Dentro un mondo di nodi #1

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Le città sono organismi multiformi, in costante divenire. Crescono in altezza e in larghezza. Nel “mondo occidentale” condensano l’80% della popolazione umana. Eppure, in questa caotica moltitudine, corriamo il rischio di sentirci soli. La solitudine è un prodotto e una malattia della modernità. A guardare bene, però, ha molto a che fare con la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri. Allora occorre esercitarsi a percepire gli intrecci, le linee, i nodi e le voci che giungono dall’interno e dall’esterno di un mondo che parla.

Qualche tempo fa ho avuto il piacere di realizzare un intervento per la serata di apertura di un ciclo di incontri dal titolo Le nuove solitudini. Durante l’evento si è parlato, per l’appunto, di “solitudine” nelle sue sfaccettature più ampie. Si potrebbe pensare che l’evento sia stato segnato da note di tristezza e nostalgia, dato l’argomento trattato. Al contrario, posso affermare che abbiamo trascorso un paio d’ore molto piacevoli, stimolanti e soprattutto riempite dal calore dei presenti. Per questo tengo ancora a ringraziare chi ha organizzato l’incontro e mi ha dato questa opportunità[1]. Quella che segue è la rielaborazione scritta dell’intervento, perché penso ci sia ancora molto da dire, allora inizio da qui.

Pappagalli e linee

Quando mi è stato chiesto di realizzare un discorso sulle “solitudini” in relazione alle città e alle piante, ho subito pensato che si trattasse di un posto davvero affollato per parlare di solitudine. In realtà, un accostamento simile non è per nulla sorprendente. L’incontro si è presentato, quindi, come l’occasione per approfondire un disagio e una condizione che molti di noi provano durante la propria vita. Inoltre mi ha dato l’opportunità di introdurre un ragionamento più ampio sul modo in cui tessiamo e percepiamo le relazioni con noi e con gli altri, quindi su come abitiamo il mondo, che penso sia un punto cruciale della nostra epoca (o un nodo da stringere con essa).
La solitudine si può considerare come uno stato, una condizione fisica, psicologica, materiale, ma anche una situazione temporale: passeggera, continuativa, cronica. I volti che questa condizione può presentare sono molteplici, anche solo in riferimento ai soggetti che ne fanno esperienza. Per prima cosa, tenterò qui di suddividerli in macrocategorie: la solitudine può riguardare un individuo, un gruppo e il genere umano nella sua interezza.
Un individuo, un essere umano nel nostro caso, nel corso della vita può percepire una o molteplici volte una sensazione di solitudine, perché abbandonato dalla famiglia, dagli amici, dagli affetti, o perché impossibilitato a essere assistito da questi. Pensiamo a quanto accaduto recentemente durante l’insorgere della crisi pandemica. Una delle conseguenze più gravi generate dalla diffusione del Covid-19 con i relativi periodi di quarantena è stata proprio l’isolamento degli individui e spesso delle categorie più deboli (anziani, bambini ecc.). Un gruppo, a sua volta, può essere coeso al proprio interno, ma isolato da un contesto più ampio: pensiamo ai gruppi che si sentono soli, abbandonati perché non rappresentati, ascoltati, compresi da quelli dominanti (molte minoranze). Anche lo stesso genere umano, Homo sapiens, che oggi conta poco meno di 8 miliardi di individui e cresce in maniera esponenziale, vive e si percepisce in una continua condizione di solitudine. Solo, alla ricerca di vita intelligente nell’universo.

Il radiotelescopio Arecibo, a Puerto Rico, ha tentato fin da inizio anni Sessanta di dare una risposta alla domanda di Enrico Fermi: «Dove sono tutti quanti?». Fino a ora l’unica risposta ricevuta è stata un assordante silenzio. Mentre l’orecchio degli esseri umani è teso verso l’esterno, le voci non-umane sulla Terra stanno diminuendo proprio a causa delle azioni antropiche. Fonte Wikisource.

A questo proposito, esiste un racconto che ritengo di grande ispirazione e impatto emotivo, Il grande silenzio di Ted Chiang, a cui si è ispirato Denis Villeneuve nel film Arrival, uscito nelle sale cinematografiche qualche anno fa. Il grande silenzio o Paradosso di Fermi ci pone la domanda sul perché siamo così soli: l’universo è talmente vasto e vecchio che la vita dovrebbe essersi presentata molteplici volte ed espansa in questo spazio. Alcuni, per rispondere, ipotizzano che la vita intelligente si nasconda per sfuggire a invasori ostili; che le specie “intelligenti” si estinguano prima di espandersi; oppure che siamo arrivati un attimo dopo che la festa sia finita: è rimasto solo un silenzio assordante.
Nel Grande silenzio Ted Chiang prende il punto di vista di un pappagallo e dice:

Gli umani usano Arecibo [un gigantesco radiotelescopio] per cercare segni di un’intelligenza extraterrestre. È così forte il loro desiderio di stabilire un contatto che hanno creato un orecchio in grado di sentire l’intero universo. Ma io e gli altri pappagalli siamo già qui. Perché agli umani non interessa udire la nostra voce? (Chiang, 2019, p. 223)

