Ife e radici
Molti studi mostrano come la solitudine sia un prodotto, un progetto e anche una malattia della modernità (Ferraresi, 2020). Sono circa tre milioni gli italiani che denunciano di non avere una rete stabile di amici e confidenti. La modernità ha dato forza e spazio all’individuo, promettendogli libertà da vincoli, autorità, tradizioni e quant’altro. Addirittura ha cercato di liberare l’essere umano da uno dei vincoli più saldi e duraturi, quello con l’ambiente in cui vive, con la Natura. Il modello sociale promosso è stato quello individualista piuttosto che cooperativo. Oggi vediamo le conseguenze e la veridicità di queste promesse. Esaltare l’individuo significa spezzare quegli intrecci di linee, quei reticoli che sono le comunità. E spezzare le comunità porta alla solitudine, a un aumento dei costi e a una riduzione dell’efficienza. In sostanza la solitudine costa cara. In termini economici, ambientali e sociali. Ora, come promesso in precedenza, vediamo un esempio di chi ha capito ben prima di noi che un reticolo è di gran lunga più vantaggioso di una società che lascia soli i propri componenti.
Nel 1997, Susan Simard, ecologa canadese, fece una scoperta strabiliante. Stava studiando quello che è definito un ambiente ecologico complesso, una foresta antica, e notò come alcuni alberi della foresta fossero capaci di comunicare tra loro. Gli alberi di un ecosistema simile sarebbero in grado di scambiarsi nutrienti, informazioni, segnali di pericolo e creare una comunità di mutuo appoggio. Tutto ciò sarebbe possibile grazie a un fitto reticolo di scambi sotterranei. Le radici delle piante si intrecciano con le ife dei funghi formando le micorrize, un legame fungo-radice. Tramite i funghi, le radici degli alberi entrano in relazione tra loro e sono in grado di comunicare. In questo modo i funghi ottengono prodotti derivanti dalla fotosintesi e forniscono nutrimento agli alberi. Allo stesso tempo questa unione creerebbe un immenso reticolo, una comunità che si estende nel sottosuolo e si mantiene in salute grazie alla ridistribuzione di cibo e informazioni. In questa comunità esistono delle “matriarche” – è così che le chiama Simard – degli alberi hub che costituiscono i centri nodali del reticolo. Sono i più longevi e i legami che stringono sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli dei più giovani. Sono le matriarche che per lo più si prenderebbero cura della comunità, favorendo la vita dei più deboli. Le attenzioni, inoltre, non sarebbero rivolte solo verso i membri della stessa specie (con cui il legame e più saldo), ma anche verso specie diverse.
Personalmente trovo tutto questo affascinante. Mi lascia a bocca aperta ogni volta che ci penso. Il Wood Wide Web – è così che si chiama questo fitto intreccio sotterraneo di funghi e radici – potrebbe rappresentare un perfetto esempio di come un mondo di linee e di nodi esista veramente, ma soprattutto di come le comunità intrecciate e coese siano di gran lunga più efficienti di società individualiste, slegate e frammentate[1]. Ancora una volta, la solitudine costa cara. È vero, può sembrare un pensiero egoistico. Non so se valga per gli alberi e i funghi, ma gli esseri umani potrebbero anche coltivare un sentimento di empatia verso i membri della comunità. Un motivo in più per non lasciare solo nessuno.
Oltre un mondo di oggetti
Il Wood Wide Web ci mostra come aggrapparci gli uni agli altri, intrecciare le nostre linee e produrre nodi di incontro sia un sistema efficiente e sostenibile a vantaggio dell’intera comunità. Mentre promuovere una società individualista e rompere i legami comunitari ha enormi risvolti negativi. Una città – la forma dell’abitare adottata dall’80% della popolazione europea e statunitense – funzionerà in maniera più efficiente, richiederà costi di gestione inferiori e genererà vantaggi meglio distribuiti (tra cui un aumento della felicità e una riduzione della solitudine) se i propri abitanti collaboreranno tra loro aiutandosi a vicenda. In sostanza, se si stabilisce una forma di corrispondenza e condivisione. Al contrario, se la città funziona in maniera individualista, alcuni massimizzeranno i benefici, mentre molti altri subiranno conseguenze negative e verranno lasciati ai margini, innescando un processo a cascata che danneggerà le capacità della città stessa.
