Il Catasto magico di Maria Corti
«Di tanto in tanto l’Etna si tormenta, dall’interno di sé furiosamente esplode, diviene per i piccoli uomini un incubo opprimente. Di umore lunatico robustamente minaccia il gregge dei mortali, con la sua lingua di fuoco, la sua eloquenza ignea». Suonano più che mai attuali le parole di Maria Corti in questa stagione di forti e ripetuti fenomeni parossistici che hanno danneggiato il territorio catanese e spinto il presidente della Regione Sicilia a richiedere lo stato di mobilitazione del servizio nazionale di Protezione civile. La lettura della nuova edizione de Il catasto magico (Nous 2023, già Einaudi 1999), trova perciò nella cronaca una ragione in più.
Si tratta di un’opera sui generis, difficile da definire ma in qualche modo prossima al Danubio di Claudio Magris (1986), che pure si fondava sull’idea che l’elemento naturale fosse potenzialmente il catalizzatore di una molteplicità di storie. Il catasto è precisamente un inventario di fonti letterarie classiche, medievali e moderne, un itinerario che mostra la forza mitopoietica del luogo e offre il pretesto per una ricognizione nelle stratificazioni di idee e canoni estetici che hanno segnato la storia culturale mediterranea ed europea. Nella narrazione, ricchissima per capacità immaginativa e potenza lirica, oltre che per l’ampiezza dei riferimenti, convergono le molte anime dell’autrice, che fu scrittrice, letterata e filologa (si veda in proposito qui). Ciò che però scalda il racconto è la passione nata dalla lunga frequentazione di quell’Etna che i siciliani chiamano ‘a muntagna. Sin dalle prime righe lo scritto di Maria Corti testimonia l’inarrestabile potenza generativa che il vulcano ha sempre esercitato:
L’uomo è sul filo esatto del cratere. […] L’aria comincia appena a schiarirsi nello spazio immenso del quale a fatica si scorgono i confini nella calma senza suoni. Mare Mediterraneo e terre sono nella penombra ancora indivisi, come furono nel paziente corpo del Caos, e attendono che la prima luce li separi. Le stelle brillano ancora e segnano il misterioso legame cosmico tra il loro fuoco sidereo e quello ipogeo entro l’Etna a quindici chilometri di profondità. Una stessa fine forse li attende nel catasto magico dell’universo. (p. 13)
L’Etna di Maria Corti non è un semplice monte, ma un’opera di fantasia creativa che ha segnato innanzitutto l’immaginario degli antichi. Nelle viscere del vulcano aveva sede la fucina di Efesto, e Ovidio lega l’Etna all’età in cui nacque la pratica della guerra, alla quale Zeus prese parte con le armi fulminee che «quei metalmeccanici dei Giganti» forgiarono nel ventre fervido del vulcano:
In nessun altro luogo terrestre Zeus avrebbe trovato armi confacenti e in nessun altro luogo si sarebbe rinvenuta più adatta prigione per i Giganti (p. 18).
Ed è ancora Ovidio a collegare l’Etna al ratto di Proserpina, immaginando Plutone colpito dalla freccia di Cupido mentre perlustra l’intera Sicilia, preoccupato che i movimenti tellurici di Tifeo, gigante ribelle che vive sotto il vulcano, portino luce nel suo regno di ombre.
Il fuoco ha un potenziale rituale di passaggio e trasformazione, e l’autrice associa l’archetipo alla salita suicida del filosofo presocratico agrigentino Empedocle, suggerendo che egli possa aver cercato nel cratere etneo l’esperienza dell’eternità dell’anima individuale – è questa anche l’idea di Friedrich Hölderlin, nella tragedia in versi Empedokles auf dem Aetna (1800).
Con l’arrivo dei Cristiani il tema dell’immortalità dell’anima assume nuove connotazioni, ispirando due geografie parallele, quella dell’aldiqua e quella dell’aldilà. I Moralia in Job di Gregorio Magno disegnano una sorta di protopurgatorio, che anticipa di sei secoli quello propriamente detto: una nave di morti valica durante la notte lo stretto di Messina e nel fuoco purificatore le anime traghettate purgano i loro peccati. Un’immagine simile compare anche nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze (CLXIII), secondo il quale proprio i lamenti e gli ululati dei demoni che provenivano dal ventre della montagna etnea avrebbero stimolato l’istituzione delle preghiere per i defunti nel giorno che segue la festa di Ognissanti.