Aggrapparsi

Presto torneremo dai pappagalli di Ted Chiang, non dimentichiamoli, ma per il momento concentriamoci su quanto stavamo dicendo.
Parlavamo delle diverse condizioni di solitudine e dei diversi gradi in cui essa si può manifestare. Quello che non abbiamo detto è che la solitudine non sempre si presenta come negativa o come un’imposizione. Esistono persone che ne fanno uso come risorsa per seguire una propria esigenza e un percorso, come gli eremiti. Anche noi, nella nostra quotidianità possiamo ritagliarci dei momenti di isolamento e godere di questi istanti. Solitamente, ciò deriva da una condizione accompagnata da una percezione di armonia con sé stessi, con il contesto e il tempo in cui siamo immersi. Al contrario si può percepire la solitudine come fattore negativo anche quando siamo circondati da molte persone.
La solitudine sembra quindi essere una condizione fisica e percettiva allo stesso tempo. Uno stato che riguarda il modo in cui percepiamo, vediamo e sentiamo noi stessi e l’Altro. In questo senso, diventa fondamentale capire come siamo soliti percepire ciò che ci circonda e la nostra relazione con tutto questo. Riprendo allora il lavoro di Tim Ingold, antropologo dell’Università di Aberdeen in Scozia, per cercare di combattere questa condizione diffusa di solitudine che ci affligge.
Ingold suggerisce una visione del mondo e delle relazioni come intreccio di linee. Immagino queste linee incontrarsi, scontrarsi, dialogare, curvarsi, annodarsi e produrre vortici di relazioni. Un mondo in cui i nodi, generati da queste linee in movimento che sono gli individui che lo abitano, rappresentano i luoghi di massimo incontro e relazione. È dentro ai nodi, dentro questo mondo di linee, che probabilmente possiamo percepirci meno soli. Questo modo di percepire potrebbe essere difficile da comprendere immediatamente. È normale. Per cercare di essere più chiaro mi affido a quanto scrive Tim Ingold:

Da bambini, la prima cosa che abbiamo fatto è stata afferrare. Non è incredibile quanto siano forti le mani e le dita dei neonati? […] Anche gli adulti si aggrappano: ai loro figli, naturalmente, per paura di perderli, ma anche gli uni agli altri alla ricerca di sicurezza, o in espressioni d’amore e di tenerezza. E si aggrappano a cose che sembrano offrire una parvenza di stabilità. In effetti ci sarebbero buoni motivi per supporre che nell’aggrapparsi – o, più prosaicamente, nello stringersi l’uno all’altro – stia l’essenza stessa della socialità: una socialità, naturalmente, che non si limita all’umano, ma si estende alla vasta gamma di creature che si aggrappano e delle persone o delle cose a cui si attaccano. Ma che cosa succede quando le persone o le cose si aggrappano l’una all’altra? Le loro linee si intrecciano. […] Nulla può resistere a meno che non produca una linea, e a meno che quella linea non si intrecci con altre. Quando tutto si intreccia con tutto il resto, il risultato è quello che io chiamo “reticolo” (meshwork). Descrivere il reticolo significa partire dalla premessa che ogni essere vivente è una linea o, meglio, un fascio di linee. (Ingold, 2020, pp.5-6)

Da qui in avanti vorrei suggerire di vedere e sentire il mondo in questo modo. Proverò, allo stesso tempo, a mostrare come la nostra epoca si opponga drasticamente a questa modalità di percepire e come ciò generi solitudine. Farò alcuni esempi concreti di come siamo immersi in un mondo di linee, che genera reticoli, e di come questa nuova percezione possa aiutarci a sentirci meno soli, essere più efficienti e costruire comunità coese e variegate. Comunità che non riguardano solo gli esseri umani, ma anche i non-umani: gli animali, le piante, i batteri e i virus.

[continua]


Bibliografia

T. Chiang, Il grande silenzio, in id., Respiro, trad. it. C. Pastore, Sperling & Kupfer, Segrate 2019.

M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali, Einaudi, Torino 2020.

D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it. C. Durastanti e C. Ciccioni, Produzioni Nero, Roma 2019.

T. Ingold, Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, trad. it. D. Cavallini, Treccani, Roma 2020.

S. Mancuso, Plant Revolution, Giunti Editore, Firenze-Milano 2017.

E.O. Wilson, La Creazione, trad. it. G. Barbiero, Adelphi Edizioni, Milano 2008.


Note

[1] Ringrazio in modo particolare Banca del Tempo di Chieri e Ornella Angelino, il Comune di Chieri e la professoressa e relatrice Manuela Olia.

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Andrea Nocera

è laureato in Storia e in Antropologia. Negli ultimi anni, anche grazie al Master “Futuro Vegetale”, si è avvicinato al mondo delle piante, da cui trae ispirazione per indagare i rapporti umano-non umano e immaginare modi di abitare più integrati.

Oggi lavora nel gruppo di ricerca della Fondazione Futuro delle Città di Firenze, collabora come autore e revisore di testi per Lœscher Editore e altre case editrici ed è co-fondatore dell’Associazione Fungi CollectIF.

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