In pieno periodo di restrizioni pandemiche c’era stata, a Roma, l’esposizione in una sede dei Musei Capitolini di parte dei sontuosi pezzi della “Collezione Torlonia”, che da anni erano stati sottratti alla vista del pubblico.
In quell’occasione avevo scritto su queste colonne un articolo che ricordava la storia della raccolta archeologica, in realtà una “collezione di collezioni”, che la famiglia Torlonia aveva messo insieme nell’Ottocento acquistando alcuni tra i più pregiati pezzi già appartenuti a importanti collezionisti romani (Albani, Giustiniani etc.) nonché sovvenzionando direttamente scavi nella capitale o nei suoi dintorni.
Avevo anche descritto alcune delle opere più significative restaurate e messe in mostra, in attesa che – dopo anni di contese (anche legali) con lo Stato Italiano – si arrivasse a una loro definitiva esposizione, in virtù di un accordo siglato nel 2016 dalla famiglia con il Ministro Franceschini.
Tutto era stato virtuale, però, almeno per me, che mi ero limitato a leggere (e ammirare) il poderoso catalogo che i curatori Salvatore Settis e Carlo Gasparri avevano editato per i tipi di Electa.
La mostra alle Gallerie d’Italia
Nei giorni scorsi ho potuto consumare la mia personale “vendetta culturale” sulle limitazioni di spostamento imposte nel 2021: infatti la mostra I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori, è stata allestita fino al 18 settembre 2022 a Milano, nei meravigliosi spazi delle “Gallerie d’Italia”, e io mi sono precipitato a visitarla!
Sento dunque il bisogno di condividere con i lettori de «La ricerca» la profonda emozione che ho provato; un’emozione che spero possa convincerli a recarsi a Milano per una visita che davvero consiglio vivamente. Tanto più – aggiungo – che i tempi di un’esposizione permanente in quel di Roma paiono allungarsi, e pertanto ai nostri “marmi Torlonia” sembra toccare ancora per un po’ un destino itinerante.
Intendiamoci, non voglio riscrivere l’articolo dello scorso anno. Mi preme solo dire che il contatto visivo diretto con i 96 pezzi esposti, restaurati e ottimamente illuminati (l’allestimento è dell’arch. Lucia Anna Iovieno), è roba da “sindrome di Stendhal” per chi ha passato la vita a vederli in vecchie (e talora modeste) fotografie in bianco e nero, solo da poco rimpiazzate da quelle del catalogo di cui sopra.
La Fanciulla da Vulci, il Vecchio da Otricoli (per me, da sempre, il ritratto di Catone il Censore!), così come il celeberrimo Rilievo di scena portuale o l’imponente Hestia Giustiniani sono infatti parte dell’immaginario iconografico di qualunque antichista, dai tempi (nel mio caso lontanissimi…) degli esami universitari.
E che dire della fitta serie di busti (per lo più di imperatori e imperatrici) collocata ora nello spazio centrale delle “Gallerie” milanesi, a contorniare una statua bronzea di Germanico Cesare in posa eroica?
Sì, proprio nello stesso spazio dove è visibile un superbo sarcofago ovale, che è una delle novità rispetto alla mostra capitolina, insieme con il colossale Dace prigioniero – simile agli esemplari del Foro di Traiano – ai ritratti di Domiziano e di Antinoo, e a una Leda con il cigno da poco restaurata.
Alcuni meravigliosi sarcofagi
Tutto fantastico, lo ripeto: esattamente quello che mi aspettavo di vedere. Quello che invece non mi aspettavo di vedere – ma è colpa della mia ignoranza – è un gruppo di sarcofagi di così alta qualità, a cominciare da quello che ho appena menzionato, databile alla seconda metà del III secolo, che raffigura un’affollata scena di un corteo che segue un uomo togato – il defunto – che fu probabilmente console.
Non meno belli due altri monumenti-contenitore decorati con le consuete fatiche di Ercole e uno con il più raro trionfo indiano di Dioniso, come pure quello – l’unico ancora con epigrafe – del centurione Lucio Pullio Peregrino, più consono per la sua magnificenza e per il soggetto decorativo a un nobile d’alto rango che a un cavaliere romano: lo ricordavo oggetto di particolare attenzione nel vecchio manuale Roma. La fine dell’arte antica di Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma non lo collegavo affatto alla Collezione Torlonia.
Ma è un altro ancora quello che mi ha maggiormente impressionato, e cioè un sarcofago strigilato decorato ai lati da due leoni, che hanno sì ghermito due prede, ma sono resi mansueti dalla presenza di un bestiarius: forse un’immagine allegorica beneaugurante, che auspica la possibilità rendere più “mansueta” anche la morte, e che di certo rende “mansueti” gli stupefatti visitatori. L’oggetto è del III secolo avanzato, e – come molti altri della collezione – presenta restauri moderni, per lo più settecenteschi.
Tra antico e moderno
E questa, a mio avviso, è una possibile, intrigante, “chiave di visita” della mostra: osservare cioè come nel corso dei secoli gli originali romani siano stati restaurati, integrati, talora ampiamente modificati. Perché a Roma, in ogni epoca, antico e moderno si sono mescolati e confusi, per mano anche di artisti del calibro di Bernini, Cavaceppi (il cui atelier è stato acquistato in blocco dai Torlonia), Piranesi o Canova, che hanno rimaneggiato monumenti classici: esempio superbo, in mostra, il cosiddetto Caprone Giustiniani, del I secolo d.C. ma con la testa mancante scolpita nel Seicento da Gian Lorenzo Bernini.
Qualche altra volta, invece, è l’oggetto antico che sembra ispirato alla modernità e anticiparla in modo sorprendente: infatti come non pensare alla celebre Anima dannata proprio del Bernini davanti al Satiro ebbro della Collezione Torlonia? E chi si stupirebbe se la Fanciulla da Vulci l’avesse scolpita Modigliani? Qui, però, mi fermo, per lasciare i miei lettori-visitatori il compito di altri “accoppiamenti” – rubando l’espressione al grande Gadda – più o meno “giudiziosi”.