Vertere, infatti, significava tradurre “in profondità”, arrivando – se necessario – a forme di vera e propria reinterpretazione dell’originale, mentre exprimere o interpretari alludevano a modi più “letterali” di traduzione. Ma di questo ha da poco scritto Maurizio Bettini, in un interessantissimo libro del quale vorrei tornare a parlare su queste colonne (Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Einaudi, Torino, 2012).
Anche il presente articolo è il ritorno a un libro già da me segnalato, sul quale avevo promesso una riflessione: si tratta della traduzione con commento di taglio scientifico-matematico che Piergiorgio Odifreddi ha fatto del poema di Lucrezio (Come stanno le cose, Rizzoli, Milano, 2013).
È però, il mio, un ritorno parziale, molto parziale. Infatti le questioni che il volume suscita sono spesso troppo lontane dalle mie competenze, anche se il taglio divulgativo le rende ben comprensibili anche a un profano come me. E se nel commento non mancano accenni a tematiche etiche, politiche e sociali, sono proprio quelle scientifiche in senso stretto le pagine più affascinanti: davvero interessanti – tra gli altri – sono gli spunti legati al libro VI (Meteorologia e geologia), dove troviamo anche utili informazioni medico-scientifiche sulla peste (p. 282), da comparare a quella di Atene descritta dal poeta.
Nonostante le molte curiosità che il libro mi ha instillato, ho deciso, per ora, di parlare di letteratura, poiché credo di poterne argomentare in modo più documentato. E cioè di prendere spunto dall’interessante premessa alla traduzione di Odifreddi (pp. 11-23), per ragionare brevemente in chiave storica sulla fortuna del poeta latino e su alcuni aspetti delle traduzioni lucreziane; e faccio questo riprendendo e aggiornando qualcosa che aveva già scritto in alcune pubblicazioni scolastiche di un recente passato.
Bisogna dunque ricordare come nel 1418 sia stato Poggio Bracciolini a riscoprire il manoscritto del De rerum natura, ben presto oggetto dell’attenzione di filologi e filosofi. E come il poema sia stato subito anche oggetto di emulazione, poiché se Angelo Poliziano lo recuperò nelle sue Stanze, proprio a queste ultime si ispirò il Botticelli nell’atto di dipingere la sua Primavera del 1482.
Dalla Controriforma in poi il De rerum natura non ebbe vita facile, in quanto percepito come scritto pericolosamente materialista, e venne perciò avversato dalle autorità ecclesiastiche. Ciò non toglie che l’inquieto Torquato Tasso – tra gli altri – lo “saccheggiò” ed emulò in varie sue opere, Gerusalemme liberata in primis; e che molti filosofi o scienziati (come Giordano Bruno, Bacone, Pascal, Gassendi, Newton e Montaigne) lo amarono e studiarono, prima della grande riscoperta in età illuministica quando – nonostante una certa tiepidità di Voltaire – divenne un vero e proprio testo di riferimento. Perdurò comunque negli ambienti religiosi più conservatori una forte opposizione al pensiero di Lucrezio, tanto che il cardinale Melchior di Polignac lo confutò – insieme con quelli di Newton e Spinoza – nell’Antilucrezio, scritto pubblicato postumo nel 1747. Ed è, credo, inutile ricordare l’amore per il De rerum natura di Leopardi (il “Lucrezio italiano” per Giosuè Carducci) e di Foscolo, che ne fece anche una parziale traduzione, sia in prosa sia in versi.
Ed ecco il punto: la traduzione! Infatti tra tanti estimatori nessuno si era arrischiato a farne una in italiano prima di un illustre precursore e “collega” di Odifreddi. Costui si chiamava Alessandro Marchetti (1633-1714), ed era anch’egli uomo di scienze, oltre che valente letterato: aveva infatti una formazione galileiana, ed era assai vicino alle posizioni di quel Pierre Gassendi che aveva cercato di conciliare atomismo e cristianesimo. La sua traduzione in endecasillabi – eseguita tra il 1664 e il 1668 – fu operazione laboriosa, non solo per la complessità della poesia filosofica dell’autore latino, ma anche per la necessità di “edulcorare” le immagini del De rerum natura, sentite dalla mentalità corrente, ancora permeata di echi controriformistici, come più decisamente empie e materialiste. Tutto ciò, come pure la stampa avvenuta postuma nel 1717 nella non cattolica Londra, non servì però ad evitare un perentorio decreto di proibizione della diffusione del volume da parte dell’Indice di Roma.
Ormai libero da quel vincolo ecclesiastico – grazie al Cielo… – propongo ora ai lettori della Ricerca un brano della traduzione marchettiana, e in particolare quella del celeberrimo Sacrificio di Ifigenia (I, vv. 80 ss), dove si vede bene la bravura ma anche la “diplomazia” del nostro traduttore. Infatti il passo è non poco spinoso, in quanto condanna le nefaste conseguenze della religio; quella religio che il Marchetti traduce però come L’altrui Religion (v. 83-84, illa religio), quasi a marcare le distanze tra la superstizione degli antichi e la forza positiva del cristianesimo.
