Elementare, Watson!

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Dettagli secondari presenti in un dipinto, sintomi medici e indizi polizieschi: che cosa possono avere in comune elementi a prima vista tanto lontani?

 

Sherlock Holmes, nell’Avventura della scatola di cartone (1892), indaga sul mistero di due orecchie tagliate e inviate per posta a Miss Susan Cushing. Le orecchie della vittima e quelle della donna presentano caratteristiche estremamente simili: sicuramente appartengono a qualche sua parente stretta. Infatti, come il noto detective spiega al suo fidato assistente Watson: “non esiste parte del corpo umano che offra varianti maggiori di un orecchio. Ciascun orecchio ha caratteristiche sue proprie e differisce da tutti gli altri”.
Sherlock Holmes non è l’unico, alla fine dell’Ottocento, ad attribuire importanza alla forma delle orecchie. Lo faceva anche lo storico dell’arte Giovanni Morelli, che, dall’esame dei più trascurabili dettagli come la forma delle orecchie o delle mani di una figura dipinta, risaliva al nome del pittore che aveva eseguito l’opera. Per Morelli, infatti, gli elementi secondari avrebbero potuto rivelare l’artista in caso di attribuzioni incerte, secondo la convinzione che la personalità di un autore emerge dove lo sforzo personale è meno intenso. Il metodo di Morelli, con la sua attenzione rivolta ai dettagli, può essere accostato al metodo indiziario che circa negli stessi anni Arthur Conan Doyle aveva attribuito alla sua creatura, Sherlock Holmes.
Nello stesso arco di tempo, Sigmund Freud analizzava i piccoli atti inconsapevoli sfuggiti al controllo dei suoi pazienti. Un sottile legame collegava Morelli a Freud. Il padre della psicanalisi, medico, conosceva e citava gli scritti di Morelli, che, fra l’altro, era laureato in medicina. Così come Conan Doyle aveva fatto il medico prima di dedicarsi alla letteratura.
In passato vari studiosi hanno colto le affinità fra questi metodi indiziari: Edgar Wind, Enrico Castelnuovo, Arnold Hauser, Steven Marcus. Ma è stato Carlo Ginzburg a riprenderle e approfondirle nel bellissimo saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario, pubblicato nel testo Miti emblemi spie del 1986.

 

Nel campo della storia dell’arte, il metodo criticato, ma molto seguito di Morelli getterà le basi dell’attribuzionismo. Grazie all’attribuzionismo, e al lavoro dei conoscitori, la storia dell’arte ha potuto fare decisivi passi avanti. Molte opere, infatti, ci sono giunte dal passato prive di documentazione, senza firma e senza data. La produzione di Giorgione, ad esempio, è basata su un numero estremamente limitato di dipinti certi. È qui che entra in gioco l’abilità del conoscitore, che cercherà di dare una “paternità” a quelle opere non ancora riconducibili alla produzione di un determinato artista, di un periodo o di un’area geografica. La formazione del conoscitore si compie addestrando la memoria visiva, guardando le opere, sfogliando i cataloghi, confrontando le fotografie, in modo da avere solidi punti di riferimento nel panorama storico-artistico. È una formazione lunga e paziente, che non può ovviamente prescindere dallo studio e dal confronto con le fonti d’archivio. Fra i grandi conoscitori del passato possiamo citare Bernard Berenson, Roberto Longhi, Federico Zeri.
L’artista, quindi, può essere “tradito” dai dettagli, come il criminale dalle impronte digitali. Ed è proprio nell’ultimo decennio dell’Ottocento che il britannico Francis Galton mise a punto un nuovo metodo, meno violento della mutilazione o della marchiatura, per identificare i condannati: le impronte digitali.
Tutti questi metodi, basati sull’importanza attribuita a dettagli apparentemente insignificanti, hanno radici ben più antiche. Si rifanno a un sapere di tipo venatorio: l’uomo cacciatore che, per procurarsi il cibo o difendersi, impara a riconoscere i movimenti degli animali dalle orme lasciate nel fango, dai rami spezzati lungo il cammino, dai ciuffi di pelo, dagli odori. Il cacciatore, come ci ricorda Ginzburg, dispone i dati raccolti secondo una sequenza narrativa: “qualcuno è passato di là”. Forse il cacciatore è stato il primo a raccontare una storia.

Per approfondire:
Carlo Ginzburg, Miti emblemi spie, Torino, Einaudi, 1986.

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Elena Franchi

È storica dell’arte, giornalista e membro di commissioni dell’International Council of Museums (ICOM).
Candidata nel 2009 all’Emmy Award, sezione “Research”, per il documentario americano “The Rape of Europa” (2006), dal 2017 al 2019 ha partecipato al progetto europeo “Transfer of Cultural Objects in the Alpe Adria Region in the 20th Century”.
Fra le sue pubblicazioni: “I viaggi dell’Assunta. La protezione del patrimonio artistico veneziano durante i conflitti mondiali”, Pisa, 2010; “Arte in assetto di guerra. Protezione e distruzione del patrimonio artistico a Pisa durante la Seconda guerra mondiale”, Pisa, 2006; il manuale scolastico “Educazione civica per l’arte. Il patrimonio culturale come bene dell’umanità”, Loescher-D’Anna, Torino 2021.
Ambiti di ricerca principali: protezione del patrimonio culturale nei conflitti (dalle guerre mondiali alle aree di crisi contemporanee); tutela e educazione al patrimonio; storia della divulgazione e della didattica della storia dell’arte; musei della scuola.

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