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Il grande storico militare Yann Le Bohec mi ha più volte invitato come relatore ai suoi convegni tenuti a Lione sull’esercito romano. Probabilmente lo ha fatto perché io – che storico militare non sono mai stato, ma ho scritto spesso dei soldati come persone – potevo garantire un punto di vista più “sociale” e meno “bellico” rispetto agli altri presenti, super esperti di armi, tattiche e strategie. Insomma: ci voleva forse uno come me, che ha svolto il servizio di leva obbligatorio come pacifico addetto alla fotocopiatrice, per parlare dell’amicizia tra soldati, cioè l’unico rapporto «non gerarchico» tra i militari di ogni tempo, in un congresso dedicato proprio alla «gerarchia»1!
Errori e orrori della guerra antica
Così, dopo che la redazione della nostra rivista ha scelto per questo numero l’argomento della «guerra», ho pensato di avvicinarmi al tema in una chiave particolare. Perché se è pur vero che i Greci, ma soprattutto i Romani, hanno largamente coltivato la guerra come valore (oltre che come necessità storica) e che il mondo classico non conosce un pacifismo, per così dire, ideologico, è altrettanto vero che non mancano testimonianze di come questa abbia condotto a errori e orrori2. Proprio di ciò vorrei trattare, e dunque più di sconfitte che di vittorie, più di anti-eroi che di eroi, con il pensiero che corre subito ad Archiloco (VII sec. a.C.), poi emulato da Orazio (Odi, II, 7), che non prova vergogna ad aver perso lo scudo in battaglia per salvare le penne, affermando: «Lo scudo? Al diavolo! Uno più bello me ne rifarò» (fr. 6 Diehl, trad. F. Maria Pontani)3.
Prima di arrivare al mondo romano, ambito che mi è più familiare, vorrei trattare brevemente di due aspetti della Guerra del Peloponneso, che vide Atene e Sparta fronteggiarsi per quasi trent’anni (431-404 a.C.)
Il pacifismo non ideologico di Aristofane
Aveva proprio ragione il filosofo Eraclito (VI-V sec. a.C.) quando scriveva: «Il conflitto (pólemos) è padre di tutte le cose e di tutte è re: e gli uni fece dèi, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi» (fr. 53 Diels-Kranz = 14 Diano, trad. C. Diano)4. Infatti la guerra (in greco pólemos, appunto) voluta dallo stratego ateniese Pericle (subito morto) e proseguita (e perduta) dai suoi successori – a noi ben nota per il racconto del contemporaneo Tucidide – è stata anche «padre» di enormi sofferenze per la popolazione civile, che ha maturato nel tempo una sorta di pacifismo non ideologico, più privato che pubblico. Se ne è fatto interprete il poeta comico Aristofane, che negli Acarnesi (425 a.C.) sbeffeggia il demagogo Cleone e il guerrafondaio generale Lamaco ed erge a protagonista Diceopoli, un piccolo proprietario terriero che nella finzione teatrale, per evitare la fame, stringe una pace privata con Sparta, quasi un anticipo di quella labile tregua (la “pace di Nicia”) che il poeta celebrò con La pace (421 a.C.). Che dire poi delle donne che – nella Lisistrata (411 a.C.) – cercano di convincere i mariti alla pace con un argomento molto convincente come lo “sciopero del sesso”? I drammi aristofanei, insomma, denunciano tramite l’uso della parresίa («libertà di parola») uno scollamento tra la gente comune «stanca di guerra» (mi si perdoni la citazione di Jorge Amado) e la bellicista classe dirigente di Atene, la quale – a propria volta – era tutt’altro che coesa, anzi5.
