Si fa presto, quando si parla di sport nell’antichità, a parlare di Olimpiadi e di altri giochi atletici, ricordando magari come lo storico ottocentesco Jacob Burckhardt abbia definito l’uomo greco «uomo agonale»1. Gare sportive, tra l’altro, non mancarono neppure nel mondo romano, che però ebbe una smodata passione soprattutto per i ludi gladiatori: non è forse vero, come scriveva Giovenale, che il popolo era disposto a sopportare l’oppressione politica pur di avere panem et circenses (Satire, 10, 81)?2. E sicuramente i gladiatori – schiavi o liberi che fossero – erano atleti, in quanto addestrati professionalmente e opportunamente “palestrati”: come tali ce li presenta infatti l’iconografia, dai rilievi e mosaici antichi fino alle tele e alle incisioni di Giorgio de Chirico. La loro prestanza fisica – lo ricordano varie fonti, in primis Marziale e Giovenale – li rendeva inoltre desiderabilissimi al pubblico femminile di ogni età e condizione sociale: un tal Celadus, in un graffito murale di Pompei (CIL IV, 4379), è addirittura definito suspirium puellarum, cioè “sospiro delle fanciulle”!
Meno certo è il fatto che in epoca contemporanea si possa parlare di “sport” in relazione agli antichi agoni circensi, poiché oggi l’attività sportiva evoca (anche) il divertimento di chi lo pratica, oltre che di chi ne è spettatore. Ma non è dei gladiatori in senso stretto che voglio parlare – e qui vengo al “dunque” – bensì dei loro fan, i cui focosi comportamenti sembrano talora anticipare quelli dei moderni tifosi. Voglio ora farlo mostrando (mi si perdonerà la semplificazione) un esempio di tifo “buono”, affettuoso, un altro “cattivo”, degno dei peggiori hooligan.
I tifosi di un giovane gladiatore
Cominciamo dal primo, che è un’iscrizione funebre ritrovata a Milano, databile forse al III secolo d.C. Eccone il testo latino e una moderna traduzione3:
D(is) M(anibus) / Urbico secutori / primo palo nation(e) Flo/rentin(o) qui pugnavit XIII / vixit ann(os) XXII Olympias / filia quem reliquit mesi(bus) V / et Fortunesis filia{e} / et Lauricia uxsor / marito bene merent[i] / cum quo vixsit ann(is) VII. / Te moneo ut quis quem vic(e)/rit occidat; / colent Manes amatores ipsi/us
Agli Dei Mani. / Ad Urbico, inseguitore / di prima categoria, di origine / Fiorentino, che combatté tredici volte, / visse ventidue anni; Olimpia / (sua) figlia che lasciò di cinque mesi, / e la figlia Fortunense, / e la moglie Lauricia (dedicano), / al marito che ha ben meritato, / con cui visse sette anni. / Ti avverto, chiunque tu sia, che uccidi / chi hai vinto. / I suoi tifosi terranno viva la sua memoria.
Urbico – molto probabilmente uno schiavo – doveva essere una star dell’anfiteatro di Mediolanum: era un inseguitore (secutor), e cioè uno di quelli cui spettava portare l’attacco con la spada, presenza fissa nei ludi al pari di quella dei retiarii. Ed era di origine fiorentina, come si ricorda con un orgoglio che sa di campanilismo e che sembra anticipare l’abitudine moderna (per esempio nel pugilato) di specificare – negli incontri di provincia – la città di provenienza degli atleti, per istigare tradizionali rivalità.
La moglie Lauricia, rimasta sola con le figliolette Olimpia e Fortunense, gli approntò una stele che lo ritrae in azione, in uno dei tredici combattimenti durante i quali infiammò le folle: accanto a lui, anche l’amato cane. Ma il compianto, in questo caso, è accentuato da due frasi finali di estremo interesse e di grande commozione. Quella che precede (Te moneo… occidat) è sgrammaticata quanto basta, ma sembra esprimere una sorta di rimprovero a chi – vincitore – ha voluto finire senza pietà il povero Urbico, magari proprio come nella celebre tela Pollice verso di Jean-Léon Gérôme (1872); eppure anche l’uccisore non avrà potuto (forse) risparmiarlo, pena la riprovazione dell’arena milanese, dove – in epoca tarda – non doveva mancare tra gli spettatori l’imperatore Massimiano, che non lontano da qui aveva il suo sontuoso palazzo. A essa fa seguito l’invito della vedova agli amatores ipsius (cioè ai fan di Urbico), perché coltivino la sua memoria, e non dimentichino di onorarne i Mani.
Forse Lauricia sperava che la tomba del giovane marito diventasse una sorta di luogo di culto per chi lo aveva osannato in vita; qualcosa di simile alla lapide di Superga che menziona i calciatori del “Grande Torino”, detti “invincibili” perché scomparsi giovani e in modo tragico: ho detto “scomparsi”, non “morti”, in quanto – come ha scritto Indro Montanelli dopo il disastro aereo del 1949 – “il Torino non è morto, è soltanto in trasferta”. Come Urbico, no? Che da duemila anni è in trasferta presso gli Dei Mani.
