Donare un caffè

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Immaginate di ordinare un caffè e che, al momento di pagare, vi dicano che non serve: il caffè vi è stato offerto da uno sconosciuto. Cosa fareste? A Winnipeg, nel 2012, in un drive-thru (ove cioè si ordina direttamente dall’auto) si è realizzata una catena di ben 228 donazioni.

 

Catene di questo tipo, anche se meno lunghe, si sono osservate altre volte in parecchie città. In Italia una forma di donazione meno a catena di montaggio, ma non molto diversa, è nota come “caffè sospeso”. Il caso di Winnipeg è particolarmente curioso per la sua lunghezza, ma siamo tutti ben consapevoli della pervasività delle catene di donazione. Ne sono esempi quelle che riguardano il dono del sangue o quelle che si realizzano in rete, con la diffusione di freeware o l’implementazione di servizi gratuiti in cui molti rendono disponibili beni e servizi semplicemente perché apprezzano di averne ricevuti a propria volta. Si noti che in tutti questi casi la donazione ha una valenza impersonale: non si dona qualcosa a una particolare persona che sa chi ringraziare, piuttosto si dona in forma anonima a un qualcuno. Sembra trattarsi del dono perfetto, quello fatto “per nessun motivo”. Ma se è davvero “per nessun motivo”, perché lo si fa?

Se l’esperienza di tali catene ci è ben nota, resta dunque ancora da capire qual è il meccanismo che le avvia. Si tratta di donazione, d’accordo, ma è tutto qui? Il dono avviene in ogni circostanza? In effetti non sembra che la cosa funzioni sempre altrettanto bene. Gli studiosi, in una recente ricerca, hanno formulato due ipotesi per spiegare tale fenomeno di contagio: si è generosi perché si osserva che altri lo sono e li si imita; oppure, si riceve la generosità di altri e perciò ci si sente in dovere di beneficare a propria volta? Pare che il primo meccanismo, quello che si fonda sull’osservazione, in realtà sia meno efficace del secondo nel motivare, soprattutto coloro che non hanno ricevuto benefici a propria volta.

L’osservazione di un atto generoso è particolarmente potente, perché un singolo episodio può influire su molti. Nel caso però che il soggetto osservi molti atti generosi, mostra lo studio, questi tende a ritenere che il proprio contributo non serva e perciò è più probabile che decida di massimizzare il proprio utile individuale. “Tutto sommato – egli si dice – ci sono già altri che ci pensano”. Il fatto dunque di osservare la generosità altrui, a una certa soglia, demotiva. Che sia questa una radice nascosta e profonda dell’evangelico: “quando fai l’elemosina non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente” e “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6, 2-3)? Il testo di Matteo, certo, stigmatizza la generosità strategica, finalizzata unicamente a massimizzare la reputazione. Non si tratta di generosità reale, perché è finalizzata a un effettivo tornaconto, come Jacques Derrida si è preoccupato di sottolineare vigorosamente. Tale “generosità” però sortisce anche un effetto negativo secondario: inibisce l’adozione di pratiche generose in altri, che altrimenti si attiverebbero. Inoltre, una generosità reale, ricevuta senza dubbi sulla sua condizione gratuita, motiva chi la riceve a beneficare a propri volta, continuando la catena. Pare insomma che nei Vangeli non ci sia solo molta etica, come fondatamente pensano tutti, ma anche un sacco di filosofia sociale, solo che non si fa notare.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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