Il 2016 è stato l’anno della riflessione: dall’elezione di Donald Trump e dalla Brexit alla rivincita dei ricchi nel mondo già sviluppato. Il 2017 è stato l’anno del meteo imprevedibile: il cambiamento climatico come vendetta, per il fatto che siamo vicini a superare i confini planetari a causa della crescita economica, la quale ha sì dato molto ad alcuni, ma con ricadute ambientali enormi.
Il 2018 è l’anno della rivolta dei già ricchi e dei più poveri, dalle strade di Parigi a Delhi. Dobbiamo capire queste proteste per vedere come sono collegate, unite contro l’attuale ordine economico ed ecologico. Dobbiamo capirle per lavorare per il cambiamento. Adesso.
Ai gilet gialli per le strade di Parigi, con le loro manifestazioni di una violenza raramente vista in Occidente, è attribuita la protesta contro gli sforzi del governo francese per combattere il cambiamento climatico aumentando i prezzi del carburante. Il loro messaggio al presidente Emmanuel Macron è che se tu sei preoccupato per la fine del mondo, noi siamo preoccupati per la fine della settimana. L’aumento del prezzo del carburante è diventato un potente simbolo della loro rabbia contro l’aumento dei costi, delle tasse e della disoccupazione. Nel loro orizzonte, i piani del Presidente per ridurre le emissioni sembrano lontani e senza alcun contatto con la realtà.
Un pensiero inquietante in un mondo che sta esaurendo il tempo per ridurre le emissioni di gas serra (GHG) o per affrontarne le Se tu sei preoccupato per la fine del mondo, noi siamo preoccupati per la fine della settimana, dicono i gilet jaunes a Macron.catastrofiche conseguenze. Il report speciale Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Global Warming of 1.5 °C ci dice senza mezzi termini che l’inizio della fine è qui, a meno che non reinventiamo drasticamente il nostro sistema energetico.
Ma la cosa ancora più importante, dato che un gran numero di persone nel mondo non ha nemmeno accesso all’energia, è che i ricchi devono fare di più per ridurre i consumi, per creare uno spazio ecologico di crescita per i poveri e per fornire i mezzi affinché questa crescita avvenga senza l’uso dei combustibili fossili. Questa è la sfida.
Il governo francese ha costretto i propri cittadini a una posizione antagonista nei confronti dell’enorme sfida dei cambiamenti climatici: come a contrapporre le ragioni dell’ambizione e il bisogno di equità. Ciò è nefasto, poiché fornisce argomenti a Trump e alla sua tirata contro gli accordi sul clima, che lui definisce fondamentalmente sbagliati in quanto danno soldi a «paesi del terzo mondo che sono governati in modo discutibile».
Il problema è che, per quanto il mondo abbia bisogno di equità negli accordi globali, deve anche affrontare la questione dell’equità in ciascun Paese. La protesta francese non è contro il povero indiano o bengalese: è contro l’incapacità del proprio governo di costruire un modello economico che soddisfi i bisogni (se non le aspirazioni) di tutti.
Consideriamo la questione dell’odiata e ora rimandata imposta sul carburante. La Francia deve fare molto di più per ridurre l’uso di benzina e diesel nei trasporti, questo è un fatto. Si parla molto di come Parigi abbia cambiato i suoi modelli di mobilità facendo in modo che più persone vadano a piedi, in bici o in autobus, ma a ben guardare questi cambiamenti non sono così visibili nella realtà dei fatti. IL’azione, nazionale e globale, deve essere inclusiva. Deve essere giusta. Non può colpire i più poveri, quelli senza le risorse persino per cucinare il cibo. Non può nemmeno colpire i poveri del mondo ricco.dati dicono che in Francia oltre l’80% delle persone si sposta per lavoro in auto; treni e autobus rappresentano ancora una piccola parte del trasporto passeggeri. In questo Paese, dove l’energia elettrica proviene in gran parte dal nucleare – più pulita dal punto di vista di emissioni di gas serra – è il settore dei trasporti che ha bisogno di urgenti riforme. Eppure, invece di migliorare il sistema di infrastrutture per il trasporto di massa, l’attuale governo francese ha ora intenzione di riformare la sua rete ferroviaria, che è di proprietà pubblica e in grave perdita. Di conseguenza, sta lavorando per ridurre il personale e ha tagliato le tratte non redditizie, colpendo le persone due volte. Non stupisce quindi che siano scesi in piazza contro il “Presidente dei ricchi”, come chiamano Macron.