Pompei, 59 d.C.: rissa, morti e squalifica dell’arena
All’interno di un anfiteatro (così come di un moderno stadio) scattavano talora dinamiche particolari, che appartengono alla sfera della psicologia delle masse, della quale – prima di Sigmund Freud e Gustave Le Bon – già aveva parlato Seneca (Lettere morali a Lucilio, 7). Egli, turbato proprio dall’eccitazione collettiva degli spettatori dei ludi gladiatorii, scriveva:
Nulla è poi altrettanto dannoso alla moralità quanto intrattenersi oziosamente in qualche spettacolo, perché in queste occasioni i vizi si insinuano più facilmente nell’animo attraverso il piacere. Che cosa credi che io intenda dire? Che ritorno più avido, più ambizioso, più incline alla sensualità, addirittura più crudele e inumano, per essere stato in mezzo alla gente4.
Vale allora la pena di leggere quanto dice Tacito (Annali, 14, 17) a proposito di un “fattaccio” successo a Pompei nel 59 d.C., ai tempi di Nerone:
Nello stesso lasso di tempo per lievi motivi scoppiò un conflitto feroce tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei a proposito d’uno spettacolo di gladiatori, offerto da Livineo Regolo che, come ho già detto, era stato espulso dal Senato. La gente, con la mancanza di freni tipica di quelle città, incominciò con lo scambio di ingiurie, poi passò alle pietre, e finirono con l’impugnare le armi; ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, dove aveva luogo lo spettacolo. Di conseguenza molti dei Nucerini tornarono nella loro città il corpo coperto di ferite, la maggior parte piangendo la morte di figli o di genitori. Il principe deferì il giudizio sul fatto al Senato, il Senato ai consoli; poi la cosa tornò ai Padri Coscritti e ai Pompeiani furono vietate per dieci anni riunioni del genere; e le loro associazioni, create illegalmente, furono sciolte. Livineo e quanti altri avevano provocato quell’incidente furono puniti con l’esilio5.
Non c’è molto da dire: Tacito è, come al solito, preciso e dettagliato, e non si fa neppure mancare una punta di snobismo “nordico” (lui che forse era di origine gallica) verso la “mancanza di freni” degli spettatori campani. Dunque morti, feriti, squalifica dell’arena… Chi ha una certa età non può non andare con la memoria alla tragedia dello stadio Heysel, a Bruxelles, del 1985, quando durante la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool ci furono 39 morti, originati dalla violenza degli hooligan e dalla impreparazione delle forze dell’ordine: un evento, questo, che ha cambiato molte cose nella storia del calcio e del moderno tifo.
Ma torniamo ai Romani e alla rissa di Pompei, con qualche altra considerazione.
Anzitutto dobbiamo ricordare l’eco vastissima di quell’evento, il quale è menzionato da almeno due altri eccezionali documenti, che debbono essere vagliati.
Il primo è nientemeno che un affresco pompeiano, che rappresenta con vista “a volo d’uccello” la rissa con straordinaria vivacità: mentre all’interno dell’arena i gladiatori combattono, i tifosi all’esterno se le danno di santa ragione. Poiché l’affresco è di soggetto particolare (per amatori del genere, diremmo noi) ed è stato realizzato a copertura di un altro affresco di tema gladiatorio, non è impossibile credere che la casa dove si trovava fosse di qualche “addetto ai lavori”, magari un impresario del settore circense6.
Il secondo documento è invece pressoché inedito, ed è un’epigrafe latina di recentissimo reperimento a Pompei che – pare – faccia menzione dell’evento nell’ambito dell’elogio funebre di un impresario di giochi gladiatori. Dico “pare” perché il testo non è ancora stato reso noto, se non per una breve sintesi contenutistica, ed è pertanto d’obbligo la massima prudenza7.
Inoltre è d’uopo alludere alle ragioni probabilmente extra-gladiatorie della rissa; infatti la rivalità tra fan di diversi gladiatori si nutrì di implicazioni politiche, se è vero che era stato Nerone a rifondare nel 57 d.C. Nocera come colonia Romana, assegnando ai Nocerini appezzamenti di territorio agricolo rivendicati dai Pompeiani8.
Tra l’altro, c’è chi pensa che Livineo Regolo, finanziatore dei giochi, sia stato anche tra i mandanti e sobillatori dei disordini. Costui, esponente di una ricca e importante famiglia, era un politico in disgrazia che, dopo la sua espulsione dal senato, si era ritirato proprio a Pompei. Chissà, magari pensava che la populistica adesione alla causa dei Pompeiani defraudati di terre dai Nocerini, accompagnata – perché no? – dall’infiltrazione tra i tifosi locali di qualche picchiatore professionale, potesse essere l’inizio di una nuova avventura politica. Inutile che mi profonda in riflessioni su come anche ai tempi nostri qualche volta tifo (specialmente calcistico), faziosità politica e malaffare si intreccino fra loro in un abbraccio mortale.
