Erano (eravamo) giovani aspiranti docenti che si affacciavano all’insegnamento in condizioni assai complesse e tumultuose, caratterizzate da una forte espansione della scolarizzazione di massa e da un conseguente precariato di entità abnorme, di cui facevano parte1.
È giusto ricordare il contesto in cui nacquero le Dieci tesi perché la loro forte caratterizzazione “democratica”, marcata da quell’attributo che si richiamava esplicitamente al mandato dell’art. 3 della Costituzione, testimonia come quell’auspicato rinnovamento educativo avesse solide ragioni sociali e politiche. Ma nello stesso tempo, oggi, a 40 anni di distanza, quella caratterizzazione impone di interrogarsi sull’effettivo impatto avuto da quel documento, e su quanto davvero sia cambiata e in che direzione la didattica dell’italiano, per garantire quei principi che abbiamo indicato nel titolo di questa riflessione e che certamente erano fra le finalità strategiche di quel documento eLe finalità strategiche di quel documento e del movimento che le sosteneva erano comprensione, insegnabilità, inclusione. del movimento che le sosteneva: comprensione, insegnabilità, inclusione.
Erano queste le risposte che il Paese, alla fine del decennio della crescita economica e della forte migrazione interna, doveva dare agli squilibri socioculturali e alle sacche di emarginazione culturale e alfabetica che ancora lo caratterizzavano.
Per questi motivi, l’attuale quarantennale ha rappresentato, o avrebbe dovuto ancor più marcatamente rappresentare, l’occasione di un bilancio storico, forse con una declinazione generazionale, anche perché, sia detto più o meno per inciso, la generazione protagonista della lettura e dell’applicazione di quelle Tesi era quella che aveva avuto vent’anni attorno al 1968 e che da qualche anno sta progressivamente uscendo dalla scuola2. Questo bilancio avrebbe dovuto dirci se e quanto dello spirito e delle pratiche di quel documento e dei profondi cambiamenti che suggeriva siano stati recepiti dalla scuola e quanto abbiano effettivamente contribuito a rinnovare le pratiche didattiche nel “campo dell’educazione linguistica”, non solo per rispondere alle domande del passato, ma soprattutto per misurare la capacità di rispondere a quelle del presente. Vediamo dunque, per sommi capi, l’esito di quelle finalità strategiche.
Comprensione e partecipazione e alla vita attiva
Il problema dell’effettiva comprensione dei testi e più in generale delle molteplici forme di comunicazione contemporanea, come garanzia di partecipazione attiva alla vita democratica (uno degli assunti cardine della denuncia-progetto che Don Milani pose alla base di Lettera a una professoressa e che è certamente presente nelle Dieci tesi) si ricollega da un lato alla capacità della scuola di garantire adeguate competenze linguistiche, e dall’altro all’effettiva possibilità di fronteggiare l’evoluzione delle forme e degli strumenti della comunicazione di massa.
Sappiamo da riscontri diversi che lo stato di salute delle competenze linguistiche e culturali nel nostro Paese, a quasi tutte le età, fatta forse eccezione dei “lettori” più piccoli, è assai insoddisfacente. È lo stesso riconosciuto “padre” dell’educazione linguistica democratica, Tullio De Mauro, che ci ricorda sia i progressi compiuti, che i ritardi ancora da fronteggiare3.
È come se, man mano che la scuola tenta di incrementare le competenze linguistiche della popolazione, l’asticella dell’obiettivo da raggiungere venisse spostata sempre più in alto. Le caratteristiche della comunicazione contemporanea, in termini di pluralità e complessità dei contenuti e delle forme testuali veicolate da una infinità di media tra loro diversi, pongono l’intera comunità scolastica di fronte a compiti cui essa fatica certamente a adeguarsi. E intanto, la comunicazione contemporanea appare caratterizzata da mutamenti che certo non vanno nella direzione di una maggior gestibilità generalizzata dei messaggi, la cui comprensibilità è spesso molto più apparente che sostanziale.
Insegnabilità e resistenza al cambiamento
Di conseguenza, il problema dell’insegnabilità “democratica” della lingua impone, ancora una volta, una duplice riflessione su quale lingua – anzi quali linguaggi4 – sia oggi necessario insegnare e su come sia possibile farlo in modo coerente e adeguato ai tempi. Da questo punto di vista si ha la sensazione che alcuni dei presupposti e delle Il problema dell’insegnabilità “democratica” della lingua impone una duplice riflessione su quale lingua sia oggi necessario insegnare e su come sia possibile farlo in modo coerente e adeguato ai tempi.indicazioni delle Dieci tesi vadano riadattati al nostro tempo, ma sostanzialmente ribaditi. Li si potrebbe riassumere in quell’attenzione alle varietà linguistiche, al plurilinguismo e alla trasversalità della lingua che stava fra i capisaldi del messaggio delle Dieci tesi, ma che è stata anche una fra le istanze più disattese5.
