Giosue Carducci: un maestro dimenticato

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Riceviamo e pubblichiamo la riflessione del prof. Nicola Fiorino Tucci, docente di Lettere presso Liceo Scientifico Statale “Galileo Galilei” di Bitonto, che propone una rilettura di “San Martino” di Carducci.
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Particolare del ritratto di Giuseppe Carducci ad opera di Alessandro Milesi, 1903

 

Carducci, San Martino

La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale, 
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

Nievo, Gli amori in servitù

Quando dai poggi ameni 
l’aura autunnal respiro 
tutti ne vanno in giro 
ridendo i miei pensier.

Il paesello è assiso 
sopra un’ombrosa china; 
lo guarda ogni collina 
in atto lusinghier.

Al rosseggiar del vespro 
cinguetta il passeraio, 
l’artigianello gaio 
canta nel suo camin;

e noi, qual fosse appunto 
pupillo nostro il mondo, 
sediam in piazza a tondo 
librandogli il destin.

IX

Già un vasto mar di nebbie 
e d’ombra il pian sommerge, 
donde il pennon s’aderge 
di qualche fumaiuol.

L’ombra per colli e monti 
inerpicando sale; 
par che l’estremo vale 
mandi alla terra il sol,

e l’ultimo suo raggio 
perdendosi sublime 
sulle nevose cime 
cerca il natio candor.

Tal nel morire a un’alta 
speme sorgendo io pure, 
racquisterò le pure 
soavità d’amor!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ormai quasi rimosso dai percorsi proposti da manuali e docenti, Giosue Carducci è conosciuto ai più per San Martino, una poesia che ha il ritmo di una filastrocca e il sapore di una memoria atavica, legata a un mondo scomparso, quello del borgo contadino.
Considerata sul piano metrico, essa è un’odicina anacreontica, che, a nostro avviso, merita molto più di una pagina di un vecchio sussidiario delle elementari e di uno sforzo mnemonico da parte di piccoli scolari perché, a un’analisi un po’ meno superficiale, risulta una summa di esperienze e conoscenze poetiche dal respiro piuttosto ampio.

Composta nel «decembre 1883, compiuta alle ore 3 pomeridiane», come afferma lo stesso Carducci1, dopa aver letto due poesie di Ippolito Nievo2 dai contenuti e dalla metrica simili, che lasciamo alla curiosità e alla sensibilità dei lettori3, la lirica presenta, infatti, influenze e spunti interessanti, che permettono di proporre agli studenti un percorso articolato e coerente attraverso l’intera produzione poetica dell’Ottocento, spaziando dalla complessa formazione classicistica del Carducci fino all’attenzione da lui rivolta a tematiche nuove di stampo tardoromantico, realistico e perfino decadente.

La sola analisi testuale già evidenzia la scelta accurata di vocaboli popolari ma sapientemente disposti nella struttura metrica dell’odicina a comporre versi scorrevoli e cadenzati dal ritmo incalzante, che la rende facilmente memorizzabile e rivela significati profondi.
Insomma, la poesia si configura come un cameo del classicismo carducciano elaborato in piena temperie realistica e riprende situazioni semplici in cui si possono scoprire pulsioni ed istinti latenti, insospettabili per animi nutriti d’arcadica illusione.
Gli irti colli, tali per l’effetto ottico determinato dagli alberi, privi ormai di foglie, in cima alle alture di un paesaggio, quello maremmano, per esplicita ammissione dell’autore, sono rapidamente nascosti dalla nebbia, che si dilegua nel cadere di una pioggerellina leggera mentre un vento forte e prepotente, il maestrale, sferza il mare in una tipica tempesta autunnale.