Ma quando, nel 1061, i Normanni approdano in Sicilia dalla Longobardia meridionale, dalla Puglia e dalla Calabria, il monte estende la sua magia su un nuovo immaginario, nordico e fiabesco:
Non più dimora di Efesto o di Plutone e Persefone, gli si è sovrapposta l’immagine fantomatica dell’isola nordica di Avalon, sede di un altro oltretomba, di natura celtica, dove ha dimora Morgue la fee, Morgana la fata, e dove l’eroe può soggiornare con l’oblio magico delle imprese terrene, essere curato come re Artù e poi misteriosamente scomparire. I miti non sono scritti da nessuno, si depositano e verranno scritti solo in seguito. (p. 46)
Siamo nel momento esatto in cui nascono le letterature volgari, poi avidamente lette e coltivare nella raffinatissima corte di Sicilia, e qui si assiste a uno spostamento mitico-geografico, da Avalon alla Sicilia: l’Etna entra così in un nuovo soprannaturale, diverso da quello classico ma anche da quello cristiano tardoantico e altomedievale; la letteratura scopre la meraviglia favolosa dei romanzi di Bretagna.
Il catalogo prosegue con il Rinascimento, che riporta in auge le leggende classiche e resuscita le sirene e le ninfe: Aretusa, Galatea, Camarina, Gela e soprattutto Etnea, colei che in segreto ama Polifemo. L’Etna continua a giocare un ruolo di primo piano, anche nel dibattito filosofico-scientifico, alimentando, ad esempio, la discussione lucreziana sulla natura del fuoco di Bernardo e Pietro Bembo, nel dialogo di quest’ultimo appunto intitolato De Aetna (Venezia, 1495).
L’immaginario vulcanico è un caleidoscopio che segue sempre lo spirito dei tempi, così i gusti cambiano e il soprannaturale trasloca: nel Seicento prioritario è il bisogno di mettere ordine nelle menti umane, rintracciando i segni del Maligno che muove le sue trame disordinate. Allora gli abitanti del mondo di sotto tornano ad assumere fisionomie demoniache e, quando l’8 marzo 1669 ben cinque bocche del vulcano cominciano a eruttare contemporaneamente, si palesa la sua natura stregonesca processioni e flagellazioni tornano a essere il solo rimedio possibile. L’Ottocento si appassiona alle storie plebee come all’infanzia del mondo, riporta in auge dee pagane, eroi, fate, sante e santi che compongono il folclore popolare. I siciliani vivono di rendita del loro lunghissimo immaginario collettivo e, nel XX secolo, lo scrittore Santo Calì, originario proprio di Linguaglossa, prova a raccogliere le meravigliose leggende della sua terra; è con quell’immenso e multiforme patrimonio di storie che l’Etna arriva fino alle porte del nuovo millennio.
Qui però lo sguardo di Maria Corti si rabbuia, il tono cambia, si articola in lamento, perché il decennio in cui l’opera è scritta ha scoperchiato la violenza sanguinaria delle relazioni umane:
l’Etna dalle sue pure altitudini guarda con distacco questa fine millennio della pianura in cui nulla è più in armonia con lui: i drammi immani della criminalità, visti da lontano, sembrano piccoli avvenimenti nella vita di tutti i giorni, ma non lo sono. Fra ghirlande di luci dei paesi nelle pianure etnee non c’è più la pace della sera, ma un suo accorciamento si proietta nell’aria tra la luce di un giorno e quella del giorno seguente. Le strade sono vuote e vi incombe la morte. Rapporti invisibili legano le famiglie degli uomini, si spostano di qua e di là, si staccano come le nuvole dopo il temporale e si ricompongono. Ci sono avvicendamenti drammatici del potere, nessuno è sicuro nella sua terra e fra le sue amicizie. C’è qualcosa di peggio della lava a tagliare la via, ci sono cadaveri stesi a terra tra pozze di sangue. (p. 91)
Sono questi i passi in cui l’immaginazione poetica lascia il posto alla realtà. Ma non è la laudatio temporis acti della donna matura a muovere il lamento, piuttosto lo spirito appassionato e battagliero che caratterizzava la scrittrice fin dalla giovinezza, forgiata dalle lezioni di Antonio Banfi e dall’impegno civile antifascista. Catasto magico è del 1999, nel 1992 furono uccisi a poche settimane di distanza i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; l’Italia giusta in cui uomini e donne come Maria Corti avevano sperato, la Repubblica che avevano amato e contribuito a far crescere, ciascuno secondo i propri talenti, inaugurava una nera consapevolezza:
Cattedrali e palazzi delle città non hanno più i colori magici come nelle vecchie cartoline con la gente vestita all’antica e un’espressione di quieta immobilità del volto. […] Ora sono bombe a orologeria a esplodere nel cofano di una macchina mafiosa. E Messina al mirage di fata Morgana ha sostituito visioni malavitose di qua e di là dello stretto. è come passare da una sponda all’altra del mondo, dopo che si è spezzata la catena dell’ancora. (pp. 91-92)
Le ultime parole sono accorate e sofferte, davvero sembra che «in questo libro siano capitate pagine di un altro libro», in comune solo il paesaggio, la piana di Catania e la montagna che la sovrasta. Però il profilo dell’Etna si erge come un monito sulla tragedia degli uomini, espressione di quella bellezza che, sola, forse può salvare il mondo: «L’Etna è una di quelle cose che sulla terra appaiono sempre ben fatte e bene illuminate dalla Storia del mondo».
