Con la prima Rivoluzione industriale, grazie alla velocità e alla destrezza delle loro mani, le donne hanno visto crescere le opportunità d’impiego in molti rami dell’industria che andava meccanizzandosi; ugualmente, contribuendo a creare posti di lavoro puliti e poco faticosi all’interno degli uffici, l’informatizzazione ha reso più abbordabile per le donne il lavoro. Eppure, né nel primo caso, né nel secondo, l’aumento quantitativo delle opportunità ha contribuito, se non in modo minimo, ad annullare le differenze che persistono tra l’occupazione femminile e quella maschile; in nessuno dei due casi le donne hanno visto rimessa in discussione la loro prioritaria assegnazione ai compiti domestici e di cura. Ciò accade perché la divisione sessuale del lavoro non evolve con lo stesso passo dell’innovazione tecnologica, ma è sottomessa a una pesantezza storica che non consente altro che lo spostamento della frontiera tra ciò che è considerato prerogativa di maschile e femminile, senza mai rimettere completamente in discussione un meccanismo di allocazione delle opportunità e dei rischi fondata più sul genere che su altri fattori quali aspirazioni, competenze e talenti.
A questo proposito possiamo chiederci quali effetti stia avendo sul lavoro delle donne il processo di smaterializzazione dell’economia cui stiamo assistendo ormai da anni e che, nel contesto eccezionale determinato dall’emergenza Covid-19, ha subito in pochi mesi una brusca accelerazione. In particolare, per focalizzarsi su un tema oggi centrale e affrontato anche in altri contributi di questo fascicolo, vale la pena domandarsi se la diffusione del lavoro agile, o comunque da remoto, prima osteggiato e oggi non solo previsto dai DPCM ma anche più appetito dalle imprese interessate a ridurre i costi di gestione, contribuisca o meno a ridurre le asimmetrie che ancora persistono tra le due componenti di genere.
Mettere il femminile a valore?
In linea teorica sarebbe più che legittimo nutrire un certo, cauto ottimismo. Se il fordismo è stato caratterizzato dalla produzione materiale delle merci, che utilizzava a tal fine la forza del corpo (maschile), il capitalismo cognitivo incarna l’epoca della produzione della conoscenza che valorizza facoltà relazionali, comunicative e cognitive considerate, a torto o a ragione, tipicamente femminili. Anche tralasciando di entrare nel dibattito, pure vivacissimo, che si è sviluppato attorno alla pretesa “naturalità” delle competenze emotivo-relazionali nelle donne1, è indubbio che la smaterializzazione del lavoro, annullando almeno in parte l’importanza della forza fisica, renda il sesso del lavoratore una variabile neutra. Ma c’è di più. Come è noto, la forma che nel contesto del capitalismo contemporaneo tende ad assumere il lavoro ingloba, infatti, sempre più tempo e qualità soggettive; in questo senso, l’universo femminile, considerato naturalmente portato alla mobilitazione della soggettività, rappresenterebbe un modello cui si guarda con crescente interesse. Il fatto che nell’ambito di un’economia della conoscenza la qualità e la creatività del lavoro diventino fattori insostituibili della competitività delle imprese dovrebbe accompagnarsi così a una crescente femminilizzazione dell’occupazione. Le cose sembrano però andare diversamente. Le fonti statistiche disponibili a livello internazionale, ad esempio quelle messe a disposizione dall’OECD2 o i rapporti sul Global Gender Gap prodotti dal World Economic Forum, se da un lato mettono in risalto come le aziende guidate da donne siano maggiormente redditizie e assicurino ai propri azionisti un terzo di utili in più rispetto a imprese omologhe guidate da uomini, dall’altro evidenziano come le percentuali di donne in organico e quelle in posizioni apicali restino estremamente basse proprio nei settori più innovativi e, per questo, maggiormente al riparo dal rischio automazione.
Se, dunque, il “femminile” viene visto dal mondo produttivo come una risorsa, resta tuttavia ancora limitata la capacità di valorizzarla sul piano occupazionale. Di chi è la colpa? Una facile retorica tende a responsabilizzare le donne stesse, poco presenti in quei percorsi formativi in grado di garantire maggiori e migliori opportunità, come quelli denominati STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Certo, in tutti i paesi occidentali le studentesse continuano a mostrare, anche in virtù di una socializzazione allo studio fortemente condizionata da stereotipi di genere, una minore propensione verso lo studio delle materie scientifiche, ma questo dato, da solo, aiuta poco a spiegare gli esiti che si determinano sul mercato del lavoro. Se in Europa solo 29 laureate su mille hanno compiuto studi nel settore STEM, soltanto 4 di esse hanno la possibilità di trovare impiego nell’ambito in cui hanno studiato.