L’insegnamento della lingua, in questi decenni, non solo non si è interrogato a sufficienza sulle trasformazioni in atto nella lingua italiana, inevitabilmente cambiata in seguito ai fenomeni sociali e culturali che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, ma soprattutto ha finito col confermare modalità tradizionali e spesso perdenti di (non) “fare italiano”, per usare il bel titolo di un’antica proposta editoriale di Raffaele Simone.
In una recente indagine della rivista «insegnare», svolta per misurare l’incidenza avuta dalle Dieci tesi sull’insegnamento dell’italiano, una delle domande chiedeva di dichiarare quanto si ritenessero oggi diffuse alcune pratiche didattiche6. La risposta è stata impressionante: tutte le prospettive e le pratiche didattiche che le Dieci tesi individuavano come auspicabili sono quelle a tutt’oggi (e forse più di ieri) meno frequentate dalla scuola (per esempio il coinvolgimento di tutte le discipline nell’insegnamento linguistico o l’attenzione didattica al parlato e all’ascolto), al contrario sono ancora e sempre più diffuse tutte le pratiche che le Dieci tesi consideravano deleterie (per esempio l’insegnamento normativo e trasmissivo della grammatica o la riduzione della scrittura alle sole pratiche del tema, riassunto e commento).
Inclusione e debolezza politica e culturale
Fortemente connessa alle prospettive dell’inclusione e del riscatto (di tutti e di ciascuno a partire dal rispetto e dalla valorizzazione del loro retroterra linguistico e culturale) sta ovviamente la modalità della scuola di rispondere alle vecchie e nuove diseguaglianze che in essa convivono e la attraversano, accentuando le resistenze selettive e discriminatorie o al contrario esaltando la capacità di prendersi cura dei disagi che quelle disuguaglianze producono. Il lavoro che la scuola compie in questa direzione continua a essere strenuo ed encomiabile, soprattutto nei luoghi “di frontiera”. Ma ancor oggi – forse più che nel 1975 – la scuola non può fronteggiare le disuguaglianze sociali fuori da un’azione coerente dell’intero contesto culturale, mediatico e politico, mentre, in realtà, spesso deve farlo nonostante o contro il contesto entro cui agisce.
In questi mesi abbiamo anche ricordato che le Dieci tesi non si rivolgevano solo alla scuola, ma erano una sorta di appello al mondo della cultura, all’Università, alle classi dirigenti, alle forze politiche e sociali.In questi mesi abbiamo anche ricordato che le Dieci tesi non si rivolgevano solo alla scuola, ma erano una sorta di appello “al mondo della cultura, all’Università, alle classi dirigenti, alle forze politiche e sociali”. Pertanto è a questo insieme di soggetti e di responsabilità che ci si deve rivolgere nel momento in cui constatiamo con amarezza che non tutto è andato come ci si sarebbe aspettati o quando verifichiamo quanto ancora oggi sia arduo dar corpo e continuità a quei principi7. La stessa editoria scolastica dovrebbe interrogarsi su quanto, in questi 40 anni, abbia orientato la didattica dell’italiano su strade più o meno vicine al dettato delle Dieci tesi oppure se, esaurita la spinta propulsiva degli anni Ottanta, non abbia preferito ripiegare su soluzioni più accomodanti.
La mancata risposta alle nuove sfide
Oggi, la possibilità di perseguire la comprensione, l’insegnabilità e l’inclusione appare del resto assai più complessa di allora, per l’insorgere di una serie di fenomeni noti e dei quali si discute ampiamente ma senza giungere a qualche concreta assunzione di responsabilità strategica.
Si ha la sensazione, anzi, che a fronte delle nuove sfide determinate dall’incremento dell’eterogeneità delle classi conseguente ai flussi migratori, ai vecchi e nuovi disagi che disoccupazione e nuove povertà determinano, all’incremento caotico dei consumi tecnologici e a una trasformazione dei media di massa troppo spesso più subita che analizzata, la scuola reagisca con pericolosi ripiegamenti difensivi su territori tradizionali, consolatori e solo apparentemente adatti a fronteggiarle.
