Non le vediamo. Ci dimentichiamo che siano vive. Non le comprendiamo fino in fondo. Parliamo di quelle che genericamente chiamiamo piante, finendo col creare una matassa di specie e diversità che continuiamo ad attorcigliare. Ed ecco che ci ritroviamo in mano un garbuglio indissolubile che pochi di noi saprebbero districare. Siamo cresciuti in questo modo, man mano che la tecnologia progrediva e il grigiore della città avanzava, il verde delle piante si riduceva sempre di più. Fino a essere ridotto ai minimi termini. Ci siamo dimenticati chi fossero e cosa facessero. Il tutto a nostro discapito.
Del resto, non c’è da stupirsene. Come afferma Stefano Mancuso, scienziato e professore all’Università di Firenze, le piante sono state spesso relegate agli ultimi gradini della piramide vivente. Un’immagine gerarchica che gli esseri umani hanno riproposto sovente nel corso dei secoli. Un esempio interessante è quello della Piramide dei viventi di Charles de Bovelles (dal Liber de Sapientiae, 1509). Il mondo Vegetabile, come si legge, viene posto appena al di sopra di quello minerale. Quest’ultimo, secondo la Piramide dei viventi, avrebbe come unica caratteristica quella di esistere (est), mentre le piante occuperebbero il gradino superiore perché esistono e sono vive (vivit), ma a differenza di animali ed esseri umani non godrebbero di capacità sensibili (sentit) e di intelletto (intelligit – esclusiva degli umani). Piante, quindi, viventi ma incapaci di sentire e percepire. Appena superiori al mondo minerale ma non paragonabili a quello animale e umano.
Qualcuno magari storcerà il naso di fronte a una simile classificazione e potrebbe far notare che ci siamo “evoluti” da tempo, abbandonato posizioni indifendibili. Nulla di più sbagliato: nel 1979, soli quarantatré anni fa, moriva James Gibson, eminente psicologo statunitense e figura di riferimento per molte discipline. Gibson affermò che le piante fossero prive di organi di senso, muscoli e incapaci di percepire l’ambiente. Per queste ragioni occorreva trattarle alla stregua del mondo inorganico minerale; come oggetti della fisica, della chimica e della geologia. Proprio così, le piante venivano declassate ancora una volta e in un certo modo finivano con l’occupare la stessa condizione delle pietre.
Per fortuna c’era anche chi, come il biologo Jakob Von Uexküll, autore del celebre libro Ambienti animali e ambienti umani, estendeva la capacità di percepire soggettivamente il proprio ambiente anche al mondo vegetale, concedendogli qualcosa in più dello status di vivente. Ma le piante, ancora oggi, rimangono un mistero per la maggior parte di noi. Dunque, se ci appaiono così distanti, che tipo di rapporto possiamo stabilirvi? Cosa ci possono insegnare?
Antropologia e mondo vegetale
Guardare al mondo vegetale, farsi ispirare, imparare da e con esso, è sempre un’ottima idea. E non dovrebbe neanche apparirci così assurda. Le piante abitano il pianeta Terra da molto più tempo degli esseri umani e, di certo, sono degli ospiti ben più attenti all’ambiente in cui vivono rispetto al più recente Homo sapiens. Inoltre, costituiscono più dell’85% della biomassa esistente (il peso della materia organica vivente). Perciò si può suggerire che lo stile di vita delle piante sia vincente e “sostenibile”, come diremmo oggi. Un modello da seguire e imitare, quando possibile.
Guardare alle piante potrebbe sembrare un’attività da biologi, botanici, giardinieri, ambientalisti, hobbisti della domenica, amanti della natura e così via. È corretto: tutti questi profili, professionisti e non, fanno certamente parte dell’insieme di coloro che studiano e amano a vario modo le piante. C’è chi ne ha fatto la propria professione e chi invece vi si dedica saltuariamente, magari creando il proprio erbario artistico o coltivando qualche affascinante pianta ornamentale sul balcone. C’è un’altra categoria però, ancora abbastanza nebulosa agli occhi di molti, che potrebbe dare grandi soddisfazioni nel rapportarsi con le piante, mostrandone i benefici e i punti di vista: gli antropologi.
L’antropologia è una disciplina nata nel corso dell’Ottocento ed è cambiata molto negli anni. Si è espansa, condensata, frammentata, ha subito infinite variazioni, vivendo di confronti e scontri, come accade alla maggior parte delle discipline. Letteralmente il nome deriva da anthropos logos, ossia discorso o studio dell’uomo. Proprio per questo per molto tempo ha ritenuto che il suo oggetto di studio fosse la varietà delle culture umane: spesso in riferimento a popoli lontani geograficamente e culturalmente dall’Occidente.
Su che cosa sia effettivamente la cultura per gli antropologi si potrebbe dibattere all’infinito e non saremmo comunque capaci di uscirne fuori indenni. Ma non è questo ciò di cui occorre parlare in questo momento. Negli ultimi anni questa disciplina ha effettuato un passaggio importante, avvicinandosi e confrontandosi non solo con gli altri esseri umani, ma anche con i non-umani. Ha interagito con animali, batteri, cose, oggetti, fenomeni atmosferici e anche con le piante. Dall’incontro tra antropologi e non-umani sono emersi molti spunti interessanti, capaci di suggerire modi diversi di essere nel mondo e di rapportarsi con esso e con le altre specie viventi. Sono stati adottati altri sguardi (non-umani) per porre alcune domande piuttosto incalzanti sulla nostra epoca, l’Antropocene, che richiede riflessioni e azioni sempre più urgenti. È apparso evidente come anche gli antropologi possano dare il proprio contributo nel parlare di specie non-umane e con esse, in particolare col mondo vegetale.
