Perché continuare a leggere Dante, e come insegnarlo? In quest’anno centenario, in cui si moltiplicano le iniziative in suo onore, il suo posto sembra assodato. Ma possiamo darlo per scontato? E, soprattutto a chi va in classe ogni giorno con il compito di insegnarlo, che sfide e che occasioni offre ancora oggi quest’autore? Che possibilità dà di suscitare l’interesse di studenti e studentesse e di farli crescere attraverso la lettura e lo studio?
Non sono domande oziose. Soprattutto, la risposta non può essere “perché Dante è Dante”, il padre della lingua italiana e il più noto autore della nostra letteratura. Fatti indubbi, questi, ma lui per primo – che nel IV trattato del Convivio ha investigato le radici “della imperiale autoritade” e della filosofica – non avrebbe mai accettato argomenti di autorità come questi. Neanche, questo fiorentino che ha passato la vita a riformulare a sua scala e misura i canoni della cultura del suo tempo, appassionandosi a qualunque disciplina dalla letteratura alla teologia, dall’ottica alla cosmologia, si sarebbe accontentato di sentirsi rispondere che occorre continuare a leggerlo perché i suoi testi figurano nei “programmi” scolastici e hanno il privilegio di vedersi intitolate cattedre di “filologia e critica dantesca”, come se il suo nome da solo corrispondesse a un campo di studio a sé.
Del resto, che un tale privilegio non possa sottrarsi alla storia lo mostrano bene realtà diverse dall’italiana, nelle quali lo statuto dei classici è sempre meno evidente. Proprio all’inizio di questo anno di centenario dantesco, ad esempio, i professori dell’Università di Leicester (GB) sono insorti contro la proposta di sacrificare i corsi dedicati al poema epico in inglese antico Beowulf (X-XI secolo) e a Chaucer (XIV secolo) – quelli più facilmente comparabili ai corsi danteschi nostrani – per fare posto a moduli didattici su questioni di maggiore attualità1. A fronte della pressione della comunità scientifica, la proposta è stata ritirata. Beowulf e Chaucer son “salvi”. Ma anche se non lì o non ora, ricapiterà, e prima o poi anche lo statuto di Dante sarà messo in questione2. È normale che accada. In un’offerta formativa di per sé limitata, oltre che vittima di tagli sempre più ingenti, le aree di studio sono soggette alle maree dell’opinione pubblica. Se nuove se ne creano, quelle considerate non più attuali scompaiono. C’è poco da stupirsi. Dante avrebbe chiosato: «La vostra nominanza è color d’erba, /che viene e va, e quei la discolora /per cui ella esce de la terra acerba» (Purgatorio XI, 115-117). Soprattutto, dal momento che le comunità umane sono inserite nella storia, va da sé che gli ambiti di studio, non meno dei linguaggi, varino «così o così (…) secondo che v’abbella» (Paradiso XXVI, 131-132).
La difficoltà è che assestamenti del genere, per quanto naturali e spesso necessari, suscitano costernazione e diventano il bersaglio di tutti i conservatorismi. Ripetere che “Dante non si tocca” è forse più facile che non affrontare la domanda da cui siamo partiti: perché è ancora interessante occuparsi di questo autore? Si possono dare molte risposte. Studiosi di diverse provenienze disciplinari s’interrogano appunto su come insegnare oggi Dante a fronte del contesto accademico contemporaneo, delle nuove esigenze degli studenti del XXI secolo e soprattutto delle distanze innegabili che intercorrono tra noi e lui3. Si possono inventare poi nuovi modi per leggerlo, soprattutto la Commedia, procedendo ad esempio non più linearmente, come siamo abituati, un canto dopo l’altro, ma offrendo percorsi tematici o, una pratica adesso in voga, dei “vertical readings”, degli affondi attraverso i canti tra loro corrispondenti delle varie cantiche4. Anche, c’è chi mette in guardia contro alcune scorciatoie, risposte cioè che, sotto il pretesto di difendere Dante e la sua importanza, rischiano in verità di alienarlo ancora di più5.
