta il pensiero di uno dei suoi autori, Alessandro Di Murro. Egli – pur se fautore convinto di una “attualizzazione” della commedia (qui si parla di «Hotel Hilton», «gin tonic» etc.) – ha però dovuto rinunciare a inserire la scena di Euripide per «l’assenza di un intellettuale sufficientemente noto e influente da poter essere messo in parodia» (p. 45). E, pensandoci bene, forse ha proprio ragione; un po’ per reale mancanza di figure davvero autorevoli, un po’ perché il clima di questi anni è più propenso all’odio (magari social) che alla parodia. Parziale eccezione sono forse alcune imitazioni di Maurizio Crozza, tra le quali spicca(va) – a mio avviso – quella di uno degli ultimi grandi maître à penser ben conosciuti, ma ora scomparso, cioè Eugenio Scalfari, il quale però – a detta dei parenti – le guardava in tv a denti stretti, senza divertirsi troppo…

L’auspicio è che a questo prezioso libretto ne facciano seguito altri che trattino con la stessa rigorosa leggerezza (mi si perdoni l’ossimoro) le restanti commedie di Aristofane. E attendo al varco soprattutto chi curerà Le rane, forse la più difficile da “attualizzare” perché si configura come una profonda riflessione sul genere tragico da parte di un poeta comico: operazione davvero complicata da proporre ai giorni nostri!

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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