Preparando un capitolo per il manuale di storia della filosofia di cui sono coautore mi ero occupato di filosofia cristiana: avevo infatti studiato il dibattito francese degli anni Trenta del Novecento, soprattutto tra Étienne Gilson, Jacques Maritain, Emile Bréhier, Léon Brunschvicg e Maurice Blondel. Il rompicapo mi era parso davvero affascinante; provo a riformularlo, semplificando. Ha senso parlare di filosofia cristiana? Se si risponde di sì, si deve poi spiegare come la filosofia, intesa come ricerca razionale e priva di presupposti e di assunti su base di fede, possa qualificarsi come cristiana. Pare che se ne debba concludere che parlare di filosofia cristiana è un po’ come parlare di un ferro ligneo: chi cerca di ammetterla vuole combinare tra loro cose eterogenee e inavvicinabili. Se, invece, si risponde di no, bisogna poi correggere tutti quei testi di storiografia che parlano della filosofia cristiana di autori come Agostino, Tommaso e Maritain. Soprattutto, bisogna spiegare al senso comune, abituato alle filosofie di Harry Potter, del Dr. House, di Star Trek o dei Simpson, che invece, quando si parla di filosofia cristiana, si dice qualcosa di insostenibile, di profondamente errato. Come si vede, ciascuna delle opzioni si rivela difficile da praticare. La conclusione, per non dire lo spegnersi, del dibattito novecentesco mi era parso consistere nel semplice esaurirsi della volontà di continuare. Non si trattava di una di quelle conclusioni che nascono dal presentarsi in campo di una soluzione definitiva, men che meno condivisa.
Per queste ragioni, quando mi capitò tra le mani l’inedito di Seifert, esponente di punta della fenomenologia realista, lo sfogliai con curiosità e scetticismo. Speravo infatti di trovare qualcosa che potesse portare oltre le secche in cui si era insabbiato il vecchio dibattito, e al contempo non speravo che si potesse aggiungere niente di nuovo a ciò che era già stato detto. Questo mio dubbio venne subito fugato e mi convinsi che il testo meritava di essere letto e discusso.
Per dare conto delle ragioni che mi hanno spinto a promuovere la pubblicazione del volumetto, bisogna che dia almeno in estrema sintesi conto del percorso che esso offre. Seifert comincia distinguendo tra cinque accezioni dell’espressione “filosofia cristiana”, mostrandone le difficoltà e concludendo perciò che essi vadano rifiutati. Segue poi una disamina di altri undici sensi dell’espressione. In questo caso, si tratta di sensi validi che l’autore discute in dettaglio. Trovai affascinante il modo in cui Seifert scompone un concetto in sedici e riuscii a individuare molti scenari argomentativi che potevano svilupparsi a partire da un simile apparato. L’analisi di Seifert, infatti, valorizza una serie di sfumature interessanti e, mi sembra, dà modo di ripensare al dibattito classico con un apparato categoriale più sofisticato, mettendo a disposizione precisazioni e distinguo chiarificatori, altrimenti difficili. Il volume però non finisce qui. L’autore ritiene che la filosofia cristiana non solo ci sia, ma che essa dia un contributo importante alla trattazione dei grandi temi della disciplina. Per illustrarlo egli, per brevità, sceglie uno solo degli undici sensi validi di filosofia cristiana e, sulla sua base, discute il tema della libertà. Si tratta di un tema classico per la filosofia e Seifert argomenta con maestria così che, lo dico da storico delle idee, si può criticare e anche rifiutare le sue conclusioni, ma bisogna riconoscere la forza teoretica con cui procedono gli argomenti.
Spero insomma che il libro possa contribuire a rimettere in moto una discussione interessante e di grande importanza, e che è tempo di riprendere.