Non è questa la soluzione al problema del cambiamento climatico, e infatti si sta chiaramente ritorcendo contro i governi, che sono cauti nel prendere provvedimenti drastici o scomodi proprio nel momento in cui servirebbero interventi ancora più drastici. Quello che è chiaro è che l’azione, nazionale e globale, deve essere inclusiva. Deve essere giusta. Non può colpire i più poveri, quelli senza le risorse persino per cucinare il cibo. Non può nemmeno colpire i poveri del mondo ricco, quelli senza alternative economiche alle automobili. L’azione contro il cambiamento climatico non funzionerà a meno che non funzioni per tutti.
Questo è chiaro anche da noi, nel nostro mondo – l’altro mondo. Qui, a prima vista, la crisi più immediata non è il cambiamento climatico, ma il bisogno di crescita economica per far fronte alla povertà massacrante e a crescenti tossicità e inquinamento della nostra Terra, dei nostri fiumi e dell’aria. La sfida ambientale locale dovrebbe costringerci a ripensare la crescita economica. Allo stesso modo, la sfida della sopravvivenza – gli agricoltori in difficoltà e il bisogno di occupazione – dovrebbe costringerci a ripensare gli attuali metodi di gestione delle economie, che non funzionano nemmeno per i ricchi. Eppure noi non lo facciamo. Perché? Perché stiamo correndo per recuperare la distanza (dal “primo mondo”, N.d.T.): le nostre città diventeranno pulite e il nostro popolo ricco, è solo questione di tempo. È una scala che porta al paradiso della crescita dei consumatori, e noi siamo già a buon punto. Cammin facendo proveremo a fare le cose in modo un po’ diverso, ad esempio investendo di più in energie rinnovabili, ma nel complesso, si tratta solo di fare di più ciò che stiamo già facendo. Investiamo per migliorare l’economia “formale”, l’insieme di attività ben consolidate che funziona secondo le regole del gioco già stabilite.
Ma dato che l’economia formale opera in un mondo globalizzato, se questo modello di crescita non funziona per i ricchi o per l’ambiente dei ricchi, come possiamo pensare che funzioni per l’India, dove c’è tantissima forza lavoro e scarse risorse per affrontare le ricadute ambientali di questa crescita?
Quest’anno è stato contrassegnato dal richiamo al protezionismo da parte del Paese più potente. Il Paese che aveva invocato la globalizzazione e spinto il mondo a fare le regole per un’economia libera integrata. Oggi gli Stati Uniti rifiutano le regole del libero mercato, perché dicono che non ne stanno beneficiando, mentre paesi come la Cina o il Canada invece sì. Gli americani non trovano lavoro, anche perché durante il boom della globalizzazione sono stati abbandonati più o meno consapevolmente molti mestieri e Il mercato cerca mete più economiche per produrre beni o servizi: è così che noi consumatori traiamo beneficio ed è così che gli affari prosperano. Ma mantenere bassi i costi ha un costo.professioni. È la stessa globalizzazione che non sta funzionando nemmeno per l’ambiente. Il mercato cerca mete più economiche per produrre beni o servizi: è così che noi consumatori traiamo beneficio ed è così che gli affari prosperano. Ma mantenere bassi i costi ha un costo, il costo della protezione ambientale o il costo della manodopera e del suo benessere: nell’era della globalizzazione, è il prezzo che accettiamo di pagare. È altrettanto certo ora che i Paesi occidentali – quelli che avevano bisogno di ridurre le emissioni di gas serra – sono riusciti a mostrarsi più virtuosi solo perché hanno esportato le loro industrie manifatturiere in altre parti del mondo, principalmente in Cina. Quindi, non c’è riduzione del consumo o riduzione delle emissioni, c’è un cambiamento del luogo in cui viene generata l’emissione.
