Mi evoca ricordi, questo numero de «La ricerca». Ricordi legati al mio passato scolastico e formativo. Uno su tutti: quattordici anni, adolescente brufoloso e zazzeruto, sono in piedi in mezzo a decine di coetanei nell’atrio porticato del Liceo della mia città, dove mi sono iscritto per dare soddisfazione alla mia voglia identitaria e all’ansia di promozione sociale della famiglia. Tutto l’orientamento necessario si era concentrato nella frase dell’insegnante di lettere delle medie: «Ma sì, è bravo… può fare il Classico!» …
Arriva il preside per il saluto di benvenuto e sovrasta la folla assiepata, salendo i tre gradini che danno accesso a una delle ali dell’edificio. Il discorso è probabilmente noioso, motivo per cui non ne ricordo quasi nulla, se non questo passaggio: «Saluto in voi la futura classe dirigente!». C’è orgoglio, nel tono; forse anche supponenza: «siete qui» sottintende «e per questo solo fatto un giorno vi sarà dato il potere!». Mi guardo attorno e vedo qualcuno sorridere. Non so se ho mai riportato quella frase ai miei genitori, ma oggi sono certo che a loro non sarebbe parsa peregrina: da quel mio avvio agli studi classici, in fondo, credo si attendessero realmente la palingenesi familiare auspicata da generazioni.
Impiegato lui, casalinga lei, bersagli orgogliosi di qualche invidia parentale per quel 27 del mese che si offriva in garanzia alle cambiali, i miei non negavano a sé stessi il gusto del risentimento moralistico verso chiunque sembrasse approfittare del clima di sbracatura politico-economica che imperava in quegli anni (su tutti una coppia di vicini, disinvolti baby pensionati, sempre in caccia di occasioni di guadagno aggiuntivo).
Erano tempi più facili di quelli odierni, mi capita spesso di pensare: l’ascensore sociale funzionava per tutti, almeno sulla carta; il welfare, nutrito di conti sbagliati, assicurava a chiunque una parità di opportunità mai sperimentata prima; la società attorno prometteva ricompense più che adeguate agli sforzi profusi.
Poi, tutto è inevitabilmente evaporato. A me, impegnato nel mio cammino di crescita personale e sociale, favorito da una contingenza che ora so fortunata, i mutamenti sono apparsi chiari solo a posteriori: entrato nel mercato del lavoro appena in tempo per assistere alla fatica dei conoscenti più giovani, mi sono ritrovato a insegnare a classi sempre più smarrite di liceali, e a interloquire con genitori sempre meno sicuri dell’istituzione che rappresentavo.
Cambiato ambito lavorativo, ho visto trasfigurare in pochi anni mestieri antichi e blasonati, spesso soppiantati da professionalità inattese, vantate in curricoli tessuti di competenze e abilità, attitudini e propensioni, certificazioni ed esperienze lavorative precarie, frammentarie, spesso incongrue… Un mondo nuovo, insomma; meno scontato, se non del tutto ignoto. Sicuramente più impervio per le generazioni cui lo lasciamo in eredità. Penso a questo, quando guardo ai giovani di oggi, temendone il risentimento generazionale. Penso a questo quando guardo i miei figli, nati a cavallo del millennio.
A loro, in debito di fantasia e di coraggio, ho provato a proporre, nel corso degli ultimi due decenni, la stessa idea di “carriera” che in famiglia avevamo maturato mezzo secolo fa. Senza successo, per fortuna. Senza darmi retta quasi mai, hanno infatti preferito anteporre alla mia saggezza il loro entusiasmo; ai miei consigli i loro talenti.
Non so come andrà a finire per loro, se riusciranno a realizzarsi davvero, e a trovare la collocazione professionale più adatta alle loro attitudini. So però che li vedo, soddisfatti, seguire le proprie vocazioni, e questo credo sia un viatico per nulla scontato in questo presente così inquieto e disorientato.
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