Nel Quattrocento italiano si sviluppa una nuova e diffusa sensibilità culturale, che, pur basandosi sulla cultura medievale, la supera con uno slancio tale da far considerare, per la storiografia italiana, i decenni tra il XV e il XVI secolo una netta cesura. Il termine stesso di Rinascimento indica un nuovo inizio, una rinascita. Sebbene tale periodizzazione sia da considerarsi puramente convenzionale, è innegabile che un diverso approccio influenza molte espressioni culturali, soprattutto grazie alla riscoperta di testi antichi che hanno restituito una visione più profonda e dettagliata della classicità romana e greca. Una riflessione guidata da tale diversa sensibilità investe anche il pensiero pedagogico medievale che ne risulta profondamente rinnovato, tanto che Eugenio Garin, in una sua opera del 1963, nell’intitolare il capitolo dedicato alle nuove correnti educative e alle scuole del Rinascimento italiano, non esita a ricorrere alla locuzione “nuova educazione”1.
Tra i protagonisti di questo ambiente culturale c’è sicuramente il senese Enea Silvio Piccolomini che, nato nel 14052, diventerà papa con il nome di Pio II nel 14583. Nel 1450, l’umanista toscano, allora vescovo di Trento, scrisse un testo intitolato De liberorum educatione (tradotto in italiano come Trattato dell’educazione dei figli nel noto volume a cura di Eugenio Garin, Il pensiero pedagogico dell’Umanesimo) dedicato al giovane Ladislao, figlio nato postumo del re di Boemia Alberto II, al tempo sotto la tutela dell’imperatore Federico III4. L’opera, scritta come una lunga lettera in cui il Piccolomini si rivolge direttamente a Ladislao il Postumo, non nasce come un libro destinato allo studio, ma come una guida per il re decenne e per i suoi maestri, un percorso scolastico e umano proposto per l’educazione e la crescita morale e politica di un buon regnante.
Il Trattato, nell’edizione sopra citata, è diviso in 40 sezioni: un lungo prologo che si conclude con un saluto e 39 capitoli dedicati ognuno ad un aspetto dell’educazione del re che si concludono con un altro commiato che sancisce la forma epistolografica del testo. Nella politica dell’opera i riferimenti alla corporeità e all’educazione del fisico hanno un ruolo per nulla secondario. A vari aspetti della cura del corpo sono dedicati cinque capitoli proprio all’inizio del testo: si tratta dei capitoli che vanno dal terzo al settimo. Questo significa che, nel pensiero di Piccolomini, non si può procedere a una corretta educazione grammaticale, retorica, letteraria, poetica, civile e politica senza prima assicurarsi che il futuro regnante abbia un fisico sano e adatto al suo ruolo e che per questi la cura del corpo, attraverso una dieta corretta ed un opportuno esercizio, rientri tra i costumi di vita più profondamente interiorizzati.
Il primo di questi capitoli è intitolato Della cura del corpo; come si debbano nutrire i fanciulli. In apertura della trattazione il Piccolomini espone alcune questioni generali che poi verranno approfondite in seguito. L’autore ammonisce poi gli educatori (governatori, maestri, medici) contro l’indulgenza e l’eccesso di comodità che ne deriva. Una parte del capitolo è dedicata alla compostezza del viso e delle membra, compostezza che deve dare un’immagine del sovrano, sebbene bambino, sempre dignitosa: «il decoro dunque, va sempre mantenuto, nei movimenti e da fermi»5. Tale atteggiamento di contegno è definito da Piccolomini, sulla scorta di Platone, «tra i comportamenti civili»6 (in parte civilium actionum). Un gruppo di maestri specializzati nella cura del corpo dovranno, secondo il futuro papa, prendersi cura del fisico del principe badando «a conferire alle membra opportuna armonia e al tempo stesso robustezza»7. Un sovrano dovrà essere in grado di resistere alle difficoltà della guerra e della scomoda vita che si svolge negli alloggiamenti militari, quindi deve simulare la battaglia con esercizi opportuni ed abituarsi a vivere anche in modo spartano. Ben visti dal Piccolomini sono esercizi quali la caccia, anch’essa simulazione dello scontro militare, il tiro con l’arco e con la fionda, il lancio dell’asta, l’equitazione, la corsa, il salto e il nuoto. In generale sono accettabili tutte quelle attività che sono da considerarsi decorose.
Accanto a esercizi propedeutici alla vita militare, l’autore considera alcuni giochi infantili, come la palla e il cerchio assolutamente non disdicevoli, anzi utili, perché «non bisogna attendere di continuo alle lettere e a cose troppo serie»8.