Al di là di una segregazione di genere che continua a caratterizzare i percorsi formativi superiori, persistono, dunque, forti barriere d’ingresso che ostacolano una penetrazione delle donne, anche di quelle che hanno acquisito le competenze richieste oggi dal mercato, all’interno dei segmenti più innovativi del mondo del lavoro. Il caso italiano è a tale proposito emblematico. Grazie anche all’introduzione di distorsioni positive, come la riduzione delle tasse universitarie per le studentesse che optavano per queste filiere, le donne rappresentano oggi poco meno della metà dei laureati STEM – una delle percentuali più alte a livello OECD – mentre i principali indicatori di riuscita degli studi universitari (durata e votazione finale) le vedono in una situazione di netto vantaggio rispetto ai colleghi. Eppure, anche in questo settore, le donne restano fortemente penalizzate nel mondo del lavoro sia sul piano dell’occupazione che delle retribuzioni. Secondo i dati Almalaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo il tasso di occupazione degli STEM è del 92% per gli uomini contro l’83% delle colleghe, e mentre i primi dichiarano di percepire una retribuzione mensile netta pari a 1.527 euro la cifra si ferma a 1.308 euro per le donne. Si tratta di uno scarto di retribuzione a parità di lavoro che a livello generale contraddistingue in negativo l’Italia – al 125° posto su 177 paesi – nelle classifiche mondiali. I fattori che concorrono a produrre questo esito sono molti. Nello stilarne una classifica, il World Economic Forum attribuisce il primo posto ex aequo alle discriminazioni inconsapevolmente operate dal management (maschile) e alla mancanza di opportunità di conciliazione tra vita lavorativa e vita privata.
Cosa fa la differenza
Partiamo dal primo aspetto. Quando si parla di discriminazione non si tratta soltanto di evidenziare la persistenza al governo delle aziende di network maschili che condizionano pesantemente le strategie di reclutamento, ma anche di sottolineare la “normalità” con cui, nelle pratiche quotidiane sui luoghi di lavoro, le donne vengono penalizzate in quanto tali. Sono molte le ricerche che evidenziano la presenza di comportamenti fortemente discriminatori nei confronti delle donne: questi vanno dall’esclusione dagli ambiti dove vengono prese decisioni strategiche per le imprese alle pressioni per accorciare i congedi di maternità; dall’essere destinate a mansioni meno qualificate dei colleghi maschi pur a parità di competenze all’accusa generalizzata di essere troppo aggressive; dagli apprezzamenti sessuali alle molestie. Poco serve, dunque, che le competenze richieste da certi settori produttivi siano ormai alla portata delle donne – perché le hanno acquisite attraverso percorsi formativi o perché ciò che viene messo a valore sono capacità considerate semplicisticamente come “tipicamente femminili” – se i contesti organizzativi nei quali il processo produttivo si realizza restano dominati da un ethos professionale maschile. Le donne continueranno a essere discriminate sia in modo diretto – si accorda una preferenza esplicita al lavoro degli uomini – che indiretto, rendendo più complessa la conciliazione tra vita lavorativa e quei compiti familiari che restano ancora largamente a loro carico. A questo proposito va citato il fenomeno delle opting out, vale a dire le donne che abbandonano il mondo del lavoro sotto la spinta congiunta delle pressioni familiari e delle barriere che sperimentano nei loro percorsi di carriera; l’importanza quantitativa di questo fenomeno è testimoniata dalla quota sempre più consistente di dimissioni volontarie da parte delle lavoratrici madri. Si tratta di donne, in alcuni casi molto qualificate, che si trovano a gestire la conciliazione come se si trattasse di una loro personale difficoltà piuttosto che di un problema di divisione e organizzazione sociale del lavoro.