Né creder già, che scellerate, ed empie
Sian le cose, ch’io parlo, anzi sovente
L’altrui Religion ne’ tempi antichi
Cose produsse scellerate, ed empie.
Questa il fior degli Eroi, scelti per Duci
Dell’oste Argiva, in Aulide già indusse
L’Ara a macchiar della gran Dea triforme
Co ’l sangue d’Ifigenia, allor che cinta
Di sacra fascia il bel virgineo crine
Vid’ella a se davante in mesto volto
Il Padre, e a lui vicini i sacerdoti
Celar l’aspra bipenne, e ’1 popol tutto
Stillar per gli occhi in larga vena il pianto,
Sol per pietà di lei, che muta e mesta
Teneva a terra le ginocchia inchine.
Né giovò punto all’innocente e casta,
Povera verginella in tempo tale,
Che prima al Re titol di Padre desse;
Che tolta dalla man de’ suoi più cari
Fu condotta all’altar tutta tremante:
Non perché terminato il sacrificio
Legata fosse co1 soave nodo
D’un illustre Imeneo; ma per cadere,
Nel tempo istesso di sposarsi, offerta
Dal Padre in sacrificio ostia dolente,
Per dar felice e fortunato evento
All’armata navale. Error sì grave
Persuader la Religion poteo.
(A. Marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, Londra, per i tipi di Giovanni Pickard, 1717, 1, vv. 80-101 = S. D’Aricò, a cura di, Roma, Salerno Editore, 2003)
Siamo, dunque, davanti a un caso di pesante anche se mirato “interventismo” del traduttore nel vertere il testo originale; infatti basta – come si à visto – l’uso di un aggettivo per dare una personalissima lettura del testo.
Ovviamente la lingua contemporanea di Odifreddi traduttore è meno aulica e la sintassi più scorrevole di quella del Marchetti, anche perché la sua versione – davvero di facile lettura – è in prosa. Si tratta dunque di una traduzione “di servizio”, di alto “servizio”, dove l’uso di corsivi e colori diversi mira a orientare il lettore in un’agile fruizione del testo. Quanto al passo citato, un pensatore laico – anzi dichiaratamente ateo – come lui non teme certo di tradurre religio con “religione” tout-court, e ciò è senza dubbio assai più vicino al testo originario (Ma, in realtà, è stata proprio la religione a provocare, spesso, azioni empie e scellerate p. 33). Non mi pare invece troppo felice, nel commento sulla pagina a fronte (p. 32), l’inclusione di Lucrezio nel novero dei deisti anticlericali – sono parole dell’autore – alla maniera di Voltaire. Mi sembra una definizione un po’ anacronistica, e che non tiene conto della complessità del rapporto – ancora non del tutto chiaro – tra l’epicureismo e la religione.
Ma i professori di Latino come il sottoscritto, si sa, sono “rognosi” e spesso preferiscono le zone d’ombra, gli approcci dubbiosi, a quelli più decisamente classificatori degli scienziati. Scienziati cui però dobbiamo – e parlo di Marchetti in primis e ora di Odifreddi – due eccellenti strumenti di interpretazione di un poeta latino tanto complesso quanto sublime. E se Leopardi e Foscolo lessero con trasporto la versione di Marchetti e partendo da quella formularono molte delle loro riflessioni, non escludo che qualcosa di simile possa avvenire alla traduzione di Odifreddi: questa ha infatti tutte le carte in regola per diventare uno dei migliori mezzi per comprendere Come stanno le cose – se non nel mondo – almeno nel testo lucreziano.
Post scriptum
Con la frase precedente l’articolo – che ho scritto lentamente, in più tappe – era finito; ma nel frattempo è successo qualcosa che mi ha spinto a riprenderlo. È infatti di pochissimi giorni fa l’ennesima polemica che Piergiorgio Odifreddi ha suscitato con alcune dichiarazioni riportate sul suo blog; dichiarazioni che cito alla lettera per evitare fraintendimenti: «Non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra. E non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che “uniformarmi” all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti».
Io non ho certo titolo per impartire lezioni a chicchessia ma – dato che ho appena apprezzato il lavoro di Odifreddi su Lucrezio – posso (anzi, devo…) manifestare il mio fastidio davanti ad affermazioni che paiono poco rispettose sia della verità storica ormai acclarata sull’Olocausto sia di un diffuso sentimento di profondo sdegno per l’antisemitismo: molto meglio di me l’hanno detto in tanti in questi giorni, e in modo più convincente di tutti l’ha fatto il giornalista Mario Calabresi, direttore de La Stampa.
Capisco bene che il matematico pone una questione che è di principio, di metodo, di approccio “scientifico” alla questione; e che il suo è uno scetticismo che non ha niente a che vedere con quell’antisemitismo che qualcuno – sbagliando – gli ha attribuito. Ma la scienza, se non vuole diventare una fredda antitesi alle ragioni profonde che alimentano la vita e la storia dell’uomo, deve entrare in punta di piedi in alcuni territori. È per questo che, oggi più che mai, abbiamo bisogno di una scienza che sappia sposare la migliore tradizione umanistica: se il suo fine non è l’uomo – infatti – diventa anch’essa una religio nell’accezione lucreziana, cioè una sterile devozione che ha come fine soltanto se stessa.