Attraversare in macchina la puna, l’altopiano andino a 4000 metri di altitudine ricoperto da una steppa riarsa, è come navigare in un immenso oceano secco, con auchenidi (lama, alpaca, vicuña) invece di delfini e pesci volanti. Al posto del mal di mare, si patisce il soroche, il mal de altura che provoca vertigini, emicranie e affanni al minimo sforzo. L’unico modo per alleviarlo è bere un infuso di foglie di coca, la pianta sacra che l’uomo bianco ha profanato trasformandola (prodigi della chimica) nella droga preferita del capitalismo nordamericano.
La traversata della puna, guidando su una pista di terra, può sembrare infinita. I gruppi di case, costruite con mattoni di terra e tetti di lamiera ondulata o più tradizionalmente di paglia compattata, sono isolati e rari come scogli. Neanche un negozietto per chilometri: qui quasi tutto è autoprodotto. Le donne portano il cappello e vestono le polleras, gonne coloratissime sovrapposte come strati di cipolla. Se un forestiero rivolge loro la parola, magari per un’indicazione, lo guardano con diffidenza, specie se è un bianco, un wiracocha.
Nel bel mezzo di questo nulla, un bambino accanto a una mandria di lama fa un gesto come per fermarci. Ha un poncho dello stesso colore dei cespugli bruciati dal sole e un secchiello di plastica in mano. Fermiamo la jeep per sentire cosa vuole: chiede acqua da bere in perfetto spagnolo. Gli porgo la mia bottiglia di minerale ma la rifiuta.
«Non avete acqua semplice?». E si scusa: «Non è per me, è per Yasha, a lei non piace la minerale con gas».
Non vedo nessuna bambina nei dintorni ma gli do lo stesso la tanica dell’acqua per il radiatore. Ne versa un poco nel suo secchiello, poi lo porge a una lama con dei ponpon rossoblu e la fa bere. Yasha, che in quechua vuol dire “lenta, grassottella”, beve con avidità, poi fa un ruttino educato, soddisfatto. Sembra accennare un sorriso di ringraziamento.
«E le altre?», chiedo.
«No, le altre non hanno sete».
«E tu come lo sai?».
«Perché me lo hanno detto».
«Lei te l’ha detto?».
«Mica solo lei parla. Tutte e ventotto si fanno capire molto bene. Quando vogliono, chiaro».
Qui la cosa si fa interessante. Un testo peruviano del XVI secolo, Dioses y hombres de Huarochiri, una raccolta di antiche tradizioni orali delle Ande, racconta di una lama come questa diventata celebre per aver avvisato il suo padrone, prima con pianti e lamenti, poi a parole, di un imminente diluvio universale, convincendolo a rifugiarsi in una grotta sul picco di una montagna e a salvarsi così dalla fine del mondo. Yasha e il suo piccolo badante valgono ben una sosta, non fosse altro per capire che lingua parlano gli auchenidi.
La conversazione con David, un bambino di dodici anni perfettamente bilingue (quechua e spagnolo) che sembra più piccolo della sua età, si rivela in effetti significativa. L’intero gregge appartiene alla sua famiglia, a parte i due animali più piccoli, affidati temporaneamente da un vicino. È il minore di cinque figli e trova naturale dover pascolare i lama alternandosi con una sorella: fanno un giorno per uno. Ritiene normale che sia così; negli anni precedenti se ne erano occupati gli altri fratelli, adesso tocca a loro. David va a scuola tre volte a settimana. Impiega quasi due ore a piedi per arrivarci, ma non perde neanche una lezione; gli piace moltissimo studiare, specialmente storia e geografia. Da grande vuole fare il capitano di una nave, comandare un traghetto sul lago Titicaca. «È il lago navigabile più alto del mondo», mi informa con orgoglio. Quando gli racconto che da noi per far addormentare i bambini si dice loro di contare le pecorelle, ride divertito.
«Io queste le conto per rimanere sveglio», mi spiega, «anzi le chiamo per nome una ad una», si corregge.
«Ti ricordi i nomi di tutte e ventotto?».
«Di certe conosco anche il soprannome».
«Te l’hanno detto loro?».
«No, loro no, le altre».
«Ah».
Ma una domanda mi preme più di tutte. «Questo pascolare le llamitas lo consideri più un passatempo, un compito come quelli della scuola, un lavoro o come?».
Ci pensa su un poco, poi con il suo spagnolo lento e preciso, imparato sui banchi, dice così: «Per me è come fosse un recreo, la ricreazione che si fa a scuola. A loro invece», e indica il gregge, «cercare i pochi germogli e un po’ d’erba verde deve sembrare più un lavoro, però piacevole».