E veniamo qui al secondo aspetto penalizzante, quello della conciliazione. Lo sviluppo di un’economia immateriale può certo aiutare a trovare quella flessibilità di tempi e di spazi che consente alle donne di meglio accordare la necessità (o il desiderio) di dedicarsi alla famiglia con il bisogno (o l’aspirazione) di avere un ruolo produttivo. Questa maggiore “possibilità di arrangiarsi”, tuttavia, non contribuisce necessariamente a rimettere in discussione il fatto che il lavoro riproduttivo (sia remunerato che non) e quello per il mercato vengano diversamente divisi tra uomini e donne. Sul piano quantitativo sono ormai molti gli studi che hanno evidenziato come le piattaforme digitali favoriscano l’accesso al mercato del lavoro proprio di quelle componenti sociali, come le donne, che normalmente ne restano ai margini3. Le ragioni che spingono le donne verso l’economia digitale piuttosto che verso quella tradizionale sono prevalentemente legate alla possibilità di meglio gestire la conciliazione tra esigenze diverse. Tuttavia, al di là del dato quantitativo, l’impatto che il lavoro attraverso le piattaforme digitali può avere sul gender gap è ancora poco chiaro. Ad esempio, uno studio realizzato da JPM nel 2016 ha messo in evidenza come più della metà dei partecipanti alle piattaforme che organizzano il lavoro da remoto le abbandoni dopo dodici mesi e, nella stragrande maggioranza dei casi a lasciare sono proprio le donne. Per l’Italia, l’Istat rileva come un contributo importante alla nuova imprenditoria provenga proprio dalla componente femminile4. In particolare, le neo imprenditrici, tendenzialmente più giovani e più istruite rispetto ai maschi, sono maggiormente presenti nei settori più innovativi. Questo dato va tuttavia inserito all’interno di un andamento più generale che vede, a partire dal 2008, un peggioramento del profilo occupazionale delle donne autonome. A ciò va aggiunto che soltanto meno di un quarto delle imprenditrici italiane, contro una media OECD prossima al 40%, manifesti un’attitudine verso il lavoro autonomo; meno della metà di queste dichiara di avere una percezione positiva rispetto al proprio business mentre solo 7 su 100 (sono 21 nella media dei paesi OECD) è convinta che questo avrà un’evoluzione positiva nell’arco dei successivi sei mesi.
Esistono, dunque, elementi fondati per pensare che quella del lavoro autonomo rappresenti per le donne italiane di oggi (così come è avvenuto in passato) più che una scelta vocazionale l’unica occasione, certo resa più facile e più appetibile dalla digitalizzazione, per riuscire a trovare un accordo tra aspirazioni professionali, la difficile penetrazione nel mercato e i carichi familiari che continuano a gravare ancora largamente sulle loro spalle. Non va inoltre dimenticato che la strada dell’autoimprenditorialità non è solo più incerta, ma ripropone accentuandolo il tema delle diseguaglianze: tra i lavoratori autonomi le donne guadagnano, infatti, meno della metà degli uomini.
Non c’è cambiamento senza uguaglianza
Al di là di ciò che sarebbe ragionevole aspettarsi, è necessario non solo guardare al modo in cui il processo che sta modificando totalmente il volto delle imprese e del lavoro si stia o meno traducendo in una disponibilità di maggiori e migliori opportunità d’impiego al femminile, ma, più in generale, verificare se, grazie all’organizzazione flessibile e condivisa del lavoro che sta al centro di questo nuovo modello, vengono rimessi in discussione i princìpi stessi sui quali si è sedimentata la divisione sociale e sessuale, e cioè che ci sarebbero delle occupazioni considerate “da uomo” e altre ritenute “da donna” (come si rende evidente nella persistenza di fenomeni come la segregazione orizzontale e quella verticale) che, tendenzialmente il lavoro fatto degli uomini “vale” più del lavoro fatto dalle donne (ne è indicativo il fatto che sulla base dei dati del WEF, a parità di occupazione le donne guadagnano il 43% in meno degli uomini). Attraverso i dati disponibili non è possibile rintracciare la presenza di significativi scostamenti rispetto a questo modello: le professioni svolte dalle donne, generalmente meno qualificate, presentano un maggiore livello di volatilità perché tendenzialmente più interessate dall’introduzione della tecnologia, come avviene tipicamente nel lavoro d’ufficio, in quello di servizio e nel commercio (rinvio alla lettura del rapporto WEF, The Future of the Job) l’innovazione si accompagna alla crescita di posti qualificati per gli uomini e di quelli meno qualificati per le donne.
È dunque evidente che se i settori economici innovativi continueranno a crescere in modo non proporzionale alla capacità delle lavoratrici di penetrarvi, queste rischieranno sia di veder svanire le opportunità occupazionali attuali sia di rimanere escluse da quelle migliori che si creeranno in futuro. In questa prospettiva, permanendo l’attuale divisione sessuale del lavoro, l’innovazione tecnologica non solo non avvantaggerà le donne, ma rischierà di penalizzarle pesantemente.