I tre capitoli successivi sono dedicati alla dieta, facendo riferimento in quello centrale, ai differenti usi e abitudini che vigono in Italia e Germania. Il primo è dedicato a Quali cibi e quali bevande convengono ai ragazzi e consiglia ai responsabili della dieta di Ladislao di evitare cibi pesanti, per non compromettere la capacità di concentrazione nello studio del fanciullo, così come quelli troppo ricercati perché, quando in futuro si troverà lontano dalla città se non addirittura in un accampamento militare, non rifiuti cibo più frugale. Riguardo il secondo capitolo di questo gruppo, il Piccolomini si dichiara consapevole che i consigli ivi contenuti saranno poco graditi ai sudditi di Ladislao. L’autore consiglia una dieta più vicina a quella italiana, moderata ed equilibrata, a differenza di quella boema, ungherese e tedesca che ricerca, a causa del clima più rigido, cibi grassi e non disdegna l’eccesso nel vino. Il primo modello da imitare, in una lunga lista di filosofi e imperatori dell’antichità, è il cugino di Ladislao: il sacro romano imperatore Federico III che «non si rimpinza né di vino né di cibo; pranza modestamente, cena anche più modestamente»9. La condanna agli eccessi alimentari ha per Enea Silvio Piccolomini una dimensione morale, comune a qualunque altro tipo di eccesso che è antitetico all’equilibrio e alla moderazione che devono caratterizzare un re nei suoi comportamenti pubblici e privati, e una dimensione più concretamente legata alla salute dell’organismo.
Le stesse motivazioni sono alla base del sesto capitolo dedicato al vino e all’assoluto divieto di somministrarlo ai fanciulli. Simili usanze, infatti, trovano, scrive l’autore, riscontro nelle tradizioni mitteleuropee, ma sono assolutamente dannose. Anche durante l’adolescenza e in età adulta, secondo il Piccolomini, la moderazione è la scelta migliore, da considerarsi addirittura preferibile all’astinenza assoluta. Alla stessa stregua bisogna comportarsi con tutti gli altri piaceri corporei, tema del settimo ed ultimo capitolo che si concentra sulla salute fisica dei giovani. L’umanista scrive che «l’anima deve valersi del corpo come strumento», quindi questo come ogni strumento deve essere “perfezionato” e “messo a punto”: «esso va tenuto a freno; bisogna contenerne e moderarne gli impeti, come se si trattasse di un’immane belva, e impedirne, con la guida della ragione, i temerari moti contro l’anima»10.
Il pensiero pedagogico del Piccolomini si inserisce in un dibattito e in una prassi educativa che, nel 1450, quando viene redatto il Trattato, già da diversi decenni ha visto svilupparsi le esperienze di Vittorino da Feltre a Mantova e Guarino da Verona a Ferrara: esperienze di educazione principesca che si estendono anche al patriziato locale, superando occasionalmente le barriere di ceto o genere e accogliendo anche studenti forestieri, per formare, insieme al principe, una classe dirigente preparata da un punto di vista culturale, civile e politico. L’esercizio fisico gioca un ruolo importantissimo in tutte queste esperienze educative concrete e testimoniate da numerose fonti narrative ed epistolografiche. La compostezza e il controllo del proprio corpo sono considerati parte integrante della formazione di un nobile e di un buon cittadino che, ad imitazione del civis romano idealizzato che segue il mos maiorum, è in grado di reggere la cosa pubblica e, all’occorrenza, di prendere le armi. Il trattato del futuro Pio II propone il controllo del corpo come preliminare all’educazione della mente, un primo passo verso l’interiorizzazione di un costume di vita (mos, habitus) equilibrato e giusto che dal re, secondo un’altra convinzione diffusa tra i pedagogisti rinascimentali e di enorme fortuna per tutto l’Antico Regime, si riverbera su tutto lo Stato e sul suo popolo.
NOTE
1. E. Garin, La cultura del Rinascimento, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1967, pubblicato originariamente in tedesco nel 1963; in particolare pp. 71-92.
2. M. Pellegrini, Pio II, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2015, ad vocem.
3. Sul suo papato rimando a B. Baldi, Pio II e le trasformazioni dell’Europa cristiana (1457-1464), Unicopli, Milano 2006.4. La traduzione di riferimento è in E. Garin, a cura di, Il pensiero pedagogico dello umanesimo, Giuntine-Sansoni, Firenze 1958, pp. 199-295. Sul trattato si veda anche il più recente C. Terreaux-Scotto, «L’éducation du prince dans le Tractatus de liberorum educatione», Cahiers d’études italiennes [online], 13 (2011), messo online il 15 aprile 2013, ultimo accesso il 22 febbraio 2018. URL: http://cei.revues.org/79.
5. E. Garin, Il pensiero pedagogico, pp. 209-211.
6. Ivi, p. 211.
7. Ibidem.
8. Ibidem.
9. Ivi, p. 215.
10. Ivi, p. 219.