Dante, Manzoni e Papa Francesco

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Misericordia e coscienza: note “letterarie” a margine alla lettera del Papa a Repubblica.

manfredi

Non so a che titolo un professore di Lettere come me, per di più studioso di antichità classiche “pagane” possa commentare uno scritto del Papa: probabilmente a nessun titolo, poiché privo della necessaria attrezzatura teologica o dottrinale. Però se lo scritto del Papa compare sulle prime pagine di un quotidiano, come è capitato il giorno 11 settembre sulla Repubblica, le cose cambiano: indirizzato al giornalista Eugenio Scalfari, quel testo sembra infatti scritto per ciascuno di noi, credente o non credente; e dunque anche per chi come il sottoscritto – al pari di molte altre persone dalle più diverse convinzioni religiose – ha riscoperto col magistero di Papa Francesco la voglia (o la necessità?) di sentire la voce del Pontefice. Di un Pontefice che, tra l’altro, si è pure finora rivelato sul “caso Siria” il leader politico e spirituale più ascoltato della terra.
Ho dunque parlato con i miei studenti di quella lettera, pensando anzitutto che, al di là del contenuto, l’evento mediatico in sé meritasse una riflessione in classe: un Papa che telefona, twitta, si fa fotografare coi fedeli e scrive ai giornali è infatti una novità significativa. Ma è soprattutto il contenuto di quel testo a stampa che merita la giusta attenzione, poiché ritengo che sia destinato ad avere un peso – morale, ma anche teologico – che va bene al di là dell’effimera vita di un quotidiano. C’è infatti in quello scritto un passaggio che non può – anche a un lettore superficiale – non apparire come dirompente, ed è quello che riporto qui sotto.

Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

E io credo che il nodo di questo passo sia l’espressione anche per chi non ha fede, che da un lato esalta, com’è evidente, l’esperienza umana ed etica dei non credenti, e dall’altro sembra dire (con quell’anche) che pure per i credenti l’obbedienza alla coscienza è più importante (o almeno ugualmente importante) di quella alla morale codificata o alla dottrina. Il tutto da leggersi nel contesto di una concezione del cristianesimo dove la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito.
Certo, questa non è un’enciclica (che mai potremmo commentare in questa sede!), ma è pur sempre una parola messa per iscritto dal successore di Pietro, e non vi è dubbio che si tratti di frasi pesanti, diverse da quelle che abitualmente siamo abituati ad ascoltare da parte della massima autorità della Chiesa Cattolica. Eppure questi appelli alla misericordia divina o al primato della coscienza non sono estranei alla tradizione del cristianesimo, e giustamente alcuni commentatori hanno parlato per il Papa gesuita di una forte inclinazione agostiniana. Vorrei però ricordare come idee simili siano state veicolate nel  tempo anche attraverso la testimonianza di quelli che sono – per unanime consenso – gli scrittori più profondamente religiosi della nostra letteratura italiana, cioè Dante e Manzoni. E qui entra in gioco, con tutti i limiti del caso, il professore di Lettere…
Sarà forse una deprecabile deformazione professionale, ma la lettura della lettera di Papa Francesco mi ha subito richiamato alla mente due passi letterari assai famosi e oggetto di una ricca produzione critica, che tutti conosciamo e abbiamo “fatto nostra”: si tratta di Dante, Purgatorio, III, vv. 112 ss. e Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXI passim. Misericordia divina e coscienza, infatti, sono presenti in entrambi i brani in forme che – per certi versi – non mi paiono troppo lontane da quelle di cui parla il Pontefice.
Ma andiamo con ordine, analizzando brevemente Dante, Purgatorio, III, vv. 112 ss.

Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’ io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei […]”

Come è noto, nell’Antipurgatorio Dante incontra Manfredi, il figlio di Federico II di Svevia, biondo… bello e di gentile aspetto. La straordinarietà di questo incontro è il fatto che Manfredi sia stato nella sua vita più volte scomunicato (da Innocenzo IV e Alessandro IV), e addirittura – dopo la sua morte – dissepolto dal vescovo di Cosenza suo nemico, col placet di papa Clemente IV. Dante, come tutti noi, sapeva che i peccati di Manfredi erano agli occhi del Papato sostanzialmente politici, in quanto egli era leader di quella fazione ghibellina che voleva perpetrare quella “laicità” dello Stato che già era stata perseguita da Federico II; e sapeva che la scomunica (che per i cristiani comporta a tutti gli effetti l’esclusione dalla Chiesa e dalla salvezza…) era dunque un atto immeritato, eccessivo, ed era stata sancita da quella stessa Autorità che aveva tramato contro di lui provocandone l’esilio. Non ebbe dunque paura di affermare che la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei, e cioè che Dio – la cui misericordia non ha limiti, direbbe Bergoglio – ha apertamente disapprovato l’operato terreno del Papato. D’altronde Manfredi si era rivolto a Dio con cuore sincero e contrito, e sapendo che lui volontier perdona gli ha confessato in lacrime “orribil furon li peccati miei”, raggiungendo così il Purgatorio e di conseguenza quella futura salvezza che viene già qui sottolineata dal sorriso del personaggio (Poi sorridendo disse).
Chi legge avrà dunque visto che – in modo forse filologicamente scorretto – ho mescolato le citazioni dantesche a quelle del Pontefice: eppure il discorso tiene, mi pare, e rende ragione della straordinarietà di entrambi i testi. Mi si potrà obiettare che comunque Manfredi è – pur se a modo suo – già un credente, e questo è indubbiamente vero; ma è un credente che non ha paura di seguire la sua coscienza, prima nella sua azione politica, poi nel pentimento e nell’affidamento a Dio, quando capisce – seppure in punto di morte –  ciò che viene percepito come bene o come male. Egli ha dunque inizialmente una coscienza della dignità e autonomia umana, che – come sovente capita – porta anche a eccessi peccaminosi. Ma gli subentra poi una coscienza del peccato, che lo spinge ad un’interlocuzione diretta con Dio, che – come si è visto – bypassa alla grande i provvedimenti di scomunica che la Chiesa gli aveva inflitto.