Le fake news di guerra contro Alcibiade
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Ciò perché pólemos divide sempre, e se anche l’aforisma «in guerra la verità è la prima vittima» non fosse di Eschilo – come tradizionalmente si crede – sarebbe comunque veritiero. Lo si è visto nel 415 a.C. quando, proprio nell’imminenza della spedizione navale di Atene contro la filo-spartana Siracusa, capitanata da Nicia, Lamaco e Alcibiade, quest’ultimo fu colpito da una valanga di fake news – affidate alle testimonianze di delatori – che affermavano che «per abbattere la democrazia erano avvenute le parodie dei misteri e la mutilazione delle erme, e che niente di tutto ciò era stato fatto senza la complicità di Alcibiade» (Tucidide, Guerra del Peloponneso, 6, 28, trad. F. Ferrari)6. Ma chi può davvero credere che il più nobile dei tre ammiragli abbia passato la vigilia della partenza a distruggere le statue degli dèi? Assai più probabile che dietro queste false accuse ci fosse – come ha scritto Luciano Canfora7 – un oscuro conflitto tra eterίe (simili alle moderne lobby) magari originato dall’invidia per un incarico così prestigioso, sentimento che avrebbe potuto nascere sia da parte di membri del suo stesso partito (quello «democratico») sia dagli esponenti di quello «oligarchico». La conseguenza di tutto ciò fu disastrosa, perché Alcibiade, richiamato in patria per il processo, tradì Atene e si rifugiò a Sparta, rivelando importanti segreti militari: l’ingloriosa fine della spedizione siciliana e di tutta questa lunga guerra – che fece tramontare l’egemonia ateniese sulla Grecia – è nota, e non serve che la ricordi. Ciò che vorrei però ribadire è che dal “muscolare” esordio pericleo, dall’aspettativa di una sorta di “guerra lampo”, il conflitto è stato poi per Atene un susseguirsi di malumori popolari, contrasti e tradimenti politici, diffuse menzogne, disfatte militari; eppure erano passati solo pochi decenni dalla gloria di Maratona (490 a.C.), località dove gli Ateniesi (con pochi alleati) avevano sconfitto il Gran Re e preservato la libertà delle póleis.
Le guerre giuste e ingiuste di Roma
I Romani avevano l’ossessione del bellum iustum («guerra giusta») e c’erano perfino dei sacerdoti, i feziali, che dovevano garantire che così fosse. Sicuramente come iniustum («ingiusto») il poeta di età neroniana Lucano descrisse nel suo Bellum civile il conflitto tra Cesare e Pompeo avvenuto un secolo prima: si trattò infatti (vv. 1-2) di bella… plus quam civilia («guerre più atroci delle civili») nelle quali ius… datum sceleri («il crimine è divenuto diritto»)8. I Romani hanno dunque scordato il diritto (ius è etimologicamente legato a iustum) e, con atto scellerato (lo scelus è un delitto gravissimo, lesivo della pietas religiosa), si sono massacrati a vicenda – continua Lucano – con danni maggiori di quelli provocati da nemici storici come Pirro o Annibale; ciò invece di infliggere «guerre giuste» a popoli ostili, come quei Parti che avevano strappato le insegne legionarie a Crasso nella battaglia di Carre (53 a.C.).
Ma non sempre (anzi quasi mai) ciò che è giusto e/o sbagliato per Roma lo è per suoi nemici. Così infatti il capo caledone Calgaco parla dei conquistatori romani nell’83 d.C. prima di sfidarli in battaglia al Monte Graupio, nell’odierna Scozia:
Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace. (Agricola, 30 trad. G. D. Mazzoccato)9.
Chi riporta il discorso è Tacito – grande storico e nobile senatore romano di età antonina – il quale non era certo né filo-britanno né pacifista, ma anzi vedeva con favore l’ecumenica diffusione del diritto e dalla cultura di Roma. Però, da buon conoscitore dell’animo umano, è stato in grado di comprendere in profondità (pur senza giustificarle) le ragioni dei nemici. E non è un caso che la straordinaria frase ubi solitudinem faciunt, pacem appellant sia divenuta nel tempo cara alla propaganda anti-militarista: con lo slogan «hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace», ad esempio, venne convocata il 23 aprile del 1967 a Firenze una manifestazione contro la guerra USA in Vietnam!
Sconfitte che bruciano
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Calcago parlava di un bellicismo camuffato da pace, ma per i Romani la pax era una cosa molto seria, addirittura divinizzata, come appare della consacrazione dell’Ara Pacis per opera di Augusto nel 9 a.C. Sul versante diplomatico, la pax – connessa al verbo paciscor («faccio un patto») – prevedeva un foedus («trattato di pace»), che il più delle volte era iniquum («dispari») in quanto dettato da Roma agli hostes («nemici») che aveva sottomesso. E pensare che hostis è termine etimologicamente legato e in origine semanticamente affine a hospes («ospite»), col significato di «straniero»: poi quest’ultimo divenne lo straniero cui si dava hospitium («ospitalità, accoglienza»), mentre il primo era quello cui spettava il bellum.
I Romani subirono però alcune sconfitte da parte di nemici storici – «costruiti» come tali nel tempo, secondo la felice formula di Umberto Eco10 – tanto brucianti da rappresentare un’onta difficilmente cancellabile. In tal caso si parlava di clades («sciagura, disastro») in quanto conseguenza di una caedes («strage»), fenomeni dei quali proporrò ora solo qualche esempio11.
