Filosofia e letteratura #4

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La filosofia è riducibile a un genere letterario? Proviamo a guardare da vicino la zona di passaggio, cioè quella in cui si disporranno i testi che il nostro bibliotecario ha raccolto (vedi Filosofia e letteratura #3) e che sono di dubbia classificazione.

Tra questi, si è detto, ci sono: De rerum natura, La favola delle api, Il mondo di Sofia, Confessioni, Così parlò Zarathustra a cui si può aggiungere il Fedro. Vi sarà forse una disposizione sullo scaffale della nuova biblioteca, diciamo da sinistra (zona riservata alla letteratura) a destra, tale che questi libri possano venire ordinati fra loro? Detto altrimenti, la zona in cui domina la vaghezza, la zona dubbia, è suddivisa in parti necessitate a succedersi in un determinato ordine? E eventualmente, quali saranno i criteri per ordinare all’interno della zona di vaghezza? Proverò a sostenere che ci sono buoni motivi per scegliere la tesi che la zona vaga non è poi tanto vaga al proprio interno, e che perciò i titoli sopra menzionati vanno raccolti in una ben precisa sequenza. Vediamo quale.
Subito a destra dei libri che non hanno alcuno spunto che possa ispirare un filosofo (ma c’è da sospettare che l’insieme di quei libri sia vuoto), vanno i libri che in qualche misura sono capaci di suscitare la riflessione filosofica. Certamente tra questi ultimi troveremo ad esempio, molto spostati a destra, quasi tutti i lavori di Shakespeare e Dostoevskij e La favola delle api. Più a destra ancora e in un altro gruppo c’è Così parlò Zarathustra. Esso va in una categoria a sé, perché non solo è capace di illustrare, o addirittura di ispirare, importanti intuizioni filosofiche, ma intende esprimere e di fatto esprime contenuti filosofici propri, anche se attraverso una forma integralmente e studiatamente letteraria.

Un altro gruppo ancora è costituito dai libri che, come le Confessioni, mescolano la filosofia con la letteratura (e nel caso di quest’opera particolare bisognerebbe aggiungere almeno anche la teologia). Le intuizioni filosofiche non sono solo fuse nel testo letterario, esse cominciano a emergere e distaccarsi. Le parti filosofiche sono presentate e discusse, fornendo analisi e argomenti. Esse fanno fatica a staccarsi dal complesso e si manifestano solo in alcune parti del testo. 
Più netto è invece il distacco tra parti filosofiche (o meglio storico-filosofiche) e parti letterarie ne Il mondo di Sofia: un testo che è filosofico nei suoi medaglioni sui filosofi e per alcuni aspetti strutturali, ma letterario per la sua cornice generale. Questa sua condizione ibrida lo pone in una categoria a sé.
Rispetto a lui, il De rerum natura costituisce un caso esemplare di nuovo livello. Esso infatti, pur impastato di letteratura fin dall’incipit, è la lucida esposizione di un sistema filosofico. Non è letteratura che raccoglie la filosofia, secondo una delle diverse forme che si sono viste fin qui, ma è già filosofia. Qui il momento filosofico è individuabile nettamente, anche se non districabile. Un ulteriore livello si trova nel Fedro, che gioca programmaticamente tra il momento letterario e la filosofia. Si tratta di un livello irriducibile al precedente, in quanto l’argomentare è presente e lucidamente contrapposto all’andamento letterario, al punto che nel testo non si ravvisano solo filosofia in senso lato e letteratura, ma anche più specificamente una lucida filosofia della letteratura.

Esiste comunque un punto discriminante, una linea di separazione che taglia la continuità, anche se solo come confine tra contigui e non come iato tra incompatibili. Si tratta di un differente atteggiamento nei confronti della verità, che prevede l’impegno nei confronti della verità da parte dei testi propriamente filosofici. Ogni testo filosofico, cioè, si propone come veridico, persino quelli dei nichilisti e quelli degli scettici. È curioso, ad esempio, che Wittgenstein, che pensa al Tractatus come a un’opera che non può prendersi alla lettera e che va superata, scriva comunque nella prefazione: “la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva”. Se si ponesse all’inizio dei testi filosofici: “Niente di quanto segue è in alcun modo vero”, ne seguirebbe qualcosa che gli autori di quei testi non potrebbero accettare. E se lo facessero, passerebbero per dei ciarlatani.
Il solito Williams, riguardo a Nietzsche, per alcuni un campione del nichilismo, un formidabile negatore che vi siano verità, scrive: “Nietzsche non pensava che l’ideale della veridicità sarebbe andato in pensione non appena scoperte le sue origini metafisiche e non riteneva neanche che la veridicità potesse disgiungersi dalla sollecitudine nei confronti della verità. La veridicità come ideale mantiene il suo potere e, lungi dal vedere la verità come malleabile o superflua, il suo problema principale era come renderla sopportabile” (Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Fazi, Roma 2005, p. 20).

Nella letteratura, per contro, il fatto di premettere “Niente di quanto detto di seguito è in alcun modo vero” o non ha molto senso, o è banale: cosa può mai voler dire che, poniamo, L’Infinito di Leopardi non è vero? Cosa si può intendere con la negazione che sia vera la Divina commedia? Certo, la terra di mezzo non esiste, né Sherlock Holmes, né Poirot sono mai esistiti come anche, oso dirlo, Voldemort. Ma chi mai ha preteso che lo fossero? Il letterato accetterebbe il test o perplesso, o ridendo: le sue opere sono per così dire al di là del vero e del falso, se si rimane sul piano letterale del confronto tra il testo e la realtà.
Nella letteratura la verità è implicata a qualche livello, non è direttamente intenzionata; nel complesso si direbbe essere un esito supererogatorio. Con il letterato potrebbe ridere anche Nietzsche, perché nel test qui proposto troverebbe uno strumento per smascherare l’apollineo e mostrare che la letteratura ne è immune. Al contrario, il filosofo non troverebbe nulla da ridere se si volesse applicare il test alla sua opera: i suoi argomenti, le sue tesi, le sue assunzioni non valgono quanto la loro negazione. In questo senso, bisogna ammettere che la filosofia manca, e non per motivi estrinseci, di quella leggerezza pensosa di cui la buona letteratura è capace, e di cui Calvino ha detto cose profonde.

[Leggi la prima, la seconda e la terza puntata dell’approfondimento su filosofia e letteratura.]

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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