Il titolo mi era stato segnalato come un noir davvero avvincente, nel quale la poliziotta parigina Roxane Montchrestien – capitana in una fase non certo brillante della sua carriera – si trova a indagare (più o meno legalmente) su un caso con numerosi risvolti, per così dire, “irrazionali”: una donna ripescata viva dalla Senna sembrerebbe essere in realtà (dagli esami del DNA e da altre prove) Milena Bergman, pianista però già morta in un incidente aereo.
La poliziotta Roxane e la sconosciuta della Senna
La prima parte è effettivamente molto coinvolgente, anche dal punto di vista emotivo, soprattutto per l’incrocio di queste due figure femminili. Da un lato la poliziotta, costretta dai guai combinati in passato a svolgere funzioni pressoché inutili, cerca un riscatto proprio in questa indagine; dall’altro, la “sconosciuta” le sfugge, con tutto il carico di ambiguità della sua paradossale condizione. La trama del romanzo, però, si avviluppa poi in forme un po’ confuse e la conclusione – alla quale ovviamente non accenno neppure – si realizza con un progressivo (ed eccessivo) indebolimento della figura di Roxane, che era invece il vero perno della vicenda. Nel complesso – devo dirlo con franchezza – sono rimasto un po’ deluso da quello che avrebbe dovuto essere un piccolo capolavoro di un maestro del genere.
È però vero che questo libro contiene alcuni elementi che alludono, più o meno direttamente, alla letteratura e alla civiltà classica, e ciò è comunque di un qualche interesse per un amante del mondo antico come me.
L’orologio come strumento di agnizione
Un primo elemento è un espediente caro alla commedia greca e latina, ma anche al romanzo antico: è quello dell’oggetto che può consentire l’agnizione di un personaggio, che in questo caso si identifica in un prezioso orologio. Sì, gli “sconosciuti” e le “sconosciute” erano spesso “riconosciuti”, nelle trame antiche, da braccialetti, orecchini, piccoli amuleti etc.; a essi – come dicevo – in questo romanzo si sostituisce un orologio che reca incisa una citazione tratta da una lettera di Kafka a Felice Bauer, cioè: «You are at once both the quiet and the confusion of my heart». Si tratta di un elemento indubbiamente raffinato e ben gestito dal romanziere francese, il quale invece – a mio avviso – se la cava un po’ meno bene in relazione a un’altra e ben più importante tematica, e cioè il recupero del dionisismo (cioè del culto irrazionale, orgiastico, inebriante…) nella cultura e nella società contemporanea.
Teatro antico e delitti moderni
La storia della “sconosciuta”, infatti, è contrassegnata proprio dall’anacronistica devozione al dio greco-romano dell’ebbrezza, il cui culto è – nel corso del romanzo – la causa scatenante di alcuni atti violenti e addirittura di qualche omicidio. Di questa nefasta influenza già si era accorto Marc Bataielly, ispettore di polizia che durante le vicende del romanzo lotta tra la vita e la morte; ma che nei mesi precedenti si era fatto una cultura sul teatro antico e i riti dionisiaci a questo connessi, saccheggiando le librerie parigine di testi specialistici, attività che Roxane continua con scrupolo. L’idea potrebbe non essere male, lo ammetto. La resa letteraria non è però – a mio avviso – sempre ben riuscita, anche perché l’autore è costretto a qualche macchinoso accorgimento per informare il lettore (non necessariamente un grecista!) su alcuni aspetti del culto di Dioniso, il suo legame con il teatro attico, e la componente orgiastica (talora anche violenta) dei sacrifici che questo comportava, a principiare dall’uccisione del capro tradizionalmente connessa all’origine della tragedia. Il tutto finalizzato a dimostrare la commistione (e confusione) tra realtà e illusione, tra mondo e teatro, dove molti personaggi agiscono – la citazione è sua – da «burattini di Dioniso».
Un prodotto eterogeneo
Insomma, sarò forse un po’ “sempliciotto”, ma mi pare che questi eccessi di intellettualismo non giovino al ritmo narrativo, e questa mia idea sembra condivisa dai fan di Musso, dei quali (rigorosamente dopo avere letto il romanzo!) ho voluto vedere le “recensioni” su alcune librerie online. Non sono pochi, infatti, quelli che lamentano il fatto che il giallo – pur coltissimo (o forse proprio per questo) – sia eccessivamente eterogeneo poiché contiene «troppo di tutto» e che il suo finale sia quasi irrisolto, lasciando a chi legge un senso di incompiutezza.
Dov’è finita Roxane?
Probabilmente condizionato dalle idee espresse nel capitolo 11 dei Promessi sposi, laddove Manzoni paragona il rapporto tra l’autore e i suoi personaggi alla funzione di un pastore di porcellini d’India che deve occuparsi di condurli tutti verso il covile, anch’io ho respirato nel finale questa sensazione di “non finito”. Sicuramente si tratta di una scelta legittima del romanziere, ma – lo ripeto – mi è particolarmente spiaciuto che nelle ultime pagine si siano un po’ perse le tracce del capitano Roxane Montchrestien, poliziotta dal cattivo carattere e dai modi bruschi, per la quale però non si può che simpatizzare, anche perché le sue acutezza e intelligenza spiccano se messe a confronto con una certa indolenza dei suoi colleghi; mi sarebbe piaciuto saperne un po’ di più del suo destino (magari in un prossimo romanzo?), vedere in quale “covile” (scusate l’abuso della metafora manzoniana…) si sarebbe riparata dai mille guai della sua esistenza, forse perché affascinato dal suo nome, ancora una volta evocativo dell’antichità: Roxane, infatti, era la bellissima sposa battriana di Alessandro Magno.