In campo linguistico, la nostalgia per la grammatica tradizionale e la sempiterna “analisi logica”, così come per dettati e riassunti acriticamente riproposti, il ritorno massiccio della storia della letteratura, i “classici” di nuovo branditi come campioni di identità spesso velleitarie, i libelli di addestramento alle prove Invalsi, sono segnali di un riposizionamento del tutto antitetico agli insegnamenti delle Dieci tesi, che vengono riproposti come reconquista della serietà perduta, come argine e antidoto alle nuove barbarie, siano esse etniche, culturali o pseudo tecnologiche.
La scuola continua a trascurare la relazione educativa, ovvero la necessità di prendersi cura culturale e umana degli allievi, e continua a sottovalutare il ruolo dei contesti esterni nelle dinamiche di apprendimento.Si parla e si discute di migranti e di integrazione linguistica e si fanno passi avanti indubitabili nella ricerca e nella didattica dell’italiano come L2, si ragiona o per lo più si alimentano gare e progetti attorno alle innovazioni tecnologiche, s’immaginano alternative metodologiche capaci di fronteggiare la crisi strutturale della scuola, ma la sensazione resta quella di risposte episodiche, spesso governate più dagli interessi di parte o parziali dei promotori della riflessione che dall’esigenza di rispondere ai nuovi bisogni educativi.
Parallelamente si ragiona anche molto di nuove disabilità, universo che coinvolge fortemente le visioni di scuola e di società e che chiama a un’effettiva riconsiderazione delle reali capacità inclusive della scuola a fronte di tutte le variegate “diversità” che la attraversano, nei cui confronti è necessario adottare “soluzioni adeguate perché non diventino disuguaglianze”, come recita una delle frasi meglio concepite delle “Indicazione per la scuola di base”. Sembra però mancare uno sguardo d’insieme, una capacità progettuale che ridia alla scuola motivazioni, condizioni e strumenti per fronteggiare queste nuove sfide.
Lingua e realtà, oggi
Altre sollecitazioni che in questi anni si sarebbero dovute maggiormente cogliere vanno ripensate e tradotte in efficaci pratiche educative. La scuola continua a trascurare la relazione educativa, ovvero la necessità di prendersi cura culturale e umana degli allievi, e continua a sottovalutare il ruolo dei contesti esterni nelle dinamiche di apprendimento. Nei confronti della “realtà” – quella realtà così fortemente evocata nelle Dieci tesi come orizzonte permanente di confronto – la scuola continua a oscillare fra due estremi altrettanto infruttuosi: da un lato tende a ignorare il mondo esterno, a opporvi uno spesso sterile primato di una conoscenza fine a se stessa e a esaltare la qualità intangibile dei saperi disinteressati; dall’altro si piega a esaltare la funzionalità dell’educazione al mondo esterno, all’occupabilità, rincorrendo simulazioni o emulazioni della realtà che spesso finiscono col rendere il percorso scolastico un segmento di vita eccessivamente adattivo nei confronti di un futuro per altro in buona misura inconoscibile.
Ma la cultura – e con essa la scuola, se vuole mantenere, per tutti e non solo per i liceali un’impronta culturale – non esiste solo per preparare, addestrare, allenare alla realtà: la cultura e la scuola hanno il compito di osservare la realtà, studiarla, interpretarla, preparare a viverla, ma anche sottoporla a critica, immaginarne una diversa, contribuire a cambiarla, possibilmente in meglio.
La cultura e la scuola hanno il compito di osservare la realtà, studiarla, interpretarla, preparare a viverla, ma anche sottoporla a critica, immaginarne una diversa, contribuire a cambiarla, possibilmente in meglio.E la funzione del controllo personale dei linguaggi, come già sostenevano le Dieci tesi, in questo è determinante: di tutti i linguaggi, nessuno escluso, applicati a qualsiasi universo di sapere e di agire, con qualsiasi “medium” siano veicolati – purché sia affrontata seriamente la dialettica fra la capacità di usare i media per adattarli alle nostre esigenze e gli interessi di alcuni di forgiare i bisogni umani adattandoli ai media che noi stessi abbiamo prodotto. A scuola, per gli allievi, a partire dai più piccoli, questa esigenza di chiarezza e di coerenti scelte strategiche è ormai divenuta improcrastinabile.
Per questo avremmo forse dovuto utilizzare meglio le recenti ricorrenze, prima della scuola media unica e poi delle Dieci tesi, per chiederci che cosa in questi anni è cambiato davvero e che cosa si poteva fare di più e meglio. Tanto più che oggi abbiamo altri e ancor più consistenti problemi da fronteggiare.
