La lista non pretende l’esaustività: l’autore infatti ammette che se ne potevano aggiungere altre, come ad esempio quella del Ciarlatano o quella del «guru del self-help che promette di spiegare tutto ciò che è necessario sapere» (p. 20). Smith ritiene però che questa classificazione, compresa di varianti ibride, consenta di spiegare il lavoro e l’impatto sociale di tutti coloro che nella storia sono stati chiamati filosofi (cfr. ivi).
Attraverso l’analisi delle sei figure citate, Smith affronta in forma laterale forse il primo problema della filosofia, cioè la domanda su cosa essa sia. La conclusione (qui non mi si vorrà rimproverare lo spoiler: nessuno legge questo genere di libri per scoprirne il punto di arrivo) è che «il termine “filosofia” si dice in molti modi» (p. 218). A ciò si aggiunge la rinuncia di Smith a definire cosa sia la filosofia. Da un lato, ci sono le ragioni per parlare di un esito aporetico del libro: come si può dire quali sono i modi di presentarsi di un filosofo, se non è chiaro che cosa dovrebbe fare uno che viene così definito? Dall’altro lato Smith legittima il proprio percorso come una descrizione delle pratiche de facto. L’autore cerca di fare il George Dickie della metafilosofia: come questi diceva che un’opera d’arte è ciò che passa per tale nel mondo dell’arte (musei, gallerie, etc.), così Smith ritiene che «essere un filosofo significhi semplicemente essere ritenuto tale» (p. 219).
Le definizioni di filosofia, ancorché difficili da dare e, soprattutto, da difendere, finiscono col creare una linea che esclude. Si tratta di un prezzo da pagare che, per alcuni, risulta troppo alto. Tra questi c’è Smith.
Per comprendere come il timore di fornire una definizione si radichi nell’autore, mi pare sia rivelatore un episodio autobiografico narrato nel libro. Durante un open day, anzi “Portes Ouvertes”, della Concordia University di Montreal, presso la quale l’autore lavorava, si presentò un membro della tribù nativa americana dei mohawk. L’uomo chiese a Smith, incaricato di incontrare coloro che fossero stati interessati all’iscrizione, quale tipo di filosofia insegnassero. Smith rimase sorpreso quando l’uomo aggiunse: «Sa, anche noi abbiamo la nostra filosofia» (p. 98), e replicò con uno scettico: «Ah, davvero?». Solo in seguito capì che l’altro aveva però ben colto “la sufficienza e l’arroganza” della sua risposta (ibidem): dopo poco l’uomo se ne andò e non si iscrisse mai in quell’università.
Smith ritrova nella propria risposta di allora la supponenza dei filosofi accademici che ritengono che ciò che essi fanno sia l’unica incarnazione di qualcosa di universale. Egli continua con un’impietosa autocritica, osservando che i filosofi accademici, «visti dall’esterno, sono solo una istanza particolare di qualcosa che ha molte forme. Pensano di rappresentare la filosofia come civiltà, mentre ciò che esiste sono solo molte, e diverse, culture filosofiche» (p. 99). Il lettore, non può che imparare dalla lezione che Smith porge con l’umiltà di un’esperienza personale dolorosa. Forse però la dovuta apertura mentale alla pluralità delle forme del filosofare, richiamata giustamente da Smith, non porta necessariamente alla conclusione – estremamente debole – che egli ne trae.
Il valore del libro consiste soprattutto nell’interesse che le figure abbozzate da Smith suscitano.
La Curiosa incarna un atteggiamento ora andato perso, ma vivo nell’antichità, in cui tutto era degno di interesse per il filosofo, dalle tempeste all’anatomia animale.
Il Saggio è la figura socialmente venerabile, capace di vivere in una cultura, coglierne criticamente gli elementi portanti, sapendo prenderne le distanze.
Il Polemico nel libro è rappresentato esemplarmente da un personaggio fittizio, Bud Korg. Questi è insistente nello scrive lettere graffianti in cui chiede a un non meglio identificato “Professore” di leggere il proprio libro: Verità quantiche del XXI secolo, sintesi tra le ultimissime ricerche in «Meccanica Quantistica, l’archeoastronomia dei Caldei, la scienza dei calendari maya, e il pensiero critico» (p. 117). Nelle lettere si ritrova la presunzione patetica dell’outsider frustrato, che ignora le esigenze di rigore e scientificità dell’accademia e cerca di attirare su di sé l’attenzione. Dà da pensare che il libro di Smith sia dedicato alla sua memoria.
Le figure dell’Asceta e del Mandarino, poi, rappresentano rispettivamente una il filosofo capace di distacco dalle cose del mondo, l’altra quello che appartiene a una struttura sociale d’élite, come ad esempio l’accademia, guardiana gelosa delle barriere disciplinari in cui il singolo esercita la propria professione.
Il Cortigiano, infine, è colui che cerca di inserirsi nella società non per cambiarla, ma «per far avanzare se stesso e la propria fama» (p. 19). Qui il filosofo può acquistare un’aura sinistra, nel caso in cui si venda a un potere sanguinario.
Un merito del testo mi pare stia nell’affrontare con intelligenza la maggior parte dei temi propri della metafilosofia, oltre a quello di cui si è detto che riguarda la definibilità della filosofia. Tra essi vanno ricordati almeno il rapporto tra filosofia e poesia e, più ampiamente, letteratura (il libro stesso gioca passando a tratti dalla filosofia alla letteratura); il rapporto tra filosofia e scienza; il problema degli stili e dei generi della filosofia; il rapporto tra analitici e continentali; il rapporto filosofia e storia della filosofia. Su ciascuna di queste questioni l’autore avanza considerazioni interessanti, condite da una rara erudizione e una felice capacità di raccontarsi.