Ma se le piante sono una fonte di ispirazione e l’antropologia un terreno di incontro, che cosa può scaturire dal dialogo tra questi due mondi?
Antropologia come educazione e piante educanti
L’epoca che stiamo vivendo, l’Antropocene (l’International Union of Geological Sciences – l’ente che stabilisce a livello internazionale la denominazione delle epoche geologiche – non ha ancora riconosciuto formalmente tale definizione, ma è comunemente accettata), è caratterizzata da numerose crisi. In primis quella ambientale e climatica, ma anche sociale, economica e quella sanitaria, che percepiamo con maggiore evidenza. Tali crisi, in particolare quella ambientale, richiedono nuovi modi di abitare il mondo e di vivere con l’Altro. Dunque non è sbagliato pensare che occorrano altre forme di comunicazione e di educazione verso questo scopo.
Tim Ingold, Professore di Antropologia all’Università di Aberdeen, basandosi sul lavoro del filoso dell’educazione Jan Masschelein, propone un nuovo significato del concetto di educazione, che potrebbe fare al caso nostro. Di fianco al senso tradizionale di “instillare conoscenze e modelli” nella mente, che deriverebbe dal verbo latino educare, ne pone un altro: quello di ex-ducere, “condurre fuori”, nel mondo. In questo senso l’educazione diventerebbe un percorso di emersione e di conduzione nel mondo del discente per come si presenta all’esperienza. Il discente rimane esposto al mondo e presta attenzione a ciò che sta per essere, lasciandosi stupire in un certo senso. Questo tipo di educazione, che Masschelein chiama “pedagogia povera”, prevede che non ci siano metodi e conoscenze da trasmettere, come accade invece nella metodologia tradizionale, ma richiede una pratica di attenzione (nel senso di cura) e di attesa per ciò che verrà, per l’esperienza. È una pratica di movimento, di flusso, che porta a essere “presenti nel presente”, che è ciò di cui abbiamo bisogno in un’epoca di emergenze come l’Antropocene.
Che cosa ha a che fare tutto questo con le piante?
Verdi pratiche di emersione
Un processo, come quello della pedagogia povera, può essere realizzato anche da chi ha minime conoscenze relativamente a un argomento. Anzi, forse in alcuni casi è persino preferibile, poiché non si rischia di rimanere ingabbiati e influenzati dalle proprie nozioni pregresse. Come dicevamo all’inizio, la stragrande maggioranza di noi ha ben poche conoscenze del mondo vegetale. Ciò implica che una pedagogia povera potrebbe relazionarsi bene con l’intenzione di lasciarsi ispirare dalle piante, per immaginare nuovi modi di abitare il mondo e di vivere con l’Altro.
Quando ci si apre al mondo vegetale, almeno per quanto riguarda la mia personale esperienza, accade esattamente quel processo di emersione e attenzione verso ciò che sta per essere esperito. È un flusso continuo di attesa e cura verso il mondo e, di conseguenza, di stupore. Vedere con i propri occhi che alcune piante intrattengono cure parentali, analizzano l’ambiente per individuare il sostegno più vicino per arrampicarsi, escogitano modi per difendersi assoldando formiche (mirmecofilia) o mettendo in atto avanzatissime forme di mimetismo (Boquilla trifoliata), creano fitte e complesse reti di comunicazione e scambio tra radici e funghi (Wood Wide Web) e molto altro ancora, significa esporsi ed essere condotti fuori, nel mondo, proprio come avviene per la pedagogia povera. Questo processo non può che lasciare segni e tracce che ci spingono a essere presenti nell’Antropocene e a stare nel mondo, con l’Altro, in modi diversi.
Oggi l’antropologia può tentare di perseguire questo obiettivo. Inoltre, intendere la pratica antropologica in questi termini, come educazione nel significato sin qui descritto, può avere importanti implicazioni se questo processo viene accolto e affiancato al metodo tradizionale in ambiente scolastico. In definitiva, l’antropologia come educazione e il mondo vegetale possono stringere relazioni di incontro prolifiche e vitali. Del resto oggi, come direbbe Donna Haraway, urge tessere relazioni e stringere parentele, umane e non umane, per vivere su questo pianeta infetto e uscire dall’Antropocene.
Bibliografia
D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it. di C. Durastanti e C. Ciccioni, Produzioni Nero, Roma 2019.
T. Ingold, Antropologia come educazione, trad. it. di L. Donat, Edizioni La Linea, Bologna 2019.
T. Ingold, Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, trad. it. di D. Cavallini, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2020.
S. Mancuso, Plant Revolution, Giunti, Firenze-Milano 2017.
J. Masschelein, E-ducating the gaze: the idea of a poor pedagogy, «Ethics and Education», 5:1, 2010, pp. 43-53.
J. V. Uexkull, Ambienti animali e ambienti umani, Quodlibet, Macerata 2010.