Dunque la domanda per un Paese come l’India è: qual è la strada da percorrere? Possiamo seguire il sentiero battuto o dovremo inventarci una nuova via? Al momento, non sembra esserci questa grande voglia di reinvenzione, ma io sono convinta che debba diventare l’obiettivo principale in agenda per gli anni a venire.
Sostenibilità e legalità
Prendiamo il caso della crisi agraria, oggi in cima alla lista delle nostre preoccupazioni. Nelle elezioni statali, i cui risultati sono arrivati nel dicembre 2018, il problema degli agricoltori è esploso. È chiaro che qualunque cosa il governo, passato e attuale, abbia fatto, non ha funzionato. I contadini indiani sono stretti in una tenaglia: da un lato, produrre il cibo che coltivano costa di più, anche a causa dell’esaurimento di risorse come l’acqua o il suolo, e per via dei maggiori rischi derivanti da un tempo atmosferico imprevedibile e talvolta estremo; dall’altra parte, i governi hanno bisogno di cibo più economico per contenere l’inflazione. Devono tenere sotto controllo i costi; si investe poco in infrastrutture per fornire reali benefici o supporto ai produttori. Inoltre c’è anche la forte convinzione – derivante da un lessico economico ben consolidato – che l’agricoltura sia poco o affatto produttiva, e che debba essere messa da parte. Ci sono troppi indiani coinvolti in questo “business”, dicono, non lo si può far funzionare.
Ma qui entriamo nel regno dell’incertezza: da questo momento in poi ci sono solo domande, e non risposte. Se non sarà l’agricoltura a fornire lavoro, quale attività lo farà? L’economia formale che vogliamo così disperatamente adottare fa bene a tutto tranne che all’occupazione, lo sappiamo. Dobbiamo anche riconoscere però il volto urbano di questa crisi agricola. Se oggi la Terra, l’acqua o le Se oggi la Terra, l’acqua o le foreste non hanno un futuro, le persone non potranno fare altro che migrare.foreste non hanno un futuro, le persone non potranno fare altro che migrare. Questa migrazione li porterà nelle città, dove crescerà la crisi dei servizi e dell’inquinamento. La crescita urbana di oggi non è nelle aree “legali”, dove gli alloggi e le strutture commerciali sono gestite dal governo alla luce del sole: è evidente che le città stanno implodendo nelle aree illegali, dove gli affari e gli alloggi sono tutti senza permessi o autorizzazioni ufficiali, nemmeno sulla carta. L’aspetto ironico è che, mentre il governo si dà da fare per formalizzare l’economia indiana, le contingenze costringono le persone a fare affari illegali e informali.
Lo stesso vale per la protezione dell’ambiente. Per quanto ci riguarda, non possiamo esportare in un altro Paese i nostri costi ambientali, ma lo facciamo lo stesso, al di fuori del business formale, dalle aree industriali formali verso gli agglomerati residenziali non autorizzati e fuori dai confini della legalità. Ora le aziende inquinano, ma lo fanno fuori dalla portata dei legislatori. Si fa in nero. Il costo della regolamentazione è ciò che rende costosa l’amministrazione: un Paese come l’India non se la può permettere. Quindi, l’inquinamento cresce. E crescono le malattie.
Speriamo che il 2019 diventi l’anno della consapevolezza che il cambiamento deve avvenire nel modo in cui concepiamo il modo di fare profitto, e deve garantire che la crescita sia equa, e quindi sostenibile.
Questo articolo è stato pubblicato inizialmente sul report annuale «State of India’s Environment 2019» e successivamente online sul sito “Down to Earth”. © Copyright Down To Earth 2019. Tutti i diritti riservati. Traduzione di Alessandra Nesti.