Quando Nerone guidò un carro alle Olimpiadi
Ultima, paradossale, nota. A comminare la squalifica decennale all’arena pompeiana fu proprio Nerone, l’imperatore forse meno titolato a dettar legge in materia. Non solo per la sua proverbiale passione per i giochi gladiatori, ma anche per una lunga serie di comportamenti anti-sportivi dei quali il principe – aspirante poeta, attore, atleta… – si rese colpevole. Tra tutti spicca quello descritto da Svetonio (Vita di Nerone, 24) in relazione a una sua partecipazione alle Olimpiadi, ove guidò il carro personalmente, cosa che di solito non facevano i proprietari dei cavalli. Scrive infatti il biografo:
In parecchi concorsi guidò anche il carro e, nei giochi olimpici, ne guidò uno a dieci cavalli, benché in un suo poema avesse biasimato re Mitridate proprio per questo fatto. Rovesciato però dal carro, benché vi fosse stato rimesso sopra, non riuscì a resistere e dovette rinunciare alla corsa prima della fine; ciononostante ottenne la corona9.
La scena dell’imperatore che rotola nella polvere della piana di Olimpia, dei giudici terrorizzati dalla sua possibile sconfitta, della successiva squalifica degli altri competitori, non è certo tra quelle che consegnano lo sport antico alla purezza (o alla retorica buonista?) solitamente associata alle parole del barone de Coubertin. Nerone non poteva perdere, perché la sua idea di impero – lontana dalla tradizione romana e nutrita di suggestioni ellenistiche – non glielo consentiva. Infatti uno dei suoi modelli era Alessandro Magno, leader giovane e atletico, di bell’aspetto, che vantava una discendenza da Zeus e che pertanto nessuno osava contraddire.
L’imperatore romano, da par suo, non era alto, denunciava un po’ di sovrappeso, aveva gambe gracili e occhi miopi; eppure il suo presentarsi come “uomo agonale” alla greca, era funzionale – come si è detto – al suo progetto politico: e se gareggiava era solo per vincere, senza se e senza ma. I suoi fan erano però prezzolati o timorosi, e nessun amator ne ha coltivato la memoria come avranno fatto quelli del gladiatore Urbico. Anzi, le sue nefandezze hanno indotto il senato a proclamarne la damnatio memoriae, cioè la cancellazione del nome dai documenti ufficiali: anche dall’albo d’oro delle Olimpiadi, dunque! È stata così la Storia (con la S maiuscola) a squalificare il principe che aveva squalificato l’arena di Pompei e aveva impedito la vittoria dei suoi rivali sulla piana di Olimpia.
La Storia – canta Francesco de Gregori – “dà torto e dà ragione”, e in questo caso ha dato ragione a un giovane schiavo (complice l’affetto della moglie e la fedeltà dei suoi fan) e torto all’ultimo dei discendenti del divino Cesare. Che sia proprio vero, allora, che La Storia siamo noi?
NOTE
1. Sterminata e disomogenea la letteratura sullo sport nell’antichità. Consiglio dunque la consultazione passim della Enciclopedia dello Sport, Treccani, Roma 2002-2005 (alcune voci sono pure visibili al sito www.treccani.it); sulle Olimpiadi, da ultimo, si veda: E. Cantarella, E. Miraglia, L’importante è vincere. Da Olimpia a Rio de Janeiro, Feltrinelli, Milano 2016.
2. Su questi spettacoli, mi permetto solo qualche segnalazione bibliografica, e cioè: A. La Regina (a cura di), Sangue e arena. Catalogo della mostra (Roma), Electa, Milano 2001; F. Guidi, Morte nell’arena. Storia e leggenda dei gladiatori, Oscar Mondadori, Milano 2009, e il recente e problematico G.L. Gregori, Ludi e munera. 25 anni di ricerche sugli spettacoli d’età romana. Scritti vari rielaborati e aggiornati, LED, Milano 2011. Sull’impatto sociale dei ludi circensi, ancora insuperato il classico – più volte riedito – P. Veyne, Il pane e il circo, Il Mulino, Bologna 2013, spec. pp. 626 ss.
3. CIL V, 5933 = EDR124255 (S. Zoia); la traduzione è quella proposta da A. Sartori, Gente di sasso, Viennepierre editore, Milano 2000.
4. Seneca, Lettere morali a Lucilio, trad. F. Solinas, Mondadori, Milano 2007.
5. Tacito, Annali, trad. it. L. Storoni Mazzolani, in Storici Latini, Newton Compton, Roma 2013.
6. Sull’episodio è utile consultare D. L. Boomgardner, The Story of Roman Amphitheatre, Cambridge University Press, 2002, pp. 50 ss.
7. Una bella descrizione dell’affresco in E. La Rocca, S. Ensoli, S. Tortorella, M. Parini (a cura di), Roma. La pittura di un impero. Catalogo della Mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, Skira, Milano-Ginevra 2009, pp. 118-120.
8. Tra gli organi di stampa che hanno menzionato il reperimento, «Il Sole 24 ore» al link http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-26/pompei-ritrovata-tomba-mecenate-spettacoli-gladiatori-151532.shtml?uuid=AERCAs3B
9. Svetonio, Vite dei Cesari, trad. it. F. Dessì, BUR, Milano 2011.