Canne e Carre
Mi riferisco in primis al disastro di Canne (216 a.C.) – raccontato nei dettagli da Polibio (Storie, III) e Tito Livio (Ab Urbe condita XXII) – che però secondo lo storico Giovanni Brizzi12 fu di tale proporzione da suscitare nei Romani la reazione morale che consentì loro la vittoria finale nella guerra annibalica (202 a.C., battaglia di Zama). Mi piace, a questo proposito, citare una bellissima considerazione dello scrittore Paolo Rumiz:
Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. Canne è la più orrenda strage del mondo antico, l’epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte “moderna”; la stessa che racconta Remarque a proposito della Grande guerra. A Canne si celebra l’epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all’eternità.13
Già ho accennato all’ingloriosa sconfitta contro i Parti a Carre (53 a.C.), che vide una strage di soldati, la morte di Crasso e la vergogna della sottrazione delle insegne legionarie: la loro resa da parte del re Fraate (cui forse fu pagato un riscatto…) ad Augusto fu sfruttata da quest’ultimo per scopi propagandistici, tanto che raffigurò la scena della restituzione sulla corazza della sua statua cosiddetta «da Prima Porta», ora ai Musei Vaticani14.
Nella selva di Teutoburgo
Povero Augusto! Nel 9 d.C., proprio pochi anni prima di morire e diventare quindi divus quasi impazzì di dolore (ce lo racconta Svetonio, Vita di Augusto, 23) per la Variana clades, cioè l’imboscata nella Selva di Teutoburgo subita da tre legioni romane comandate da Publio Quintilio Varo. Le truppe germaniche – guidate dal “mitico” Arminio – uccisero o ridussero in schiavitù i legionari romani; gli ufficiali superstiti invece si suicidarono per la vergogna, secondo la narrazione di Cassio Dione (Storia romana, LVI, 20-22).
Ancora qualche anno dopo (siamo nel 14-16 d.C.) Germanico Cesare, figlio di Tiberio e nipote adottivo di Augusto, durante una missione in Germania poteva vedere i resti – umani e non – di quella battaglia, come descritto da Tacito:
Nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa, sparse o a mucchi, a seconda che i soldati erano fuggiti o s’erano fermati a resistere. Accanto a loro, frammenti di armi, carcasse di cavalli e teschi umani piantati nei tronchi degli alberi. Nei boschi attorno, are barbariche, accanto alle quali avevano massacrato i tribuni e i centurioni delle prime compagnie. (Tacito, Annali 1, 61, trad. D. Mazzoccato).
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E chissà se Germanico vide anche le spoglie del centurione di origine bolognese Marcus Caelius, la cui stele (CIL XIII, 8648, con numerose riedizioni) è ora conservata al Landesmuseum di Bonn? La sua iscrizione funebre è infatti solo un cenotafio, presso il quale sarà però possibile – scrive il fratello – «conferire le sue ossa», qualora vengano riconosciute. L’epigrafe ne ricorda il grado (centurione della legione XVIII), l’età (53 anni e mezzo) e soprattutto il fatto che lo ha reso, suo malgrado, protagonista della “macro-storia”: cecidit in bello Variano («cadde nella guerra condotta da Varo»). Inoltre Celio è rappresentato in “alta uniforme” con tanto di decorazioni (corona, braccialetti, borchie) che nell’esercito romano erano l’equivalente delle nostre medaglie al valore: ciò conferisce al soldato – pur se sconfitto – una certa dignità.
Imperatori in catene
Nessuna dignità, invece, nella postura di due imperatori romani sconfitti raffigurati in un rilievo rupestre, corredato da iscrizioni celebrative (Res Gestae Divi Saporis), visibile a Naqsh-e Rostam, presso Persepoli (odierno Iran). A trionfare – stavolta – è il re persiano della dinastia sassanide Shāpūr I, il quale, seduto sul cavallo, tiene prigioniero Valeriano, sconfitto nel 260 d.C.; davanti a loro Filippo l’Arabo, che il sovrano iranico aveva obbligato alla resa nel 244 d.C. Che strano vedere due principes, uno con le mani legate, l’altro in ginocchio, proprio come l’arte romana ufficiale (per esempio sulla Colonna Traiana) raffigurava di solito i barbari vinti! Ma il corso della Storia stava ormai mutando e dell’eternità del dominio di Roma (l’imperium sine fine di cui parlava Virgilio in Eneide, I, 279), per il quale milioni di uomini erano morti nei secoli, si cominciava a dubitare15.
Possibile una conclusione?