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Passiamo ora all’Innominato, protagonista di Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXI passim. Tutti ricordiamo il suo turbamento interiore dopo il rapimento di Lucia, prigioniera nel suo castello: ecco dunque due momenti significativi di questa rappresentazione letteraria.

E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, – ora, – gli disse, – metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va’ di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi… ma subito subito, perché altrimenti… Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. – No, – disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella voce segreta, – no: va’ a riposarti; e domattina… farai quello che ti dirò! “Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile su una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. – Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!… […]
M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio… – Dio, Dio, – interruppe l’innominato: – sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi…? – e lasciò la frase a mezzo. – Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a *** dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui… ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!

Il primo passo pone l’accento sulla voce segreta che parla con forza dal cuore e dalla mente (dalla coscienza, dunque?) dell’Innominato, mentre il secondo – dove egli parla con Lucia – vede la contrapposizione tra la fiducia della ragazza sul fatto che la misericordia di Dio non ha limiti (ella dice infatti: Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!) e l’idea dell’Innominato che Dio sia un’invenzione consolatoria dei poveracci.
Noi sappiamo come andrà a finire, e cioè che l’Innominato si convertirà; e che la sua è sì una conversione alla Fede cristiana, ma prima ancora una conversione alla scelta etica del bene (la bontà) dopo l’abbandono – direbbe Papa Francesco – della malvagità del nostro agire. Qualcosa di più ricco e pieno, dunque, dell’avvicinamento a Dio del Napoleone del Cinque maggio, che la Storia ha condannato ad una malinconica “inazione” nell’esilio di Sant’Elena,  contrariamente a quanto accade all’Innominato, che – in quanto personaggio – gode della libertà della fiction. Quest’ultimo non vede Dio, come dirà nel Capitolo XXIII al Cardinale Borromeo (“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”), eppure sente la coscienza che si logora e gli impone una trasformazione morale senza precedenti; e Federigo – con una frase che sembra anticipare la riflessione odierna – gli fa capire l’estrema affinità proprio tra quella coscienza e Dio, quando alla domanda Dov’è questo Dio? risponde: “Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?”.
Grande, il Manzoni, e straordinariamente laico nella profonda e tormentata religiosità del suo romanzo senza idillio, secondo la definizione di Ezio Raimondi. Non si accontenta certo di un Innominato che diventi “buono”: lui lo vuole credente, pronto ad accettare la “scommessa” di pascaliana memoria e lo fa divenire tale tra le braccia di un Principe della Chiesa. Eppure è proprio quel Principe a dirgli che questa scelta non è la semplice affiliazione a una comunità spirituale: è qualcosa – ripeto la citazione – che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira… In estrema sintesi è la risposta alle profonde inquietudini della sua, della nostra, coscienza, che si manifesta talora come voce segreta. Risposta che può portare verso il Dio cristiano ma anche verso altre religioni, o semplicemente verso quella bontà… del nostro agire che molti non credenti praticano con rigore. Risposta che può portarci a diventare – direbbero i Vangeli – uomini di buona volontà e fare, come ricorda il Pontefice a Eugenio Scalfari, un tratto di strada insieme che speriamo possa essere il più lungo e fruttuoso possibile. Un tratto di strada che (perché no?) possiamo percorrere anche in compagnia di Dante, Manzoni e di altri grandi esponenti della nostra cultura, nella convinzione che la Scuola possa essere, pur con tutte le sue contraddizioni, un luogo dove i giovani possano acquisire sì conoscenze e competenze, ma anche strumenti che li aiutino a decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male: a sviluppare, cioè, una piena coscienza di sé e di come agire in quel mondo in cui vivono e che spetterà loro traghettare verso il futuro. E tutto ciò non deve, non può, essere confuso né con un generico moralismo, né con un angusto confessionalismo: è semplicemente la messa in pratica di un moderno – ma nello stesso tempo antico – umanesimo.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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