Devo fare una precisazione. Percepire il mondo come intreccio e annodatura di fasci di linee significa qualcosa in più di vedere materialmente queste connessioni. Un mondo di linee e nodi è un mondo fatto non tanto di oggetti, quanto di processi, di flussi, di relazioni. Mi spiego meglio: prendiamo come esempio un albero. Tutti sappiamo cosa sia più o meno. Intanto, è qualcosa di numerabile. Se passiamo in un viale alberato, possiamo ben distinguere il numero di alberi che lo compongono. Possiamo contarli: uno, due, tre, quattro, dieci e così via. In questo caso percepiamo e trattiamo l’albero come un oggetto, qualcosa di fisso, immobile, delimitato. Un albero, però, è molto più di questo. È l’intreccio dei processi che avvengono all’interno e all’esterno. È l’energia solare che cattura attraverso la fotosintesi, è l’acqua che scorre al suo interno, è riparo per insetti, animali, piante, è anche scontro tra forze e competizione; in sostanza è l’intrico di relazioni che intrattiene con tutto ciò che lo circonda e lo costituisce. In quest’ottica un albero è un fascio di linee in movimento, in divenire, alla continua ricerca di relazioni che si formano e si disfano. E questo vale per tutto ciò di cui facciamo esperienza. Vale anche per noi esseri umani. Tutto, noi compresi, è un fitto intreccio di linee che si annodano in un processo continuo. È proprio perché esiste questo annodarsi continuo, questo movimento, che è possibile la vita. Ed è per questo che nulla può resistere se non produce una linea, e se questa linea non si intreccia con altre.
Esercitarsi nell’intreccio
Spero di essere stato abbastanza chiaro. Non è facile entrare in confidenza con modi di vedere e sentire a cui non siamo abituati. È una sorta di esercizio, per questo richiede allenamento. Ora, infatti, possiamo ben comprendere quanto sia distante questo modo di percepire il mondo dalla nostra esperienza quotidiana. Siamo abituati a vivere in una realtà di oggetti, che delimitiamo, numeriamo, classifichiamo, atomizziamo. Siamo attenti a distinguerli nettamente gli uni dagli altri. Il processo, il flusso e i movimenti che portano questi presunti oggetti a intrecciarsi tra loro tendiamo a porli in secondo piano o a non considerarli affatto. La nostra società, la modernità, ha portato a questo modo di vedere e sentire. Noi tutti abbiamo adottato questo modo di percepire il mondo, ciò che ci circonda e noi stessi. L’esito di un progetto simile è l’indebolimento dei legami e delle relazioni. Sappiamo sempre meno a riguardo, ci sfuggono, non le vediamo. I nodi si sciolgono. Il mondo di linee diventa sempre più freddo fino al cessare di ogni movimento. Siamo soli. Un’affollata solitudine.
Se così non fosse, non staremmo entrando in quello che è definito Eremocene o Era Eremozoica (Wilson, 2006). Il nostro tempo. Quello che stiamo contribuendo a costruire. Letteralmente l’Età della Solitudine. L’essere umano sta attuando questo processo di scioglimento delle relazioni, dei processi e dei flussi non solo tra le persone, ma anche con tutto il resto: gli animali, le piante, i batteri, le montagne, i fiumi, i mari e così via. Basti pensare che attraverso le proprie azioni ha incrementato il tasso di estinzione di circa 1000 volte rispetto al livello normale (si estinguono 50 specie al giorno – il dato varia a seconda degli studi). Questo non è un danno solo per chi concepisce il valore della vita e della diversità, ma anche per il benessere del genere umano stesso. Perdere biodiversità, ossia la ricchezza biologica di cui si compone la parte vivente del pianeta, significa alterare e spezzare le relazioni e i processi che la vita costruisce incessantemente. Ciò porta a un enorme impoverimento del mondo in cui viviamo e alle catastrofi a cui assistiamo. Ma soprattutto conduce all’Eremocene, a un’epoca e a un mondo in cui saremo sempre più soli. Un mondo estremamente più povero, che non ci possiamo permettere.