Ma sarà poi stato davvero dulce et decorum pro patria mori (cioè «dolce e bello morire per la patria») come cantava Orazio (Odi, III, 2, 13)16 sulla scia del greco Tirteo (fr. 6 Diehl)? Oppure, almeno dopo la riforma dell’esercito in chiave volontaria e professionistica di Gaio Mario (107 a.C.), morire in guerra era solo un brutale “incidente di percorso” per esponenti di ceti subalterni arruolatisi per necessità o per nobili in cerca di gloria? E poi cosa significa davvero pro patria mori? Morire per difendere i propri confini e valori o per cercare di estendere i territori della patria andando a imporre ad altri il proprio dominio politico e culturale? Domande troppo complesse perché se ne possa trattare in breve; certo è che proprio quel verso di Orazio divenne il titolo della celebre poesia di Wilfred Owen (1893-1918) pubblicata postuma nel 1920 dopo che il poeta-soldato britannico, arruolatosi volontario nella Grande Guerra – era morto in battaglia. Egli – che descrisse gli orrori della guerra in forme quasi “ungarettiane” – definisce questa massima the old lie («la vecchia menzogna»)17, e io penso che avesse ragione. Forse avrebbe dovuto, prima di arruolarsi, dar credito alle parole che Cassandra pronuncia al v. 400 delle Troiane di Euripide, cioè: «La guerra, bisogna che la fugga chi ha giudizio» (trad. F.M. Pontani)18. Ma si sa che, da che mondo è mondo, Cassandra non l’ascolta mai nessuno; e noi tutti – osservatori attenti delle guerre di ieri, ma soprattutto spettatori angosciati di quelle di oggi – ne abbiamo una quotidiana, drammatica, conferma.
NOTE
- M. Reali, Amicitia militum: un rapporto non gerarchico?, «Actes du Congrès ‘La Hiérarchie (Rangordnung) de l’armée romaine’, Lyon 1994», a cura di Y. Le Bohec, Paris 1995, pp. 33-37.
- Ottima la rassegna bibliografica sulla guerra antica in M. Bettalli, I Greci e i Romani e… la guerra, Carocci, Roma 2024, pp. 211-226, cui rimando ampiamente. Citerò solo gli utilissimi G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino, Bologna 2002 e M. Bettalli, Un mondo di ferro. La guerra nell’antichità, Laterza, Roma-Bari 2021. Per l’esercito di Roma è poi fondamentale Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, Carocci, Roma 1993. Numerosi e ricorrenti i convegni sul tema: l’ultimo, dagli atti ancora inediti, è «War in the Ancient World International Conference 2024» (Graz, giugno 2024).
- Lirici greci, a cura di F. M. Pontani, Einaudi, Torino 1969.
- Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano, G. Serra, Mondadori – Valla, Milano 1980.
- Sul senso del “pacifismo” di Aristofane, si vd. la recente introduzione (spec. pp. 10-11) di G. Zanetto ad Aristofane, Acarnesi, Carocci, Roma 2024.
- Tucidide, Guerra del Peloponneso, trad. F. Ferrari BUR, Milano 1985.
- L. Canfora, Il mondo di Atene, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 206-235.
- Le citazioni tradotte sono da: Lucano, Farsaglia o la guerra civile, trad. di L. Canali, BUR, Milano 1997.
- Le traduzioni di Tacito sono tratte da Storici latini, Newton Compton, Roma 2011.
- U. Eco, Costruire il nemico, La Nave di Teseo, Milano 2020.
- Delle maggiori vittorie e sconfitte militari di Roma tratta L. Zerbini, Le grandi battaglie dell’esercito romano, Odoya, Bologna 2015.
- G. Brizzi, Canne. La sconfitta che fece vincere Roma, Il Mulino, Bologna 2016.
- P. Rumiz, Annibale. Un viaggio, Feltrinelli, Milano 2008, p. 102.
- Ancora fondamentale per una lettura propagandistica dell’arte augustea è P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Einaudi, Torino 1989.
- Sul valore propagandistico dell’arte ufficiale sassanide vd. passim M. Compareti, Dinastie di Persia e arte figurativa, Persiani editore, Bologna 2019; sul concetto romano, politico e militare, di imperium, fondamentale è G. Brizzi, Imperium. Il potere a Roma, Laterza, Roma-Bari 2024.
- La citazione tradotta è da Orazio, Odi, trad. di L. Canali, Mondadori, Milano 2004.
- Ho consultato: W. Owen, Poesie di guerra, a cura di S. Rufini, Einaudi, Torino 1985.
- Da I tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, Newton-Compton, Roma 2010.