Forse nessun altro personaggio è più adatto a farci riflettere su questo problema dell’imperatore romano Nerone (54-68 d.C.), il cui regime autocratico di ispirazione orientalizzante non ha lesinato la creazione di “bufale”, ma ha parimenti subito la loro circolazione. Vorrei dunque analizzare brevemente due questioni esemplari: anzitutto i rumores relativi all’incendio di Roma del 64 d.C., e poi – forse meno noti – quelli relativi alla “non morte” di Nerone, che – come Hitler, Elvis Presley, Marylin Monroe e altri “miti” – veniva dai sui fans regolarmente “avvistato” anche dopo il suo poco glorioso suicidio.
L’incendio di Roma: una bufala tira l’altra?
Tacito, storico rigoroso, afferma di non sapere esattamente le cause dell’incendio scoppiato a Roma il 19 luglio del 64 a.C.; usa infatti l’espressione forte an dolo principis incertum, cioè “è incerto se l’incendio sia avvenuto per caso o per responsabilità del principe” (Annali XV, 38). Lo stesso storico ricorda però tutte le ipotesi che circolavano da tempo in relazione a questa sciagura. E, prima fra tutte, vi è la “bufala” fatta circolare da Nerone sulle responsabilità dei cristiani (chissà perché avrebbero dovuto incendiare l’Urbe…), cui replicarono altre notizie che vedevano il colpevole proprio nell’imperatore, vuoi perché – novello Omero – voleva ispirarsi nel canto davanti all’incendio di Roma rievocando quello mitico di Troia, vuoi perché sognava di ricostruire la città secondo megalomani piani urbanistici e farne una sorta di Neropolis.
Gli storici moderni sostengono, per lo più, l’idea dell’accidentalità del disastro. È infatti plausibile che in una calda notte di plenilunio estivo, un pur piccolo fuoco abbia potuto facilmente attecchire e quindi divampare in una città ad alta densità di popolazione, le cui case erano in larga parte costruite in legno. Eppure nell’immaginario collettivo (complici i vari remake del film Quo Vadis) il Nerone con la cetra che suona e canta ammirando le fiamme è ancora, duemila anni dopo, più viva che mai, corroborata da secoli di cristianesimo che ha voluto così “vendicare” (lo so, il verbo è poco evangelico…) la memoria dei suoi martiri: non dimentichiamo, tra l’altro, che Nerone (per questo spesso identificato con l’Anticristo) mise a morte nientemeno che Pietro e Paolo! Dunque la “bufala” imperiale, ne originò (probabilmente) altre da parte dei suoi oppositori che nel tempo soppiantarono definitivamente il fake originale.
Godiamoci allora il vivace racconto del biografo Svetonio (Vita di Nerone, 38), che, con Plinio il Vecchio e il greco Cassio Dione, rappresenta la fonte più completa per coloro che credevano alla colpevolezza del principe.
Ma neppure il popolo e le mura egli (cioè: Nerone) risparmiò. Avendo un tale, in una conversazione, esclamato «Vada, me morto, tutto il mondo in fiamme», anzi «me vivo!» disse. E così appunto fece. Come se fosse, infatti, disgustato dalla bruttezza degli edifici antichi e dall’angustia delle vie tortuose, appiccò tanto palesemente l’incendio all’Urbe che parecchi cittadini consolari non ardirono fare ostacolo ai suoi servi di camera da essi sorpresi con stoppa e fiaccole nelle proprie case, e che furono abbattuti con macchine belliche e con fuoco, perché erano costrutti in pietra, alcuni granai contigui alla Casa d’oro dei quali egli sommamente desiderava l’area. Sei giorni e sette notti imperversò quel disastro, mentre il popolo veniva cacciato nei sotterranei dei monumenti e dei mausolei sepolcrali. Allora oltre un’immensa quantità di caseggiati arsero palazzi di antichi duci ancora adorni delle spoglie nemiche, e templi di Dei votati e dedicati dai re e poi nelle guerre puniche e galliche, e tutto ciò che fin dall’antichità era durato ragguardevole e memorando. Dalla torre di Mecenate egli stette a contemplare quell’incendio, e lieto, come disse, «della bellezza della fiamma», in abito scenico cantò la presa di Troia. E per non lasciare anche in quell’occasione d’arraffar quanto poteva di preda e di bottino, promise di sgombrare a proprie spese i cadaveri e i rottami non permettendo a nessuno di avvicinarsi alle reliquie delle proprie cose. E con le contribuzioni non solo accettate ma anche richieste quasi esaurì le province e i patrimoni dei privati. (trad. G. Vitali)
I tre “falsi” Neroni
Quelli troppo belli o troppo brutti, troppo buoni o troppo cattivi ecc., si sa, non muoiono mai. E così capitò anche a Nerone, del quale si ricordano almeno tre sosia che – contando sul favore che l’imperatore aveva avuto presso alcune popolazioni orientali – provarono a sobillare queste ultime e muovere guerra a Roma: qualcosa che Tacito definisce un ludibrium, cioè un fenomeno di cui vergognarsi davanti alla posterità. I “falsi Neroni” a noi noti agirono:
1) nel 69 d.C., poco dopo la morte del vero principe, come ricorda Tacito;
2) sotto il regno di Tito (intorno all’80 d.C.), come si evince dal testo di Cassio Dione;
3) negli anni 88-89 d.C., sotto il governo di Domiziano, come suggerisce Svetonio (Vita di Nerone, 58-59).