Tutta la scena descritta nella prima strofe esprime chiaramente un innegabile valore allusivo alle difficoltà presenti in una qualunque esistenza umana ed identificate, con tocco tardoromantico, nella forza degli elementi naturali.
La notazione paesaggistica, quindi, non è fine a se stessa anzi si carica di significati simbolici molto chiari come sembra ribadire l’ avversativa ma (v. 5), che introduce la seconda strofe in cui alla tempesta si oppone la quiete del borgo (ma quanto Leopardi è presente in così pochi versi!) percorso dall’odore penetrante del mosto, qui connotato da un’efficace sinestesia, che addolcisce animi certo preoccupati per ovvi motivi: l’inverno è ormai alle porte con tutti i suoi malanni.
Il ribollir dei tini rinvia al mosto, che, nella tradizione popolare, è già vino nel giorno di san Martino, e lo spiedo scoppietta per il grasso che cola da carne arrostita su carboni ardenti, a soddisfare il desiderio di una serenità tutta compresa nella concretezza di un’ottica contadina.
Siamo ai desideri primordiali dell’umanità, insomma, che non si tingono di nostalgia, rimpianto o disillusione come accade nella tradizione idillica ma si colorano di naturali, fisiologiche esigenze da soddisfare col bere e col mangiare, atti solo evocati e non chiaramente esplicitati forse per evitare equivoche ovvietà interpretative.

Nel quadro paesaggistico così definito unica, piccola presenza umana, incorniciata nel vano di una porta esterna da un’improvvisa zoomata, è un cacciatore, attività anch’essa primordiale di un’umanità, che osserva con apparente disinteresse (fischiando) il volo di uccelli migratori nel pieno di un tramonto rosseggiante. Quel fischio, però, sembra rientrare in una visione decadente: è il tentativo inconscio di imitare il verso degli uccelli che l’uomo sta guardando, ma è anche un modo di ingannare il tempo ed infine di farsi compagnia in una solitudine naturale deprimente.
Con ardita similitudine, che non dà volutamente spazio alla metafora, lo stormo è trasformato in pensieri svolazzanti proprio sul finire di una giornata a cui non si può non riconoscere un valore simbolico, quello di una vita che riflette su se stessa al momento del tramonto (del proprio tramonto?).

È innegabile che la vena tardoromantica presente nella lirica (il tramonto rosseggiante) si amplifichi in una visione quasi decadente della Natura, pur così realisticamente riprodotta con poche pennellate cromatiche (bianco, nero, rosso), che ricordano la matrice classica dell’atto poetico: ut pictura poesis.
E, quindi, quel paesaggismo dal tocco impressionistico, largamente presente nella produzione pittorica della seconda metà dell’Ottocento, diventa poesia lirica nel Carducci per uscire da una dimensione puramente descrittiva e caricarsi della malinconia dell’insieme naturale e del simbolismo di cui son ricche «le piccole cose», non ancora «di pessimo gusto».
Il clima del borgo lascia pertanto trapelare una sottile vena di leopardiana amarezza, che non è da intendersi come un doveroso tributo al Recanatese, ma quale adesione convinta a una cupa weltanschauung nella quale difficilmente può collocarsi la bucolica rassegnazione virgiliana (sunt lacrimae rerum …, Aen. I, v. 462). Si può cogliere, così, una nota decadente, che vira verso il malinconico contrastando quell’atmosfera apparentemente leggera in cui si inquadra l’idillio carducciano. E che nelle due poesiole del Nievo, sopra citate, risulta tanto esaltata.
Una lirica con simili caratteristiche non poteva non ispirare altri autori4, che, riprendendone spunti e notazioni, talvolta anche l’ispirazione, riconoscono il ruolo di Maestro al Carducci.


NOTE

1. Giosuè Carducci, Opere, Edizione nazionale, vol. III, cit. infra, p. 38.
2. Ippolito Nievo, Gli amori in servitù in Le lucciole (1858).
3. Per un ulteriore approfondimento del confronto fra Carducci e Nievo si rinvia a Guido Capovilla, Carducci, Nievo e l’elaborazione di «San Martino», Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie IV, Vol. 4, No. 2 (1999), pp. 323-337.
4. Si pensi a Novembre di G. Pascoli, che pure fu molto critico nei confronti del Carducci, e ad Autunno di V. Cardarelli.

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Nicola Fiorino Tucci

È docente di Lettere presso Liceo Scientifico Statale “Galileo Galilei” di Bitonto (Ba)

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