Certo, ci si potrà rincuorare osservando che Dante ha subìto nel corso di questi sette secoli tanti e tali attacchi, e soprattutto tanti e tali tentativi di appropriazione indebita, trasformato in patrono di cause tra loro così diverse, che forse non ha nessun bisogno di essere difeso. Che il problema, insomma, non sia lui ma siamo noi, e capire perché e come possiamo continuare a leggerlo, studiarlo, e insegnarlo nel modo migliore, ossia più stimolante e onesto.
Raccontarsi
Tra le ragioni che nel corso di sette secoli hanno contribuito al suo duraturo successo ci sono senz’altro la straordinaria qualità e la ricchezza della sua poesia. Eppure, un altro elemento ha sicuramente avuto importanza. Dante, più della maggior parte degli scrittori del suo tempo e precedenti, ma anche più di molti autori posteriori, si è messo in scena e ha posto la sua vita al centro delle sue opere.
Lo ha fatto riempiendo ciò che scriveva di tutto ciò che, direttamente o meno, aveva vissuto: degli avvenimenti di cui era stato testimone; delle persone che aveva incontrato, dai suoi vicini ai sovrani in visita a Firenze fino ai papi di cui aveva sentito parlare; della storia a lui contemporanea e persino privata; dei libri letti e di quelli che con fatica era riuscito a procurarsi («vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume», esclama il protagonista della Commedia non appena riconosce Virgilio (Inferno I, 83-84); e poi delle città e dei paesaggi, visitati o solo sentiti raccontare; e ovviamente dei suoi sentimenti, dall’amore che spinge a rendersi ridicolo agli occhi della donna amata (Vita nova XIV) a quello che riscatta e fa sì che gli occhi dell’altro siano il “paradiso” (Paradiso XVIII, 21), dall’umiliazione di ritrovarsi bandito ad elemosinare al profondo sdegno per la condizione del mondo che infiamma infiniti versi della Commedia. Di più, a queste esperienze intime, Dante ha cercato ripetutamente di dare un senso, di capire cosa significassero per sé e per gli altri, e soprattutto come potessero diventare, attraverso lo studio e la scrittura, una fonte di nuova conoscenza per gli altri e insieme di riconoscimento sociale per sé.
La maggior parte delle sue opere nasce da un simile sforzo, che rimane costante pur nel variare dei contesti, delle lingue, dei generi praticati, dei modelli d’ispirazione. Dal suo primo libro, un singolare prosimetro in cui, raccontando la storia del suo amore per Beatrice, seleziona, riordina e commenta le proprie poesie di giovinezza e che porta impressa l’ambizione di formalizzare il proprio vissuto sin dal titolo, la Vita nova appunto, alla Commedia che, pur tra altre cose, è anche se non anzitutto il resoconto di un viaggio nell’aldilà compiuto per straordinaria grazia divina da un individuo ancora vivo. Un individuo che – fatto eccezionale per la letteratura medievale e vera rivoluzione per la letteratura occidentale tutta – è storicamente determinato: si chiama Dante e di lui ha tutte le caratteristiche, le paure, i vizi, le passioni letterarie, gli amori, le amicizie e le militanze. A lui, l’aldilà offre la possibilità di mettere ordine non solo tra i personaggi e le conoscenze della tradizione ma anche tra le proprie esperienze e così spiegare una volta di più, e in verità più d’una anche nel poema, il senso di sé. Ai lettori, chiamati a calarsi nei panni di questo personaggio-narratore, quest’aldilà offre lo stimolo costante non solo a capire la sua elaborazione, ma insieme a sviluppare la propria.