Forse, invece di approvare leggi che fomentano nella scuola un’inopportuna quanto deleteria meritocrazia individuale (già nociva in tempi di espansione, figuriamoci in tempi di crisi polivalenti), sarebbe necessario avviare una consistente azione di ricerca e di intervento che coinvolga scuola, università e editoria nell’individuazione delle strategie più adeguate per affrontare, oggi, un contesto educativo per certi versi assai più variegato e complesso di quello che caratterizzò il decennio fra l’approvazione della scuola media unica (1962-63) e l’approvazione dei “Decreti delegati” del 1974 o, se si vuole, delle Dieci tesi (1975) e dei “Nuovi programmi per la scuola media” (1979).
Sarebbe spiacevole se fra altri quarant’anni una generazione che ha vissuto e vive i suoi vent’anni ora, tra crisi occupazionale, involuzione mediatica, espansione tecnologica e forti tensioni migratorie, dovesse registrare un’altra occasione perduta.
NOTE
1. «Il precariato all’inizio degli anni Settanta era più numeroso: era quasi la metà del personale allora in servizio, il che vuol dire che si aggirava permanentemente intorno al mezzo milione di unità. […] La crescita della scolarizzazione tra il 1960 ed il 1975 era stata così impetuosa da mandare in “tilt” non solo la macchina amministrativa della scuola italiana insieme agli equilibri sociali, ma anche il tradizionale sistema di reclutamento basato sul concorso», da Giuseppe Patroncini, Il lavoro di supplente, Valore scuola, Roma 2000.
2. In occasione di questa ricorrenza quarantennale, qualcosa si è fatto. In particolare Giscel e Cidi, le sigle che storicamente hanno dato paternità al documento e che da allora, insieme al Lend, ne curano la memoria e la diffusione, hanno realizzato convegni e riflessioni pubbliche. Al Giscel, inoltre, il sito dell’Enciclopedia Treccani ha affidato uno speciale dal titolo Quarant’anni dopo, le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, consultabile qui. Vi si possono leggere interessanti contributi di alcuni fra i più attivi testimoni di questa stagione. «insegnare», rivista del Cidi, ha aperto uno spazio dedicato all’Educazione linguistica democratica, che resterà attivo anche esaurita la fase commemorativa.
3. L’ultima occasione in ordine di tempo è stato per De Mauro l’intervento al Convegno nazionale del Cidi, Napoli, il 20 febbraio 2016, dove ha ricordato che «Ciò che è devastante (e che si ritorce contro la cultura dei giovanissimi) è l’incultura della popolazione: il 70% degli individui tra i 16 e i 65 anni ha difficoltà a capire un grafico, un articolo di giornale, e questi dati provengono dall’inchiesta “All”, un progetto di ricerca internazionale che tra il 2003 e il 2005 ha sondato in sette Paesi le competenze degli adulti»; cfr. “Una sfida ancora aperta”, report a cura di R. Angelelli, G. Calì, A. Gueli, in «insegnare» online, disponibile qui.
4. La distinzione fra lingua e linguaggio fu una delle pietre miliari di quella stagione, a partire appunto dal saggio di R. Simone, “L’educazione linguistica dalla lingua al linguaggio”, in R. Simone, a cura di, L’educazione linguistica, La Nuova Italia, Firenze 1979 (1976, nella precedente edizione su «Scuola e città»).
5. Sul ruolo e la vitalità di questi concetti, dalle Dieci tesi a oggi, si vedano, nel citato speciale dell’Enciclopedia Treccani, i contributi in particolare di Alberto Sobrero, Rosa Calò e Cristina Lavinio.
6. L’indagine, che aveva lo scopo di interrogarsi su quanto la scuola abbia davvero recepito l’indirizzo sociale, epistemologico e didattico di quel documento, è stata svolta presso cento insegnanti “informati dei fatti”, ovvero docenti che in questi anni avessero partecipato a iniziative di ricerca e formazione nel campo dell’educazione linguistica.
7. Scrive Adriano Colombo nel citato speciale per l’Enciclopedia Treccani: «Quando ci chiediamo, preoccupati e un po’ delusi, perché l’incidenza delle Tesi sulla pratica didattica sia stata così limitata, non dobbiamo pensare in primo luogo alla sordità del corpo insegnante, ma chiederci che cosa abbia fatto l’Università per la loro formazione, che cosa abbia fatto il Ministero dell’Istruzione, dove siano i “centri locali e regionali di formazione e informazione linguistica e educativa” che dovevano sostenere il cambiamento richiesto, quale sia stata la consapevolezza della questione linguistica nella politica, sulla stampa, nell’editoria».