“Tacciare di antimanzonismo gli scapigliati lombardi e piemontesi è divenuto un luogo comune”, scrive il critico Guido Davico Bonino nella prefazione ad un bel volumetto che – credo – tutti i docenti di Lettere dovrebbero sfogliare. Si tratta di una silloge delle Note Azzurre del grande Carlo Dossi (1849-1910: di lui ho già scritto su queste colonne ricordandone il collezionismo antiquario), edita col titolo di Il mio Manzoni, per i tipi di Interlinea, Novara, 2012; e sono Note, manco a dirlo, che menzionano il Don Lisander autore dei Promessi Sposi.
Ma andiamo con ordine. Emilio Praga, poeta e pittore “scapigliato”, nella sua lirica Preludio (1864) sperava – senza mezzi termini – che l’anziano Manzoni liberasse la cultura italiana dalla sua ingombrante presenza, scrivendo:
Casto poeta che l ‘Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!… Degli antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!
E non vi è dubbio che un certo antimanzonismo “scapigliato” alla Praga abbia influenzato anche personaggi del calibro di Luigi Settembrini e Giosuè Carducci, che videro nei Promessi sposi un libro reazionario e clericale. Dunque se è forse vero quanto afferma Davico sul luogo comune di cui sopra, si può comunque dire che una bella “miccia” gli scapigliati l’abbiano accesa!
Di tenore opposto sono però le affermazioni contenute nelle Note del Dossi riedite da Davico Bonino. E non solo perché il nostro ebbe – come si sa – una significativa evoluzione culturale e politica (da giovane bohémien divenne politico e diplomatico della cerchia di Crispi); ma anche perché la sua sensibilità letteraria, la sua capacità di leggere tra le righe del testo manzoniano senza pregiudizi, gli hanno permesso di scoprire e apprezzare la grandezza nascosta del romanziere lombardo.
Provando ad entrare nel merito, mi pare che questa Nota (la 1671) non lasci dubbi sul giudizio del Dossi:
Manzoni, libro universale: tutti vi possono imparare, dalla portinaia all’astronomo. Io lessi Manzoni tre volte – mi diceva tale – a diversissime epoche e sempre ne fui ammirato poiché da fanciullo ci scorsi il sorgere e il tramontare del sole, la tempesta e il sereno – il racconto – da giovane, l’amore, la smania per le riforme, la rivoluzione – da vecchio infine, la pace della famiglia, la rassegnazione – la vanità del tutto.
Credo che il lettore smaliziato sappia dare il giusto peso a queste parole. Magari un po’ retoriche, sulle prime, ma che alludono sorprendentemente anche alla vanità del tutto. Sì, Dossi riesce a vedere già l’embrione di quel Romanzo senza idillio di cui parlerà Ezio Raimondi nel 1980, e percepire l’ansia, l’insoddisfazione e le non risposte che costellano quel romanzo! Infatti Manzoni non appare al Dossi, qui e altrove, come un “talebano” della Provvidenza, ma come uno scettico (lo dice nella Nota 2267), che maschera (o palesa?) la sua inquietudine con l’umorismo, poiché: Manzoni – come ogni grande umorista – è scettico. E di certo il Don Lisander avrebbe avuto il posto che si meritava in quella Storia dell’Umorismo che Dossi (ben prima di Pirandello) aveva in animo di scrivere. Insomma, il fine letterato “scapigliato” (o ex tale…) finisce per dare al Manzoni una sorta di patente di “scapigliato” ante litteram, se è vero che lo stesso antimanzonista Praga diceva in Preludio di cantare l’eredità del dubbio, che certo a uno scettico non doveva essere ignota.
Tiriamo ora le somme. Ho prima attribuito la profondità dei giudizi dossiani alla sua complessa esperienza di vita e alla sua raffinatezza critica, e credo che ciò sia vero. Ma dobbiamo senz’altro aggiungere un altro, fondamentale, elemento di valutazione: alludo consapevolezza di Dossi – ben prima che ne parlassero i critici Luciano Anceschi (1952) e Dante Isella (1984) – di appartenere a quella stessa “linea lombarda” di cui Manzoni era un indiscutibile capostipite. La consapevolezza di avere lo stesso gusto nel descrivere – e se necessario anche di manipolare – la realtà; ma anche di usare lingua e stile come un “grimaldello” per arrivare al cuore e alla mente del lettore: e se Manzoni sciacquava i panni in Arno, Dossi usava talora un pastiche linguistico degno del futuro Gadda. Ho detto Gadda? Sì, proprio quel Carlo Emilio Gadda che nel 1942 scrisse l’Apologia manzoniana, e che mai fece mistero di considerare Manzoni il più grande dei nostri “Grandi” (al livello di Shakespeare e Dostoevskij), ben superiore a quel Leopardi che egli riteneva poco più che un modesto filosofo. E anche Gadda, come sappiamo, era lombardo, cresciuto guardando quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello…
Dossi, pertanto, esaltando Manzoni esalta anche l’humus culturale nel quale si è formato, e quel DNA che sente patrimonio suo e di altri scrittori della sua terra. E lo fa, forse, “allargandosi” un po’ troppo quando scrive (Nota 1132): Manzoni corrisponderebbe a Mozart – Rossini a Rovani – Verdi a Dossi. Qui infatti la letteraria “linea lombarda” (Manzoni-Rovani-Dossi) si interseca con la grande musica internazionale, in quella che ha tutta l’aria di essere una sorta di boutade… Penso che Dossi sapesse benissimo che l’accostamento del pensoso Manzoni al giovane Amadeus fosse una sorta di ossimoro: il paragone gli serviva però per accostare se stesso a Verdi, il mito della sua generazione. Era un peccato di immodestia, insomma, un tentativo di trasformare la “linea” in “sinusoide”, deviandola a suo piacimento dalla Lombardia, a Nord fino a Salisburgo, a Sud fino a Busseto…