Spostare l’asse del valore verso la dimensione della conoscenza, sottolineare l’importanza dei talenti femminili (secondo l’espressione usata in proposito dal World Economic Forum5), riconoscere l’impulso positivo che le donne possono dare all’economia non basta, dunque, perché automaticamente si riducano gli svantaggi legati all’appartenenza di genere. La persistenza di meccanismi di allocazione del lavoro basati su un differenziale di potere tra uomini e donne continua a manifestare i sui effetti anche nel contesto della produzione immateriale. L’adozione di distorsioni temporanee, come l’introduzione delle quote rosa (Legge Golfo-Mosca del 2011) o l’abbassamento delle tasse universitarie per le ragazze che si iscrivono nei percorsi STEM, può certo generare effetti positivi, ma non esiste tuttavia nessun automatismo che consenta di immaginare che da queste azioni volte a “riconoscere” un posto alle donne ne derivino effetti virtuosi per quanto riguarda la redistribuzione delle opportunità tra i sessi: le donne che siedono nei board non necessariamente avranno la capacità, la forza o la voglia di rendere ugualmente vantaggioso per le imprese il reclutamento di altre donne; non sarà perché ci sono più laureate STEM che le imprese smetteranno di preferire degli uomini e di pagarli meglio.
Allo stesso modo, non sarà semplicemente grazie alla maggiore diffusione dello smart working indotta dalla pandemia che si riequilibrerà lo scarto di genere. Al contrario; la possibilità di operare più comodi aggiustamenti tra lavoro per il mercato e attività di cura rischia, paradossalmente, di legittimare un modello tradizionale di divisione del lavoro. I dati di ricerca relativi all’impatto della pandemia6 ci dicono in modo unanime che le donne sono state le più penalizzate sia sul piano quantitativo, vista la loro segregazione in settori che maggiormente hanno sofferto per il lockdown (come il turismo, la ristorazione, la cura) sia su quello qualitativo (lavorare da casa ha aggravato il carico di stress soprattutto per le madri). È quindi solo se uomini e donne potranno, e vorranno, ugualmente beneficiare del lavoro a distanza, ma ancora più se i carichi familiari saranno più equamente distribuiti che le trasformazioni in atto potranno rappresentare un passo avanti nella rivoluzione incompiuta delle donne.
Note
- Si rimanda qui, tra i molti, al saggio di N. Le Feuvre, N. Benelli, S. Rey, Relationnels, les métiers de service?, «Nouvelles Questions Féministes», XXXI (2), 2012, pp. 4-12.
- https://www.oecd.org/gender/.
- Si vedano in proposito, tra gli altri, L.F. Katz, A.B. Krug, The Rise and Nature of Alternative Work Arrangment in the United States, 1995-2015, NBR Working Paper, N° 22667, sept. 2016; OECD, How technology and globalisation are transforming the labour market, 2017.
- Si rinvia, in proposito, al Rapporto I profili dei nuovi imprenditori pubblicato dall’Istat il 23 dicembre 2017.
- The Future of the Job pubblicato dal World Economic Forum (WEF), 2016, consultabile all’indirizzo http://www3.weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs.pdf.
- Per riferimenti puntuali all’ampia documentazione in merito, si rinvia alla consultazione della rivista on line InGenere.it e in particolare all’articolo https://www.ingenere.it/articoli/perche-la-pandemia-non-ci-rende-tutti-uguali.
Per approfondire
- I. Biemmi, S. Leonelli, Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg & Sellier, Torino 2016.
- J. Hall, A. Krueger, An analysis of the Labour Market for Uber’s driver-partners in the United States, Working Paper Princeton University, gennaio 2015.
- ISTAT, I profili dei nuovi imprenditori, 23 dicembre 2017.
- J.P. Morgan Chase, The Online Platform Economy: Why Growth Has Growth Peaked?, 2016.
- OECD, The Global Gender Gap Report 2020.
- N. Palmarini, Le infiltrate: storia di ragazze e tecnologia, Egea, Milano 2016.
- A. M. Ponzellini (a cura di), Quando si lavora con le tecnologie. Donne e uomini nelle professioni dell’Information & Communication Technology, Edizioni Lavoro, Roma 2006.
- B. Gelli, G. Lavango, M. Mandalà, (a cura di), Essere donne al tempo delle nuove tecnologie, Franco Angeli, Milano 2007.