Se c’è un tema politicamente rischioso nella scuola di oggi, è quello a cui abbiamo deciso di dedicare questo nuovo numero della Ricerca: l’educazione di genere, la sessualità a scuola, la polemica sull’«ideologia gender», il bullismo omofobico… Lo abbiamo fatto, ovviamente, non per amore di polemica, ma perché tirati in ballo da giudizi e critiche su didattica, libri di testo, proposte formative. Abbiamo provato a sentire tutti, compresi coloro che hanno opinioni molto lontane dalle nostre: molti hanno risposto, alcuni no.
Poco male. Nulla di ciò che compare in questo fascicolo sfugge alla logica e al controllo cui sottoponiamo tutto ciò che pubblichiamo.
Per quanto mi riguarda, incombendomi l’onore dell’editoriale, mi limiterò a esprimere sommessamente un sentimento, più che un pensiero.
Tra i personaggi che hanno contribuito alla mia formazione adolescenziale c’è (c’è stato, purtroppo) un comico italiano recentemente scomparso: Giorgio Faletti.
Straordinario lui, meravigliose le sue creature. Su tutte, Vito Catozzo, poliziotto panciuto e sbruffone; meridionale e ignorante; padre di un giovane tanto amato quanto ignorato. Il tormentone porco il mondo che c’ho sotto i piedi tramava tutte le frasi esilaranti che dedicava al figlio: «Che se saprei che mio figlio mi diventerebbe ricchione, porco ‘l mond’ c’ho sott’i pied’, vivo ce la faccio mangiare la borsetta!». La comicità scaturiva, anche e soprattutto, da questa testimonianza di candida insipienza: «Ma tuo figlio è ricchione!», pensavamo tutti noi spettatori. «Come fai a non accorgertene?».
Lo sketch si ripeteva sempre identico a sé stesso, e funzionava sempre, con puntualità e precisione. Il motivo, probabilmente, stava nella possibilità che ci veniva offerta di ridere (e deridere) il luogo comune dell’italiota ignorante (e meridionale) cui si potevano serenamente attribuire quegli atteggiamenti e quei limiti mentali e culturali. Non ci accorgevamo, noi giovani divertiti e illuminati, che in realtà il personaggio si costruiva non su uno, ma su due stereotipi. Su quello intellettualista “socratico” che vuole che la cultura e la conoscenza siano di per sé rimedio ai mali del mondo. E su quello, inconsapevolmente omofobico, che pretende che il diverso sia riconoscibile da atteggiamenti e indizi evidenti ed etichettabili.
Il cammino che ha portato me (e molti con me) a una consapevolezza diversa delle cose è stato lentissimo e quasi inavvertito, tanto che oggi posso (possiamo?) guardare indietro con una sensazione di straniata inappartenenza: ero io? eravamo noi? pensavamo davvero questo? davvero ridevamo di ciò?
Lo stesso sentimento, insomma, che rivolgo (rivolgiamo?) anche a tutti coloro che quel cammino non lo hanno voluto o potuto fare, o lo hanno indirizzato altrove: quelli che ritengono che la tolleranza si debba riservare a certe categorie di persone, e negare ad altre; che il rispetto, se male indirizzato, mini le radici della nostra società; che la fede, se bene intesa, vieti espressamente certe scelte identitarie; che i giovani, facilmente plagiabili, vadano educati in modo severamente controllato e regolamentato.
La sorpresa sta nel fatto che, il più delle volte, a sostenere ciò non sono ignoranti e divertenti “vitocatozzi” panciuti, ma persone mediamente (se non molto) colte, mediamente (se non molto) raffinate, a loro modo sensibili e seriamente preoccupate del benessere dei propri figli e della salvaguardia del mondo in cui credono.
Persone, insomma, tanto spaventosamente simili a me, da condividere con il sottoscritto il primo degli stereotipi di cui si parlava: quello secondo il quale “bene” è la conoscenza, “male” è l’ignoranza.
Solo che, per loro, l’ignorante sono io.
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