C’è allora un fondamentale paradosso nel fatto che questo, a ben vedere, personalissimo esperimento di analisi e rappresentazione cui un fiorentino, vissuto sette secoli fa, ha sottoposto ciò che ha visto, letto, ascoltato (ma anche toccato, odorato, gustato, sentito) sia riuscito a catturare l’interesse di tanti lettori e lettrici, non solo attraverso il tempo ma anche lo spazio e le culture, persino in persone che del suo mondo spesso sanno poco e talvolta nulla. La soluzione più immediata per spiegarlo è sostenere che, nella sua opera, Dante abbia veicolato contenuti universali e condivisibili da ognuno: la dottrina cristiana, secondo alcuni; la coerenza della scelta politica, rispondono altri; la bellezza sempiterna della sua sperimentazione letteraria, rilanciano altri ancora. La varietà di queste risposte, e altre se ne potrebbero elencare, suggerisce però che questa spiegazione è forse male impostata. Che per spiegare il successo di Dante non si possa fare appello a nessun quadro di valori coerente e immutabile: la dottrina della chiesa romana, così come la nozione di partecipazione politica o ancora i canoni estetici sono mutati profondamente in sette secoli, né mai sono stati gli stessi ovunque, e del resto, anche durante la sua vita, c’era chi riteneva che un poema come la Commedia fosse, per contenuto e forme, tutto fuorché condivisibile. Le scuole di dantisti che ancora oggi si rimproverano l’un l’altra di non considerare aspetti fondamentali dell’opera dantesca, confermano tale impressione.
Tutto ciò suggerisce che l’interesse e la perdurante freschezza della sua opera derivino forse meno dalle risposte che egli stesso ha di volta in volta fornito che dalla domanda, questa sì comprensibile a tutti, che tra i primi ha posto al centro della sua speculazione e per primo al cuore della sua sperimentazione letteraria: quale è il senso di una vita individuale e come si può dare un senso a sé e a ciò che uno sa fare? Se si accetta quest’ipotesi, sorprende allora meno che lettori e lettrici di ogni sorta trovino nella inesausta ricerca dantesca qualcosa che è loro prossimo, e magari anche con cui identificarsi. Per alcuni sarà l’importanza dell’amore, per altri la scoperta di una vocazione intesa come svolta esistenziale, per altri ancora la fierezza di non rinunciare mai alle proprie convinzioni. Non manca chi ritiene che siano invece dispositivi che Dante ha inventato per costruirsi che sono straordinariamente attuali. Uno studente di studi cinematografici canadese, leggendo per la prima volta Inferno I-II, in cui Dante perduto nella selva incontra Virgilio che lo incoraggia a compiere un viaggio nell’aldilà ricordandogli che Beatrice lo attende, li riconosce immediatamente: «È come se io mettessi in scena nel mio secondo film Quentin Tarantino che cita il primo clip che ho fatto e m’invita a girarne un altro!» Che il parallelo piaccia o meno, è esattamente così. Dante offre molti volti di sé, e dunque molti appigli. Ma se questo dialogo con il pubblico si è innescato e se si rinnova è perché c’è qualcosa nelle domande che Dante ha messo a tema che continua a risuonare in quelle che ogni lettore, per quanto diverso, rimugina tra sé.
Come si diventa Dante?
Una tale soluzione del paradosso non rende meno difficile il compito di chi studia e insegna Dante: le domande non scompaiono bensì si moltiplicano e insieme si ridefiniscono. La questione diventa innanzitutto capire come sia potuto accadere che un fiorentino nato nel 1265 abbia prima sentito l’esigenza di trasformare sé stesso e la propria ricerca in un oggetto di letteratura, e poi sia riuscito a farlo; un’idea questa senza dubbio singolare ai suoi tempi, come egli stesso riconosce sforzandosi di spiegare le condizioni alle quali è ammissibile parlare di sé, ben consapevole d’infrangere ogni regola di decoro letterario medievale (Convivio I, II). Contemporaneamente, si tratta di capire quali contesti e stimoli sociali, politici e culturali hanno sollecitato e nutrito questa ricerca che non si limita a un momento specifico della sua vita ma la accompagna sempre, dai vent’anni circa fino alla morte. Infine, ed entrando più nel dettaglio, occorre studiare come questa ricerca abbia dato luogo ad autoritratti diversi, che evolvono nel corso del tempo, e che sono stati così potenti da abitare ancora il nostro immaginario.