Il secondo, il cui nome era Terenzio Massimo, e il terzo cercarono di convincere i Parti – tradizionali nemici di Roma – a sceglierli come guida in una guerra all’impero che li avrebbe (a loro fallace giudizio) portati alla porpora. Ma è del primo che sappiamo di più, perché è il solito, impeccabile, Tacito (Storie, II, 8-9) a parlarcene, raccontando come costui, nel bel mezzo della convulsa situazione politica che vide nel 69 d.C. alternarsi al governo di Roma Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, tentò – con esiti fallimentari – di organizzare una rivolta delle province orientali. Quali fini avesse davvero è difficile dire, ma è probabile che si fosse illuso – visto che ogni parte dell’impero acclamava ormai un “suo” imperatore – di poter concorrere anche lui al folle Grand Prix che si stava correndo in quegli anni. Finì male, il poveretto, ma non è che il nobile Galba, il feroce Vitellio e Otone – che del vero Nerone era stato amico – siano finiti molto meglio. Leggiamo allora Tacito:
Nel medesimo periodo l’Acaia e l’Asia furono atterrite dalla falsa notizia che si stava avvicinando Nerone. Sulla sua morte si erano diffuse notizie contraddittorie e perciò molti pensavano e immaginavano che fosse vivo. Racconterò nel prosieguo di quest’opera altri casi e tentativi. Uno schiavo del Ponto – o, come altri raccontano, un liberto proveniente dall’Italia – molto bravo a cantare accompagnandosi con la cetra (elemento che si aggiungeva alla somiglianza fisica e utile a sorprendere la buona fede della gente) prese la via del mare. Aveva aggregato a sé dei disertori che vagavano in condizioni miserevoli e che lui aveva corrotto con grandi promesse. Fu gettato dalla violenza dei marosi sull’isola di Cidno; lì arruolò alcuni soldati che provenivano dall’Oriente e andavano in congedo. Se qualcuno recalcitrava, lo faceva uccidere; poi spogliò alcuni mercanti di schiavi e armò i migliori. Circuì in ogni modo il centurione Sisenna il quale portava ai pretoriani delle destre congiunte, simbolo di concordia, a nome dell’esercito siriaco. Alla fine Sisenna dovette fuggire di nascosto dall’isola, tutto tremante e pieno di paura per le ritorsioni possibili. Perciò il terrore si diffuse largamente: la celebrità del nome fece rialzare la testa a molti per desiderio di cose nuove e per odio delle presenti. Pensò il caso a dissipare questa fama che si ingigantiva giorno dopo giorno. Il governo delle province di Galazia e Panfilia era stato affidato da Galba a Calpurnio Asprenate. Come scorta gli erano state date due triremi della flotta di Miseno, con cui approdò all’isola di Cidno. Subito qualcuno mandò a chiamare i trierarchi nel nome di Nerone. Il falso Nerone, col volto atteggiato a tristezza e con invocazioni di lealtà ai soldati che un tempo erano stati suoi, li pregava che lo portassero in Egitto o in Siria. I trierarchi, forse per dubbio o forse per astuzia, dissero che dovevano parlare coi soldati e che sarebbero tornati dopo aver messo d’accordo tutti quanti. Invece riferirono fedelmente ogni cosa ad Asprenate: egli diede subito ordine che la nave fosse abbordata e che il falso imperatore venisse ucciso qualunque fosse la sua identità. La testa, rimarchevole per gli occhi, i capelli e la ferocia del volto, fu portata in Asia e di lì a Roma (trad. G. D. Mazzoccato).
Chi scrive è un epigrafista, e ben conosce il peso delle parole iscritte sulla pietra e sul bronzo e la loro maggiore incisività rispetto a quelle alate (come diceva Omero) pronunciate a voce. Eppure non mi tolgo dalla mente che la damnatio memoriae, cioè la cancellazione materiale del nome dell’imperatore che Nerone subì per opera del senato, abbia in qualche modo contribuito ad accentuarne la fama per saecula saeculorum, positiva o negativa che fosse. Quelle epigrafi scalpellate, quelle statue occultate per nascondere le nefandezze del princeps (tutte vere? Molte sicuramente sì…) hanno fatto sì che il nome e l’immagine di Nerone covassero come fuoco sotto la cenere, e si alimentassero del fascino del proibito.
Se la creazione di un Nerone leggendario, incendiario e potenziale Anticristo, si nutriva soprattutto delle false accuse anti-cristiane dell’imperatore, il mito del Nerone redivivo si basava – anche – sull’assenza fisica, imposta per legge, del suo nome e delle sue pubbliche immagini: sottratta alla Storia la figura di Nerone divenne così una sorta di “maschera” metastorica, che qualche sovversivo senza scrupoli provò nel tempo a indossare.
E allora? “Bufala chiama bufala”, ma anche divieti e censure non le limitano… Che sia forse nel nostro, eterno, destino di ingannatori e di ingannati convivere con questo fenomeno? Bah, meglio che mi fermi qui: un’altra riflessione di questo tipo e qualcuno potrebbe affibbiarmi la qualifica di “filosofo” o “pensatore”: allora sì che il fake sarebbe grosso, oltre che ridicolo, e se Tacito fosse vivo non esiterebbe a usare ancora il termine ludibrium!