Esistono domande senza risposta?

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Il domandare è una delle più belle e complesse tra le attività umane. Esso vibra del desiderio della risposta, del timore che essa non sia, o che non sia quella attesa o sperata; talvolta però freme per la possibilità che la risposta sia proprio quella temuta. Anche quando il domandare viene espresso strategicamente in una studiata e ostentata indifferenza, esso è comunque rivelatore di un desiderio in atto.

Nel domandare l’uomo si mette in moto, utilizza le proprie risorse per andare oltre se stesso, per spingersi verso l’ignoto o l’obliato sulla base del disponibile, di ciò che è alla mano. Persino nel caso limite in cui il domandare è finzione retorica, il chiedere stabilisce attivamente un riferimento da cui partire verso altro. Con ciò sullo sfondo, si capisce che il quesito se esistano domande senza risposta è una metadomanda particolarmente grave, perché rende evidente che il domandare potrebbe restare frustrato e non per un fortuito, imprevedibile, caso. Il movimento del domandare potrebbe allora essere destinato a una non-meta, a un vagare sconclusionato e vano. Ma davvero vi sono domande senza risposta?

“La filosofia è domandare tutto, ch’è tutto domandare”, amava dire Marino Gentile. Si tratta di una definizione suggestiva che coglie un importante modo di essere della filosofia. Se però Gentile aveva ragione, il quesito sull’esistenza di domande senza risposta rappresenta una metadomanda che prospetta esiti drammatici per la filosofia. Se ci sono domande senza risposta e se la filosofia finisce col porne di centrali, essa è condannata all’inconcludenza. All’esito amaro che ce ne sono di domande senza Se ci sono domande senza risposta e se la filosofia finisce col porne di centrali, essa è condannata all’inconcludenza.risposta e che almeno alcune sono filosofiche giunge una lunga teoria di filosofi. Essa è aperta da Socrate e vede tra le sue schiere intere correnti come i relativisti, gli scettici, i nichilisti, i fautori del pensiero debole e nomi eccelsi, come quelli di Kant e Popper. Ad ogni modo, nonostante siano stati tanti e tanto autorevoli quelli che hanno risposto alla metadomanda, anche se negativamente, c’è voluto il neopositivismo logico per affrontare la questione di petto. Moritz Schlick, illustre esponente del neopositivismo, ha infatti scritto due saggi: Esistono domande senza risposta? e Domande senza risposta? Il primo dei due dà nome al libretto che li raccoglie in traduzione italiana, uscito di recente (trad. it. di N. Zippel e Prefazione di Roberta Lanfredini, Castelvecchi, Roma 2015).

Secondo Schlick interrogarsi sull’esistenza di domande senza risposta non sarebbe a sua volta senza risposta, perché trova numerose esemplificazioni. Egli per spiegarlo, svolge una vera e propria tassonomia del domandare. Schlick discute cioè una serie di tipi di domanda. Egli comincia col mostrare che una cosa è chiedersi quando finirà la crisi in corso (attendendo abbastanza, si avrà la risposta) e altra cosa chiedersi cosa fece Napoleone il 2 gennaio 1800 alle 17:32. Si tratta di un fatto, quest’ultimo, che resterà probabilmente senza risposta, se non salterà fuori un documento che ci informa sulla cosa.
L’impossibilità de facto di una risposta è un fattore contingente, come mostra il caso imprevisto e imprevedibile in cui salta fuori un documento capace di colmare il vuoto.Schlick chiarisce però subito che questa lacuna non è poi così drammatica: l’impossibilità de facto di una risposta è un fattore contingente, come mostra il caso imprevisto e imprevedibile in cui salta fuori un documento capace di colmare il vuoto. Anche cambiando ambito disciplinare, per esempio spostandoci dalla storia all’astronomia, questo secondo tipo di domande contingentemente insolubili possono essere tali in una determinata epoca, ma possono trovare risposte in un’epoca successiva, grazie al progresso del sapere. Ad esempio la domanda, insolubile in passato, sulla composizione di una stella è affrontabile oggi con successo, grazie alle analisi spettroscopiche.
Il discorso sembra però cambiare, sostiene Schlick, quando ci si imbatte in domande come: «L’universo è finito o infinito nello spazio e nel tempo?». In realtà, secondo l’autore, la scienza moderna è in grado di proporre “argomenti realmente definitivi” che l’universo “debba essere finito nello spazio, sebbene probabilmente non nel tempo” (p. 21). Perciò ci sono domande che in filosofia non troverebbero risposta, ma che la trovano o la potranno trovare nell’ambito della scienza.
Vi è, infine, un altro tipo di domande: le domande di cui la filosofia discute da sempre. Esse non sono solo de facto senza risposta. Le esemplificazioni che l’autore propone sono le seguenti: «ci sono due sostanze nel mondo, una fisica e una mentale?», «Qual è la loro interazione?», «Esiste qualcosa come la mente, o tutto deve essere spiegato nei termini della fisica? Esiste qualcosa come la materia, o tutto deve essere spiegato nei termini della mente?» e ancora: « Qual è l’essenza della realtà? Il mondo è essenzialmente mentale? Esso è costituito dalla mente, come pensava Berkeley, o dalla materia, come pensavano i materialisti, o è qualcosa che non può essere conosciuto, come la “cosa in sé” di Kant?» e, infine, «gli animali hanno coscienza? e gli altri uomini?» (pp. 21-24).
Da neopositivista, Schlick ritiene che tutti i quesiti che non possono trovare risposta a partire dal dato osservato, dall’esperienza, sono destinati per principio a restare senza risposta. Inutile obiettare che allora i quesiti della matematica, che dovrebbero essere insolubili, perché non trovano risposta nel dato, in realtà trovano risposte precise e rigorose. Egli infatti ribatte che la matematica e la logica non rientrano nel discorso, perché non parlano del mondo, e al massimo si possono applicare su di esso, cioè sono vuote, formali, non trasmettono conoscenza.

I problemi insolubili sono in linea di principio insolubili, perché in generale non sono dei problemi.A ben vedere, chiarisce Schlick, con un certo gusto per i colpi di scena, «i problemi insolubili sono in linea di principio insolubili, perché in generale non sono dei problemi» (p. 37). Insomma, nonostante quel che poteva sembrare in prima battuta, i neopositivisti non pensano davvero che vi siano domande intrinsecamente senza risposta: se qualcosa si presenta come una domanda insolubile, in realtà non è affatto una domanda, è solo all’apparenza tale. La questione così, più che risolta, è dissolta nell’acido dell’analisi logico-linguistica.

Il lavoro dei neopositivisti fa riflettere e brilla per chiarezza, ma sarebbe interessante esplorare molti punti che sono lasciati aperti da Schlick o che non trovano nelle sue pagine una soluzione soddisfacente. Un esempio di questione da lui lasciata aperta è il quesito se in matematica vi siano domande intrinsecamente senza risposta. Si tratta di una questione circa la quale il lavoro di Gödel ha molto da dire e che meriterebbe di essere svolta sistematicamente.
Un esempio di soluzione insoddisfacente nel lavoro di Schlick riguarda poi il fatto che bisognerebbe studiare il domandare filosofico nel suo complesso e discutere se, e fino a che punto, il suo restare senza aggancio esperienziale/osservativo compromette davvero la validità delle soluzioni offerte. Per fare un esempio, il fallibilismo nasce da una domanda intrinsecamente insolubile in epistemologia e di per sé non si giustifica sulla base di osservazioni; nondimeno è fecondo e di valore in filosofia. Sembra dunque che la soluzione neoempirista sia insoddisfacente e molto resti ancora da fare.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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