Per rispondere a queste domande, ci siamo confrontati con un genere tradizionale, se non addirittura canonico e secondo alcuni persino reazionario: la biografia. Non è un caso che, sin dal Trecento e da Boccaccio, di Dante siano state scritte molte più biografie che per qualunque altro scrittore della sua epoca e la maggior parte dei seguenti: di chi non fa che mettere in scena sé stesso, si vuole tanto più conoscere la vita. Ma chi voglia scrivere una vita di Dante si trova davanti a un problema notevole: da un lato, i documenti d’archivio che lo riguardano, quelli sulla cui scorta si scrive in genere una biografia, sono pochissimi (una quarantina in tutto), mal distribuiti (la maggior parte riguarda gli ultimi anni che ha trascorso a Firenze) e offrono informazioni scarse e contraddittorie (persino la data del suo matrimonio con Gemma Donati è trasmessa con alcuni errori). Di tracce per ricostruire la vita di Dante, in verità, ne possediamo molte meno che per parecchi suoi contemporanei molto meno famosi presso i posteri. Dall’altro, e proprio per le ragioni che abbiamo evocato, i testi che ha scritto abbondano di riferimenti alla sua vita. Di fronte a una tale situazione, le biografie procedono in genere combinando le informazioni tratte dalla serie povera dei documenti e da quella ricchissima dei suoi scritti in modo da colmare quanti più vuoti possibili, con l’effetto tuttavia di moltiplicare le congetture (presentate più o meno apertamente come tali) e quello, ancora più rischioso da un punto di vista metodologico, di non valutare ogni fonte nel suo contesto e, così facendo, di non riuscire a interpretarla nel modo più corretto e utile.
Nel nostro lavoro a quattro mani, abbiamo provato a percorrere una strada diversa. Storica della cultura medievale e dantista, specialista cioè di testi letterari, l’una, e storico dei comuni medievali, esperto cioè di testi documentari l’altro, nessuno dei due si sarebbe mai azzardato a scrivere “una vita” di Dante da solo. Ci siamo però decisi a farlo insieme, analizzando ogni fase della sua esistenza da due punti di vista diversi ma posti costantemente in dialogo: l’analisi in serie dei documenti che lo menzionano, da un lato, e quella delle narrazioni che Dante ha offerto di sé nelle opere composte nello stesso periodo, dall’altro. Così, abbiamo innanzitutto delimitato delle fasi di vita usando le stesse categorie che Dante impiega per suddividere la vita umana (Convivio IV, XXIII-XXIV): un’“adolescenza” fino ai 25 anni di età, una “giovinezza” fino ai 45 che però nel suo caso è come spaccata tra il prima e il dopo del suo abbandono di Firenze nel 1302, e una “vecchiaia” che per lui si conclude a 56 anni (Dante non vedrà infatti mai la “senio” o ultima età, che secondo lui inizia ai 70). Per ognuna di queste fasi nel nostro libro due diverse ricostruzioni si fanno eco: quella della vita vissuta, la “storia”, e quella della vita trasposta nell’opera allo stesso momento, il “racconto di sé”. Da questo dialogo interdisciplinare, mai sperimentato prima in questa forma, sono emerse nuove prospettive.
Per fare un esempio, riconsiderando alla luce dei documenti la porzione della sua “giovinezza” che Dante ha trascorso ancora a Firenze, ci siamo resi conto che il suo impegno politico nel Comune e al fianco dei cosiddetti guelfi bianchi fu sì breve, ma anche intenso. E dal momento che sappiamo che ai vertici di quel sistema si accedeva soltanto in quanto parte di un gruppo politico organizzato, bisogna concludere che il “giovane” Dante fu molto meno isolato di quel che normalmente i biografi hanno ritenuto, condizionati dalla versione di questa stagione che egli darà anni dopo, durante la sua “vecchiaia”, nella Commedia, quando, coerentemente con il nuovo “racconto di sé” elaborato dopo l’esilio, tenderà a sfumare quella sua esperienza politica di giovinezza e la sua passata prossimità a figure e gruppi da cui in seguito aveva preso le distanze. Cercando di comprendere il racconto di sé che Dante ha elaborato durante questi stessi anni, abbiamo poi riletto in una prospettiva diversa dal solito la Vita nova, un’opera che è di fatto di poco precedente o coeva all’inizio dell’impegno nei consigli del Comune. In genere considerata come una sintesi della “stagione” poetica ed esistenziale precedente, lo Stilnovismo, la Vita nova appare in questo nuovo quadro piuttosto come un progetto originale in cui Dante – su un piano diverso ma convergente con quello della sua formazione filosofica e militanza politica nello stesso decennio – si rappresenta come una personalità degna di essere ascoltata dai suoi concittadini. Si tratta, a ben vedere, di un progetto intimamente coerente con il profilo di questo trentenne che, a differenza di molti suoi coetanei, non poteva vantare né l’appartenenza a una famiglia illustre né una professione degna di questo nome, ma solo una strabordante produzione lirica di cui occorreva adesso dimostrare a tutti la serietà e l’interesse. Ma si tratta anche di un progetto destinato ad evolversi. Appunto della Vita nova, così come di questi anni di integrazione interrotti dal bando, Dante darà delle riscritture sempre più ardite nei decenni a venire. Senza bisogno di moltiplicare gli esempi, si comprende già perché abbiamo deciso di chiamare il risultato di questo nostro dialogo Vite Nuove, al plurale.