Il viaggio continua: con Nadia Terranova (e Battiato) lungo le coste del vulcano
Mentre riflettevo su questo pezzo è uscito un libro che conferma la magia del vulcano: Etna. La lingua del fuoco è il titolo del viaggio raccontato dalla scrittrice Nadia Terranova e dal fotografo Stefano Graziani per Humboldt Books (2024). La prosa ripercorre un viaggio sull’Etna compiuto dalla scrittrice insieme agli amici Alberto e Stefano (Graziani) nel 2019, per le feste di Ognissanti e dei morti. Su quel viaggio novembrino, che idealmente risale in confine tra aldiqua e aldilà, riverbera la memoria di un’estate a Pantelleria, l’ultima per il padre della scrittrice, siglata dalla colonna sonora di Franco Battiato. È il 1988, ma Terranova in quei giorni vive il tempo che per lei chiuderà gli anni Ottanta: la morte del padre la strapperà all’infanzia, segnando un punto di non ritorno e attivando il nocciolo da cui è scaturita molta della sua poesia.
Nelle parole di Battiato, che ora accompagnano i passi dei tre amici e poi il racconto, si riconosce la presenza del vulcano. Non a caso il cantautore è detto lo sciamano dell’Etna e non a caso il vulcano salutò con una spettacolare colata di lava il giorno del suo funerale, il 19 maggio 2021, («un abbraccio più che un commiato», p. 20). Battiato ispira e accompagna le parole della scrittrice messinese come un nume tutelare, mostrandole come le persone siano plasmate dal luogo in cui nascono e crescono e come questo offra loro un’attitudine psicologica e anche la lingua per esprimerla:
Gli strettesi hanno con le scosse lo stesso rapporto che gli etnei hanno con i borbottii. C’è lo stesso patto, basato sulla stessa ostinata forma di attaccamento alla vita. La terra, il mare e il fuoco sono una cosa sola sotto i nostri piedi, al di là della nostra comprensione: è sottopelle che sappiamo chi siamo, non nella testa. È nelle vene, non con il cuore. Possiamo odiare il posto in cui siamo nati, possiamo decidere di rompere con lui, di allontanarlo e tenerlo fuori dalla nostra vita, ma il nostro rapporto con il pericolo che incombe sarà sempre marchiato da una malinconica consapevolezza, diversa da quella che può avere chi non vive sotto un assedio perenne. Le cose si complicano perché quell’assedio è anche la sola forma di bellezza che resiste alle distruzioni della Storia, il paesaggio che i turisti vengono apposta a fotografare. Per noi, è semplicemente il nostro dio. (p. 17)
Nadia Terranova raccoglie insomma il testimone di Maria Corti e dei molti che dalla montagna si sono lasciati incantare. Così, ancora una volta, chi scrive trae dal viaggio sull’Etna parole per dire sé stesso, il proprio spazio e il proprio tempo, che oggi è un presente più che mai accelerato: il Novecento in cui siamo nati, quel millennio che si concludeva proprio all’uscita del Catasto di Maria Corti, non esiste più, anzi
muore ogni giorno, ancora dentro il nuovo millennio, mentre noi tre, per mestiere e vocazioni, ci siamo immersi come in uno stagno: Alberto si occupa di persone e fatti del passato, Stefano di fotografie, io di parole. Lavoriamo con i libri, dentro i libri, e siamo diventati adulti nell’epoca in cui ciò che ci ha messo al mondo si assiepa in un racconto agonizzante: ogni mese il romanzo viene dichiarato cadavere, le vendite della carta scendono di continuo, nessuno stampa più le fotografie. Eppure, non si è mai letto e scritto come in quest’epoca di messaggi, non si sono mai fatte tante foto come da quando ci autoscattiamo tutto il giorno. (p. 12)
Si pensa a torto che l’arte sia qualcosa che riguarda soltanto lo spirito: la letteratura non ha nulla da dire se non nasce anche dall’esperienza del corpo. Il reportage di Stefano Graziani attesta che per i tre amici, come già per chi prima di loro ha salito e cantato la montagna, l’incontro fu reale: gli occhi hanno colto dal mare il profilo di un’immensa montagna, i passi hanno percorso con fatica sentieri in salita, il fumo e la cenere hanno irritato le mucose; qualche volta il tatto ha regalato il piacere di un abbraccio e, ora che l’abbraccio non è più possibile, lo si coltiva nel ricordo, nella nostalgia. Succede dalla notte dei tempi, e le tante storie immaginate e cantate dicono che proprio qui, sulle sponde del vulcano, si può misurare quella particolare felicità, malinconica e contemplativa, che il maestro Battiato chiamava stranizza d’amuri: la sola che offra un po’ di balsamo per le ferite private e anche per quelle pubbliche che muovono le ultime parole del Catasto di Maria Corti.