La solitudine è una condizione dell’essere umano. Ma l’uomo non è solo nell’Universo, come dicevamo all’inizio. Il vero problema è che non vediamo i pappagalli di Ted Chiang e non tendiamo l’orecchio per udire la loro voce. Non scorgiamo la ricchezza vivente che ci circonda e i legami che stringiamo con essa. C’è un mondo, vivente e ricchissimo, da scoprire e con cui vivere insieme, rispettando i processi che ci legano. La popolazione Salish della costa canadese, dove Susan Simard ha condotto i suoi studi, già sapeva di questi intrecci, del flusso che unisce gli esseri viventi. Prima ancora di ogni evidenza scientifica e del Wood Wide Web, percepiva le connessioni e i processi che si instaurano nella foresta, e tra questa e tutti gli esseri viventi e le cose, esseri umani compresi: un mondo di linee e di nodi.
“Mettere radici” in città
Come avrete notato non ho parlato molto delle città, perlomeno non direttamente. Tutto ciò che ho detto, però, serve anche per vedere le città in maniera diversa. E per farlo guardo in particolare alle piante. Molti hanno trovato conforto dalla solitudine proprio in questi meravigliosi esseri viventi durante i periodi di pandemia. Alcuni hanno curato il giardino, altri hanno allestito degli orti nello spazio di cui disponevano, altri ancora hanno comprato delle piante da appartamento di cui prendersi cura. Esistono molti studi che evidenziano come le piante siano in grado di donare benessere e contrastare la solitudine negli esseri umani.
Oggi le città dovrebbero fare entrare sempre di più le altre specie viventi al proprio interno. Dovrebbero essere pianificate in questo senso. Alcuni sforzi sono già stati fatti in questa direzione. Non sempre è possibile, la convivenza[2] non è compatibile con tutti. Anche questo significa vedere e sentire l’intreccio che ci lega gli uni con gli altri: comprendere che occorre lasciare spazio là dove la convivenza non è possibile. Con molte piante in città questo può avvenire.
Sono innumerevoli i benefici che apportano: riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo; controllo delle acque contro alluvioni e inondazioni; difesa dalle raffiche di vento; riduzione del calore urbano e molto altro. Tra i vantaggi ve ne sono diversi anche legati alla salute e al benessere umano. Le piante hanno un effetto socializzante sugli esseri umani, facilitano la socialità e l’incontro combattendo la solitudine. Inoltre tutelano e valorizzano la biodiversità. Detto in altre parole: creano un’affollata convivialità. Non solo tra gli umani, ma anche tra questi e gli altri esseri viventi.
In conclusione, penso che oggi le città, così come la nostra percezione del mondo e di noi stessi, debbano assumere il più possibile la conformazione di un fascio di linee. Per vivere dentro un mondo di nodi, in cui ogni sforzo sia fatto per non lasciare solo nessuno. Un mondo in cui la solitudine si combatte aiutandosi tra noi esseri umani e insieme a tutti gli altri, presenti e futuri.
Bibliografia
T. Chiang, Il grande silenzio, in id., Respiro, trad. it. C. Pastore, Sperling & Kupfer, Segrate 2019.
M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali, Einaudi, Torino 2020.
D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it. C. Durastanti e C. Ciccioni, Produzioni Nero, Roma 2019.
T. Ingold, Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, trad. it. D. Cavallini, Treccani, Roma 2020.
S. Mancuso, Plant Revolution, Giunti Editore, Firenze-Milano 2017.
E.O. Wilson, La creazione, trad. it. G. Barbiero, Adelphi Edizioni, Milano 2008.
Note
[1] I lavori di Susan Simard sono stati recentemente raccolti nel libro L’ albero madre. Alla scoperta del respiro e dell’intelligenza della foresta (Mondadori, 2022). Uno studio attuale ha suggerito, però, che ci sia ancora molto da scoprire sulle reti sotterranee tra funghi e piante. Le evidenze scientifiche sembrerebbero non essere ancora sufficienti per comprendere la reale consistenza e il funzionamento del Wood Wide Web. Inoltre quando si parla di piante si corre il rischio di antropomorfizzarle, ma allo stesso tempo si pone il problema di non ricadere in un esaltato antropocentrismo. Per ulteriori informazioni: https://sisef.org/2023/03/13/gli-alberi-rimangono-effettivamente-in-contatto-attraverso-una-wood-wide-web-ecco-cosa-dicono-le-prove/
[2] Per “convivenza” qui intendo una relazione che avviene in uno stesso spazio, determinata da prossimità fisica. La convivenza intesa invece come “vivere insieme” (da cum vivere) è un obiettivo da perseguire insieme a ogni specie sulla Terra. Occorre imparare a vivere e morire bene insieme su questo pianeta infetto, come direbbe Donna Haraway (Haraway, 2019).