Spesso si guarda agli studi con stizza, come se i commenti togliessero il piacere della lettura della poesia. Da lettori – e come riteneva anche uno dei riscopritori ottocenteschi di Dante, Ugo Foscolo –, pensiamo al contrario che nel suo caso l’integrazione di queste riflessioni possa intensificare quel piacere. Soprattutto, ci auguriamo che ciò che il nostro lavoro aggiunge a ciò che sapevamo già su di lui, non sia percepito come ulteriori “nozioni” da studiare, ma come occasioni e spunti per riflettere, in modo concretamente interdisciplinare, sull’esperimento che Dante ha fatto su di e con sé. Speriamo infine che questo volume possa offrire ai docenti le coordinate per sostenere e arricchire i percorsi didattici che già propongono in classe: dalla rilettura dei rapporti del giovane Dante con i suoi corrispondenti, in primis Guido Cavalcanti, alla luce dello specifico contesto socio-politico fiorentino, e dalla riconsiderazione della Vita nova nella prospettiva della storia del genere autobiografico, alla nuova comprensione delle ultime prese di posizione di Dante di fronte al proto-umanesimo dell’Italia settentrionale e al problema essenziale di come intendere la relazione tra storia e letteratura, e dunque tra vita e opera, nella Commedia. È possibile, come abbiamo accennato, che proprio la natura dell’esperimento dantesco risponda a questioni ancora vive e sia lo stimolo più potente per il lavoro che ogni giorno, inevitabilmente, qualunque lettore, studenti e studiosi allo stesso titolo, compie rielaborando ciò che vive e ha vissuto. Di sicuro, crediamo che sforzarsi di capire e d’insegnare come, per mezzo di una ricerca sperimentale al di là di ogni monumento, “Dante è diventato Dante”, sia un buon modo per continuare a renderlo attuale.
NOTE
- C. Simpson, Chaucer courses to be replaced by modules on race and sexuality under University of Leicester plans, « The Telegraph », 20 gennaio 2021, consultabile qui: https://www.telegraph.co.uk/news/2021/01/20/chaucer-courses-replaced-modules-race-sexuality-university-leicester/.
- Ma si veda già per esempio l’appello Via la Divina Commedia dalle scuole. Ovvero razzismo istituzionale mascherato da arte, «Gherush 92. Committee for Human Rights», 6 gennaio 2012, consultabile qui: http://www.gherush92.com/news.asp?tipo=A&id=2985.
- Si veda ad esempio il recentissimo Forum su Dante and Pedagogy, a cura di K. Olson, «Dante Studies», 137, 2019, pp. 124-216, che raccoglie interventi di K. Olson, G. Cestaro, F. Coluzzi, C. Giunta, P.S. Hawkins, A. Kumar, F. Meier e V. Montemaggi, con bibliografia anteriore.
- Per questo approccio si vedano i saggi raccolti a cura di B. Deen Schildgen, in «Pedagogy», 17/3, 2017, pp. 449-512 e, come esempio, i tre volumi Vertical readings in Dante’s Comedy, a cura di G. Corbett e H. Webb, Cambridge, Open Book Publishers, 2015-2017.
- J. Steinberg, Quattro modi per rovinare Dante e un modo per salvarlo, «L’Indice dei Libri», 1 febbraio 2021. URL: https://www.lindiceonline.com/letture/quattro-modi-rovinare-dante-un-modo-salvarlo/.