Mi capita spesso che degli amici mi parlino di opere, mostre e musei che hanno particolarmente apprezzato con la premessa: “Io non ci capisco molto, ma…”, quasi a giustificarsi di non aver saputo inquadrare l’artista o l’opera nel giusto contesto storico. Ma se quell’opera o quell’artista sono riusciti ad attirare la loro attenzione, a colpirli e a emozionarli, la visita ha già avuto il suo risultato. Una visita guidata di Alan Bennett sembra scritto per loro. Si tratta del testo della conferenza tenuta da Bennett, attore, autore e sceneggiatore inglese di successo, dopo la sua nomina a trustee della National Gallery nel 1993.
È l’ironia la chiave di lettura che ci accompagna nella visita, mettendo in evidenza atteggiamenti comuni a tanti visitatori. Come nel testo teatrale Una questione di attribuzione, sempre di Bennett, dedicato allo storico dell’arte Anthony Blunt (conservatore della collezione reale inglese e contemporaneamente agente segreto al servizio dell’Unione Sovietica):
‘Che cosa dovrei provare?’ chiede il poliziotto una volta introdotto alla National Gallery.
‘Che cosa prova?’ gli chiede Blunt.
‘Mi sento perplesso,’ risponde Chubb ‘e anche esausto’ e quest’ultima affermazione gli viene proprio dal cuore.
Contrariamente al noto critico Bernard Berenson, oggetto dei pungenti strali di Bennett, capace di stare per ore davanti a un dipinto fino a essere travolto da una sorta di estasi, l’unica forte sensazione fisica provata dall’autore in piedi davanti a un dipinto era “un certo dolor di gambe”, con la conseguenza di uscire dai musei con un pesante senso di inadeguatezza e mancanza di sensibilità.
L’unica forte sensazione fisica provata dall’autore in piedi davanti a un dipinto era “un certo dolor di gambe”.
E poi la scoperta dell’iconografia, che “ci costringe a frenare” davanti a un’opera – come i dossi di rallentamento sulla strada -, per cercare di cogliere il suo significato. E mentre la osserviamo con attenzione, la sua bellezza comincia a farsi strada dentro di noi perché, come sosteneva E.M. Forster, “Solo quello che vedi con la coda dell’occhio ti tocca nel profondo”.
Non tutto comunque, ci può colpire nello stesso modo, tanto che Bennett avrebbe voluto vedere nella National Gallery il cartello “Non deve per forza piacerti tutto”. E così il drammaturgo, appena nominato fiduciario del museo, si lasciò scappare un “Oh, la pittura olandese non mi piace”, suscitando la muta riprovazione del direttore che lo accompagnava nella visita. Ma non era tutta la pittura olandese che Bennett non amava, bensì quella infinita serie di dipinti di marine e paesaggi che avevano accompagnato la sua infanzia sotto forma di difficilissimi puzzle pieni di cielo e di terra, così come non amava un dipinto di Constable riprodotto sul poggiapentole di casa oIl ragazzo in blu di Gainsborough che lo guardava dalle scatole di biscotti. Ricordi di infanzia con pessimi effetti sulla sua educazione artistica.
D’altra parte, l’esperienza di una persona che si trova davanti a un quadro non può essere calcolata con numeri e statistiche e spesso rimane un mistero anche per chi la prova. Né si va sempre in un museo per amore dell’arte: “La verità è che la gente viene qui per le ragioni più varie: per rilassarsi un po’, o per ripararsi dalla pioggia, o per guardare i quadri, o magari per guardare le persone che guardano i quadri”.
Inaspettatamente, però, davanti a un’opera può capitare qualcosa di simile a quando, “leggendo un libro – un romanzo, ad esempio –, ci imbattiamo in un pensiero o in un sentimento che abbiamo provato anche noi: però non ne avevamo mai parlato con nessuno, credendo che si trattasse di un fatto del tutto personale. Poi lo ritroviamo lì nero su bianco, ed è come se l’autore ci avesse teso la mano”. Così, per qualsiasi motivo si sia entrati in un museo, un’opera può imprevedibilmente chiamarci, regalarci un’emozione e lasciarci qualcosa di sé quando ne usciamo.